TERZA PARTE DELLA STORIA
di Gianfranco Petrillo
2.5. Dunque è America che diciamo
2.5.1. L’America patria del moderno
Erano passati tre anni da quando Thomas Mann aveva tenuto il suo discorso. Un diciassettenne liceale torinese, nel corso dell’anno scolastico 1925-1926, passò al suo compagno del d’Azeglio, Tullio Pinelli, futuro cosceneggiatore dei capolavori di Federico Fellini, un biglietto in cui esaltava Walt Whitman:
non ama questa o quest’altra azione, ma l’azione per l’azione. Ed esalta su tutto le grandi forze del suo mondo moderno: amore di libertà, amore umano, giustizia, energia, entusiasmo.
Non ha un sistema filosofico, una linea morale. È col pensiero moderno che ha superato la linea di condotta morale. Esalta le forze che ti ho detto, perché gli piacciono. Non altro (W Walt Whitman). Rigetta la grazia, la debolezza, la sentimentalità, perché? Non in nome di una legge divina, ma perché: «Preferisco la forza». E con queste forze contribuisce la «sua unione».
Del resto è un pensiero ballonzolante: esalta la Democrazia, l’Unione degli Stati, poi esalta l’individuo, che è l’opposto.
È un poeta in cui risuona tutta la vita moderna, che relegate le religioni al museo, non ha più linee morali, ha solo la preferenza. (Pavese 1966, 17; i corsivi corrispondono a sottolineature nel testo).
Sembra il ritratto di Nietzsche. Il ragazzo Pavese lo conosceva? Probabilmente no, anche se c’è chi – soffermandosi sull’esperienza di traduzione di Der Will zur Macht nel 1944 – avanza l’ipotesi che abbia letto precocemente Ecce Homo e La nascita della tragedia (Belviso 2015, 19). È probabile, piuttosto, che gli fosse arrivata l’eco dell’articolo in cui Giovanni Papini indicava in Whitman un precursore di Nietzsche (Papini 1908, 698).
Gli studiosi individuano nell’incontro con Whitman le premesse della poetica di Cesare Pavese. A noi piacerebbe sapere se l’acuto ragazzo avesse letto Leaves of Grass, cioè il testo originale in inglese (del 1855 la prima edizione, poi riveduta, ampliata, censurata, distorta…), o Foglie d’erba, scritto da Luigi Gamberale per la palermitana Sandron e pubblicato nel 1907, cioè l’unica, e incompleta, traduzione italiana esistente allora. In ogni caso gli avevano aperto la strada vociani e futuristi: di Whitman «prima Papini, poi Marinetti e i futuristi avevano fatto l’eroe emblematico dell’antiaccademismo e dell’antiletteratura […] campione d’una vita sana, vigorosa e primitiva», osservava già Dominique Fernandez (1969, 11).
Sta di fatto che sembrerebbe essere Whitman, poi letto certamente in originale per la tesi di laurea, a indirizzare verso la letteratura americana il giovane letterato. Ma non saremmo altrettanto sicuri per quanto riguarda l’America in genere, l’America in quanto tale, l’America patria di quella letteratura.
Il “mito americano”, così come l’antiamericanismo, nacque in Italia, anzi in Europa, ben prima che lo lanciassero, secondo la vulgata corrente, Pavese e Vittorini. Fin dal 1906 lo studioso socialista tedesco Werner Sombart, chiedendosi Warum gibt es in den Vereinigten Staaten keinen Sozialismus (Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo), aveva descritto quello che viene chiamato “l’eccezionalismo americano”, ossia la differenza tra cultura europea e cultura americana, descrivendo quest’ultima come sostanziata dagli effetti della civiltà industriale che aveva dato avvio all’«era economica»:
la distruzione della fede, l’ancoramento al mondo terreno, l’individualismo, l’ideologia e la pratica politica liberale, la fede nella potenza della tecnica, il predominio di una ratio economica sulle altre ragioni più impalpabili, la scomparsa della selezione naturale e il decadimento della razza, la diffusione del benessere, la considerazione delle macchine domestiche come invenzioni a vantaggio dell’umanità, la trasformazione del superfluo in necessario, la produzione di merci, la dissoluzione delle piccole comunità, l’urbanizzazione, la creazione di spostati. (Nacci 1989, 20)
È quanto, all’indomani della prima guerra mondiale, furoreggiò, proprio sul modello americano, nella Germania weimariana, alimentando in letteratura – l’abbiamo visto – la Neue Sachlichkeit. Benché non con tanto vigore, tuttavia anche nel resto d’Europa, a cominciare dalla stessa Francia, la novità americana, l’inconsueto americano, l’eccezionale americano, insomma il moderno americano, aveva preso piede, portato dai mezzi tecnologici moderni: l’automobile, l’aeroplano, il telefono, il fonografo, il cinema, la radio. Con l’avvento del sonoro – contemporaneo all’esplosione della Grande Crisi del 1929 – il cinema americano divenne poi sempre più consumo di massa, come la musica da ballo. Scriveva Pavese il 2 aprile 1932 all’amico italo-americano Tony Chiuminatto, suo procacciatore di droga linguistica, letteraria e musicale: I hope I’ll buy my next records right there in God’s Country (Pavese 1966, 332: Spero di comprarmi i prossimi dischi direttamente lì nel Paese di Dio). La sua patria ideale non era fatta solo di letteratura, di traduzioni: «Fu anche il decennio in cui parve che musica e cinematografo dessero un originale scossone alla nostra viziata sensibilità europea» (Pavese 1947, 169). E Vittorini, nel 1936: «E ci fu grammofono e Wanna lot of love, un solo disco già rauco» (Vittorini 1936, 12: Wanna Lot of Love era uno dei successi della grande orchestra del cubano-americano Don Azpiazú, allora in gran voga). A ridosso di quel biglietto a Pinelli, Pavese gli scriveva ancora:
Ora io, non so se sia l’influenza di Walt Whitman, ma darei 27 campagne per una città come Torino. La campagna sarà buona per un riposo momentaneo dello spirito, buona per il paesaggio, vederlo e scappar via rapido in un treno elettrico, ma la vita, la vita vera moderna, come la sogno e la temo io è una grande città, piena di frastuono, di fabbriche, di palazzi enormi, di folle e di belle donne. (Pavese 1966, 35)
La sua opera non sarà coerente con questa affermazione, che è rivelatrice di una tendenza, direi, ideologica, non di un’ispirazione. D’altronde l’incoerenza e la contraddizione erano insiti anche nel modello americano.
