Tradurre da una lingua che nulla ha in comune con la nostra

INTERVISTA A ELENA LOEWENTHAL

di Paola Mazzarelli

Elena Loewenthal, dottore di ricerca in ebraistica, lavora da anni sui testi della tradizione ebraica e ha pubblicato numerose opere sull’ebraismo e sulla cultura ebraica del passato e del presente, tra cui Favole della tradizione ebraica (Arcana, 1989 e 1995), Il Libro di Eldad il Danita (fattoadarte 1993), Figli di Sara e Abramo. Viaggio fra gli ebrei d’Italia (Frassinelli 1995) e, insieme a Giulio Busi, Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo (Einaudi 1995). Ha curato l’edizione italiana dell’Atlante storico del popolo ebraico (Zanichelli 1995). Sta lavorando inoltre per Adelphi all’edizione italiana dell’opera di Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, in sette volumi, di cui tra il 1995 e il 2003 sono usciti i primi quattro.

Leowenthal svolge anche un’intensa attività di traduttrice della letteratura di Israele (Amoz Oz, Meir Shalev, Aharon Applefeld, S. Y. Agnon, Zeruya Shalev e molti altri) per cui ha ricevuto nel 1999 un premio speciale del ministero dei Beni e delle attività culturali e nel 2003 il premio Monselice.

È inoltre autrice di libri per ragazzi (tra cui I bottoni del signor Montefiore e altre storie ebraiche, Einaudi Ragazzi 1997, Premio Andersen 1997) e alcune opere di narrativa (tra cui i romanzi Lo strappo dell’anima. Una storia vera, Frassinelli 2002, premio Grinzane Cavour autore esordiente; Attese, Bompiani 2004; Dimenticami, Bompiani 2006; Conta le stelle se puoi, Einaudi 2008).

Una volta mi hai detto che tradurre dall’ebraico per noi significa, rispetto a lingue più simili alla nostra, «tradurre senza aver niente in comune». Ecco, vorrei che tu spiegassi meglio che cosa intendevi dire.

Tradurre senza avere nulla in comune: dal punto di vista linguistico può suonare come una ulteriore difficoltà in un’attività già di per sé complessa com’è la traduzione. Ma quando si traduce si parte dal presupposto – per lo meno, così faccio io – che non esiste il testo intraducibile. Qualunque testo è traducibile. Si tratta di essere sempre consapevoli che non tutto è facile e che c’è qualcosa che inevitabilmente sfugge nel passaggio da una lingua all’altra. Ma questo riguarda tutte le lingue, non solo quelle che sono distanti tra loro. In compenso, io credo che ci sia qualcosa che arriva nella lingua di destinazione, che acquisisce delle sfumature, dei sensi e dei colori che possedeva – ma solo potenzialmente – e quindi si sviluppa qualcosa di nuovo. In questo senso il discorso sull’inesistenza del testo intraducibile, cioè sul fatto che tutto si può tradurre, potrebbe essere applicato più che mai alle lingue distanti tra loro: ci si immagina che la sfida sia maggiore. Non è necessariamente così; spesso due lingue vicine sono insidiose reciprocamente. Penso al francese e all’italiano, per esempio, dove ci sono somiglianze che ingannano…. Con l’ebraico non si corre mai questo rischio.

In che cosa si traduce questa distanza dell’ebraico dall’italiano?

Nel fatto che di comune non c’è niente, appunto. Traducendo dall’ebraico bisogna tenerlo presente e usare degli accorgimenti particolari. Un esempio è la consecutio temporum. Quando traduci dall’ebraico in italiano devi costruire tu la consecutio temporum dei testi, perché l’ebraico non ha praticamente tempi dei verbi. Ha un perfetto e un imperfetto, il presente si fa con il participio, comunemente si usa l’uno per il passato e l’altro per il futuro, però di fatto indicano l’uno l’azione compiuta e l’altro l’azione che sta scorrendo. Questo significa che traducendo bisogna prendersi delle responsabilità per le scelte che si fanno. Ma questo aspetto fa parte del mestiere.

Quindi in ebraico l’articolazione dei tempi verbali è completamente diversa? È difficile immaginarlo per chi traduce da lingue che da questo punto di vista sono simili.

Più che diversa, è inesistente. E questo a volte rende il tradurre molto complicato. Per esempio, ho tradotto di recente dei racconti di Amos Oz per Feltrinelli, che non sono ancora usciti, in cui l’autore racconta la vita in kibbutz e senza soluzione di continuità passa dalla situazione abitudinale, cioè dalla descrizione di situazioni comuni del kibbutz, all’episodio in questione. In casi del genere è sempre molto difficile capire qual è il passaggio dalla descrizione generica all’evento specifico. Però per renderlo in italiano bisogna farlo. Quindi di volta in volta ci si piglia la responsabilità della decisione. Si va avanti con l’esperienza. E con un po’ di intuito.

Certo, questo di solito non succede a chi traduce dalle lingue europee. Anche se ogni lingua ha le sue specificità e le sue difficoltà, l’impianto sintattico sostanzialmente è simile. Tu hai tradotto anche da altre lingue europee, però.

Non molto. Un po’ dall’inglese. Ma un’esperienza particolare è stata la traduzione, che ho finito di recente, di Vengeance du traducteur, di Brice Matthieussent, un libro che avevo recensito sulla «Stampa» tempo fa e che poi Marsilio ha comprato e mi ha chiesto di tradurre. In Italia si chiama La vendetta del traduttore. È un romanzo in cui c’è un traduttore che riscrive nelle note a piè pagina il romanzo mediocre che sta traducendo e via via di fatto lo elimina. Ma questa è una descrizione semplicistica, perché in quel libro c’è molto di più. Comunque, io l’ho preso un po’ come un divertissment, un esercizio e una sfida, e anche come una sorta di riflessione teorica. Ho fatto una postfazione, infatti. Ti ho portato questo esempio perché, lavorando a quella traduzione, ho proprio riflettuto su quanto l’ebraico chieda al traduttore. Per tornare a quello che stavamo dicendo, quando traduci dal francese sostanzialmente la costruzione della frase è quella. Con l’ebraico invece devi ripensare tutto, dal lessico alla costruzione dei tempi all’ordine della frase. Non c’è una frase che tu possa prendere e mettere lì così com’è: la posizione degli elementi che la compongono va organizzata in tutt’altro modo. Riprodurre quella dell’ebraico è assolutamente improponibile.

Questo vale anche per la scansione delle frasi?

Anche, sì. Ma forse meno. L’ebraico ha poca sintassi, per lo più paratattica. In italiano un po’ la frase devi costruirla, metterci una relativa, una temporale. Questo aspetto è tutto da fare e compete al traduttore.

Anche traducendo dall’inglese qualche volta si interviene sulla sintassi, soprattutto, mi sembra, con l’introduzione di frasi relative, che sono così naturali all’italiano. Però non sono certo interventi dell’entità di quelli che mi stai dicendo.

In ebraico questi aspetti sono portati all’estremo. C’è anche il fatto che l’ebraico non ha frasi dipendenti, ma fa degli incisi. È chiaro che quando traduci devi inserire delle frasi dipendenti, perché quella è la sintassi dell’italiano. Un altro aspetto è la mancanza degli aggettivi.

Però nelle tue traduzioni gli aggettivi ci sono.

Certo. Anche in ebraico qualche volta ci sono, ma sono pochissimi. Per raccontare un’immagine, l’ebraico usa magari dei sostantivi o delle sequenze di sostantivi. Traducendo cerchi di legarli insieme e di farne un aggettivo. Insomma, ci si deve lavorare sopra parecchio, riuscire a legare ciò che è staccato. È sempre tutto un po’ sincopato, nell’ebraico. Questo naturalmente non vuol dire che non ci siano scrittori molto complessi. Anzi. Però la complessità si esprime in modo diverso, con sequenze di frasi, appunto, e con richiami interni al testo, non in una sintassi articolata come la pensiamo noi.

L’ebraico è una lingua molto antica, quella biblica, che poi è stata recuperata, vero?

Sì, è stata recuperata grosso modo centoventi anni fa, come lingua di Israele. Ma è sempre la stessa lingua. Non è mai stata dimenticata, perché era conosciuta e frequentata come lingua dei testi, lingua letteraria in senso lato. È stata ricostruita nel senso che sono state create le parole contemporanee necessarie, ma il sistema della lingua è rimasto intatto. Come tutte le lingue semitiche, l’ebraico è fondato su radici di tre consonanti che a seconda dei suffissi, dei prefissi e delle vocalizzazioni diventano verbi, nomi, etc. Quindi con una radice si possono sempre creare termini nuovi, che di fatto esistono già potenzialmente. Quando la lingua è stata riportata in uso, non è stato inventato nulla, si è semplicemente applicato il sistema per creare i termini nuovi necessari. Ma l’impianto della grammatica e la struttura sono rimasti invariati.

Quindi l’ebraico moderno – quello della letteratura israeliana moderna – contiene moltissimi echi biblici.

Sì. Li trovi a tutti i livelli, più profondi e più epidermici. Anche negli scritti apparentemente più distanti dalla tradizione.

Queste risonanze bibliche in italiano difficilmente verranno recepite. Ammesso che si possano trasmettere.

Sì, è molto difficile. Quella è proprio una delle cose che non passano. Del resto, è ovvio. Il lettore in ebraico ha un suo sistema di riferimento in cui la Bibbia è presente. Così come il lettore italiano ha un suo sistema di riferimento, in cui ci sono, che so, Dante o i classici. Almeno, così era. Adesso non so bene quale sia il sistema di riferimento dell’italiano. Comunque, si tratta di un sostrato che la lingua si porta dietro. Ogni lingua ha il suo. Per il lettore israeliano (forse anche per lui oggi un po’ meno di una volta) in quel sostrato c’è inevitabilmente la Bibbia, quindi lui coglie tutto uno spessore di significati, o quanto meno sente una familiarità, che può anche non riconoscere perfettamente, ma che avverte in ogni caso. Il lettore italiano non può sentire quegli echi perché la Bibbia non fa parte del suo universo mentale.

Quindi questo aspetto, per quanto rilevante possa essere, in traduzione va perso.

Sì, in gran parte va perso. Si cerca di supplire con una traduzione che abbia una sua musicalità, da un punto di vista sonoro. Una sua grazia…

A questo proposito, volevo chiederti in che misura puoi mantenere il ritmo del testo originale. Oggi del ritmo – cioè della necessità di riprodurre il più possibile il ritmo della lingua d’origine – si parla molto tra coloro che si occupano di traduzione.

Con l’ebraico non è possibile rendere il ritmo. È una lingua troppo distante. Ad esempio, in ebraico la ripetizione di uno stesso termine a distanza ravvicinata è un accorgimento letterario di carettere estetico. In italiano è esattamente il contrario, di solito diventa ridondanza. Io, se è possibile, un po’ la mantengo, però riprodurre l’andamento del testo è impossibile, per quella distanza di cui ho detto. E meno che mai si può immaginare di riprodurre il suono, perché l’ebraico è una lingua piena di gutturali. Insomma, il ritmo è impraticabile già a partire dal suono. Quello che si fa, di fatto, è dare un bel testo. Ecco, questo per me è fondamentale. Più vado avanti, più mi rendo conto che è importante rispettare la lingua di destinazione, perché il lettore deve leggere un testo che funziona nella sua lingua.

Gli esperimenti di traduzione della Bibbia di Erri De Luca li conosci? Te lo chiedo, perché mi sembra che De Luca vada nella direzione opposta.

Sì. Lui fa un tentativo di traduzione interlineare. È un’operazione rispettabilissima, ma non va certo nella direzione della comunicazione. Io faccio l’operazione opposta. Recentemente ho tradotto dei profeti minori per Einaudi e ho cercato di fare una traduzione molto comunicativa. Ho addirittura tolto i numeri dei versetti – spero che l’editore me lo passi – in modo che ne venisse una sorta di narrazione. Ho cercato una linea per rendere il testo il più comunicativo e diretto possibile, compatibilmente con il fatto che si tratta di un testo biblico. Perché penso che per il lettore originale era così.

E qui torniamo a quello che si diceva all’inizio, delle scelte che fai e della responsabilità che ti assumi. Sono anche scelte impegnative. Non voglio dire scelte arbitrarie, perché tu le fai senz’altro a ragion veduta. Diciamo che sono scelte di grande libertà.

Per forza. Fai continuamente scelte impegnative, che dipendono da molte cose. Ti faccio un esempio. Nella traduzione di Appena ieri, di Agnon (Einaudi 2010), che è un grande classico della letteratura ebraica – un po’ come Manzoni per noi, salvo il fatto che Agnon è morto nel 1970 – ho fatto la scelta drastica di tradurre i nomi di luoghi e di persone. Di solito non lo faccio. Se c’è Itzhak in un romanzo lo lascio, non traduco Isacco. Ma nei racconti di Agnon l’ho fatto non solo coi nomi di persona, ma anche con quelli dei luoghi. Per esempio, Petakh Tikwah, che in qualunque altro libro avrei lasciato così, là diventa Porto della Speranza. Il libro è ambientato nei luoghi ebraici delle origini del sionismo e i nomi hanno un significato simbolico o contengono un’eco biblica. Per questo ho deciso di tradurli. Mi sembrava che in quella temperie fosse giusto dare al lettore italiano il senso di quei nomi, che poi è quello che viene recepito dal lettore del testo originale. Qualcuno è stato d’accordo con me e qualcuno no. Ma sono convinta della scelta e se tornassi indietro la rifarei. Perché l’efficacia del testo – di quel testo specifico – a mio parere ci ha guadagnato.

Il tuo è sempre un discorso di comunicazione, di attenzione al lettore e alla lingua d’arrivo. In effetti, a mio parere un pregio delle tue traduzioni è la coerenza rispetto alla lingua italiana, il fatto che si possono leggere dimenticando che sono traduzioni.

Sì, un testo deve comunicare. Non dev’essere un testo chiuso, perché il lettore di destinazione ha il diritto di avere, nei limiti del possibile – del fatto cioè che non tutto passa da una lingua all’altra, da un sistema culturale all’altro – un rapporto diretto con il testo. Così come ce l’ha il lettore del testo originale. Questo è l’atto grande di orgoglio, di supponenza da parte del traduttore, che quando traduce scrive cercando di immaginare che cosa avrebbe scritto l’autore se avesse scritto in italiano. Tradurre non è mai un atto meccanico. Lo spirito, l’intuizione, la fantasia – cioè la creatività – sono indispensabili. Una versione “letterale” è spesso più infedele di un’altra che si situa a distanza ragionata dal testo originale. Il traduttore deve imparare anche questo: a valutare le misure e ad assumersi la responsabilità delle sue scelte. E più vado avanti, più mi rendo conto che è importante offrire un testo, a volte anche distante, anche scorretto dal punto di vista del rispetto letterale dell’originale, ma necessario invece nel far avvicinare il lettore e l’autore. Perché l’obiettivo della traduzione è quello.

C’è un’altra scuola di pensiero che è molto più orientata al testo di partenza e all’idea che è necessario forzare eventualmente la lingua d’arrivo per accogliere ciò che le è estraneo. In realtà penso che spesso i traduttori approdano a risultati simili per vie diverse, cioè anche partendo da posizioni teoriche opposte. Anzi, penso che a volte dicono la stessa cosa con parole diverse… Ma questo è un altro discorso.

In ebraico una traduzione che vada di più verso il letterale richiederebbe uno sforzo troppo grande al lettore. Se traduci dal francese, gli puoi chiedere quello scarto, dirgli: io qui lascio un po’ com’è, vedi tu di arrangiarti. Con l’ebraico lo spaeserei completamente. All’inizio tendevo anch’io a una traduzione più letterale. Ma in realtà più vado avanti più mi rendo conto che la traduzione letterale in molti casi è scivolosa, cioè è un’insidia per chi legge. E anche per lo scrittore. E posso dirti che i miei autori, quelli più grandi, lo sanno, lo capiscono benissimo. Poi ci sono alcuni giovani autori un po’ supponenti che invece pretendono una fedeltà che finisce per non rendere giustizia al testo.

E in quei casi come fai?

Bisticcio un po’…

Tu hai rapporti, dunque, con gli autori che traduci?

Sì, certo. Non con tutti. Con Amos Oz, soprattutto, e con Shalev.

Studiare l’ebraico è stata una tua scelta? O lo conoscevi già?

No, l’ho studiato all’università. In realtà non ho mai studiato l’ebraico moderno. Ho studiato l’ebraico biblico e poi, a poco a poco, ho scoperto che mi piaceva immensamente e ho imparato l’ebraico moderno. Non ho neanche fatto le scuole ebraiche. Non ho avuto nessun tipo di educazione ebraica. I miei genitori, come molti figli della Shoah, avendo passato quello che avevano passato, avevano deciso di non darci nessun tipo di educazione religiosa. Ci hanno trasmesso un certo amore per Israele, forse, ma nient’altro.

Quindi è stato un tuo percorso personale?

Sì, un percorso coerente di recupero della mia identità. A cui si è associato il fatto che a me piaceva tradurre. Mi ha sempre divertito, anche al liceo. Di solito agli studenti non piace, a me invece il fatto di mettermi a lavorare su quei testi, di capire cosa volevano dire, piaceva. Con risultati non certamente eccellenti, però c’era il divertimento del tradurre. Così, ho fatto in fretta a fare due più due. Il piacere di tradurre, gli studi ebraici. Ho scoperto che c’era una letteratura ebraica e ho provato a vedere che cosa ne veniva fuori. Le prime traduzioni, se le guardassi ora, sarebbero da buttare. E all’inizio, quando ho cominciato a proporre la letteratura ebraica agli editori, la cosa sembrava assurda.

Hai cominciato tu a proporre agli editori opere da tradurre?

Ho cominciato a mandare agli editori suggerimenti e prove di traduzione quando ero ancora all’università. Spesso quasi ci ridevano sopra. Poi pian piano la letteratura ebraica si è affermata di riscontro: si è cominciato a vedere che negli Stati Uniti, in Francia e in Germania era una letteratura che tirava e che meritava di essere tradotta. E per emulazione si è cominciato a proporla anche da noi.

Oggi infatti si traduce parecchio.

Sin troppo, a volte anche autori che non valgono granché. Adesso poi c’è la moda dei gialli. Ne ho uno anch’io da tradurre, sembra che sia molto carino ma non l’ho letto. È uno dei pochi casi in cui preferisco tradurre senza leggere prima il testo originale. Però è vero che c’è un po’ la caccia agli autori israeliani, ogni editore si sente in dovere di averne almeno uno o due in catalogo. Spesso è solo una moda. Io ho i miei autori e tendenzialmente traduco quelli. Ogni tanto mi piace anche fare qualche novità, ma quello che addesso vorrei battere è il tasto dei grandi classici della letteratura ebraica, cioè degli autori della prima metà del Novecento. In quell’area c’è ancora molto lavoro da fare.

Come funziona il rapporto con gli editori? O meglio, con i revisori? Perché immagino che gli editori non abbiano a disposizione molti revisori che sanno l’ebraico.

Non mi è mai capitato che i miei editori facessero fare la revisione a qualcuno che sapesse l’ebraico. Qualche volta i revisori lavorano con la traduzione francese o inglese, ma in genere prima di intervenire sulla mia, mi interpellano. Un po’ anche perché sanno che le traduzioni in altre lingue, quelle francesi per esempio, a volte partono per la tangente. Un po’ perché di solito gli editori si fidano. Quando ho cominciato a tradurre, non c’era proprio nessuno che sapesse l’ebraico. Adesso forse qualcuno potrebbero trovarlo, ma ormai si è instaurato un rapporto di fiducia che di solito funziona bene.

Tu scrivi anche “in proprio”. La tua attività di traduzione ha rapporto con quella di scrittrice?

Sì, molto. Alterno, o cerco di alternare, sempre traduzione e scrittura, ma sono assolutamente legate, indispensabili l’una all’altra. Per me tradurre è avere un giacimento stilistico e contenutistico formidabile a cui attingere. Ed è anche un esercizio di scrittura. Devo moltissimo, per quello che scrivo, agli autori e ai testi che ho tradotto e allo sforzo che ho fatto per tradurli.