Ma questi sono scampoli della generazione formatasi dopo la “grande guerra”. L’America letteraria era già ben praticata anche da quella precedente. Solo che, se si sta solamente al dibattito letterario e non alle letture diffuse, si trattava di un’America non nuova, non inconsueta, non eccezionale, insomma non moderna: europea, ecco. Ci si arrivava facilmente tramite il moderno europeo Baudelaire scopritore di Poe. Era un’America appendice dell’Europa, a cominciare dall’Inghilterra. Così ne parlavano Mario Praz, Emilio Cecchi, Carlo Linati, i precursori, attenti a ciò che si scriveva in America, capaci di avvertire il moderno che vi si trovava, ma per condannarlo: indecente, immorale, volgare, di cattivo gusto; un mondo in cui la macchina assurgeva a «simbolo tetro di una mentalità e civiltà materialistico-utilitaristica»(Carducci 1973, 89). E pronti ad avvertire quanto in quella letteratura era legato alla tradizione europea, non solo per elogiarlo ma, abbastanza spesso, per denunciarne la estenuata ripetizione. È questo il caso di quel gioiello di narrazione classica che è The Bridge of San Luis Rey di Thornton Wilder (1897-1975), non a caso uno dei pochissimi scrittori americani contemporanei che, con Edith Wharton e Willa Cather, «salutari effetti d’una giudiziosa contaminazione europea», sfuggivano alla mannaia di Emilio Cecchi, che si abbatteva invece su «quei collezionisti di aberrazioni e di mostruosità psico-sessuali che sono Hemingway, Faulkner, Steinbeck, Caldwell, o James Cain». Ma non sfuggiva a quella di Praz, che lo reputava un plagiario di Madame de Sévigné e di Mérimée, «un sapiente selvaggio che raccoglie le briciole della mensa degli dei» (Fernandez 1969, 19, 29 e 56).
In italiano Il ponte di San Luis Rey apparve nel 1929, appena due anni dopo l’edizione originale. Era opera di un singolare personaggio, Lauro De Bosis (1901-1931). Padre italiano e poeta (Adolfo, fondatore della estetizzante rivista prebellica «Il Convito»), madre americana, Lilian Vernon, De Bosis si nutrì di studi classici, di cui fu frutto la traduzione di alcune tragedie greche, e che applicò nella traduzione di un classico della storia delle religioni, The Golden Bough di James Frazer (Il ramo d’oro, Roma, Stock, 1925: tuttora ripubblicato periodicamente da diverse case editrici), lettura decisiva per il giovane Pavese nel 1933, propedeutica a tutta la sua passione e dedizione per questi temi (Gigliucci 2014). Il perfetto bilinguismo fece chiamare De Bosis in America, dapprima alla Italy America Society, a New York, poi a Harvard a insegnare letteratura italiana e infine, dal 1928, come segretario generale della stessa Society. In quell’ambiente saturo di filofascismo (Santoro 2003), ma soprattutto in seguito alla morte di Piero Gobetti e Giovanni Amendola, maturò il suo ripensamento sul fascismo, da lui considerato in un primo tempo, come da molti altri liberali conservatori – a cominciare da Benedetto Croce –, il restauratore dell’ordine contro il sovversivismo rosso. Dopo il Concordato, che saldava cattolicesimo istituzionale e regime, rientrato a Roma in congedo temporaneo, cominciò un’intensa attività volta a unire le forze antifasciste monarchiche e cattoliche in una «Alleanza nazionale per la libertà» e a diffondere materiale di propaganda da lui stesso elaborato sotto questa denominazione. Il suo movente principale era di non lasciare ai “bolscevichi” da un lato e agli acattolici dall’altro il monopolio dell’opposizione al regime. Mentre si trovava di nuovo a New York per presentare le dimissioni dalla Society, nella quale la sua posizione si era fatta insostenibile, a Roma sua madre e l’amico Mario Vinciguerra, che collaboravano alla sua attività clandestina, vennero arrestati. Nel dicembre del 1930 Vinciguerra (a sua volta grande traduttore di saggistica storica) fu condannato a quindici anni di reclusione, mentre la madre fu assolta perché aveva scritto una lettera di sottomissione a Mussolini. Il guaio fu che anche de Bosis aveva scritto poco prima una lettera analoga, in quanto convinto dall’ambasciatore italiano a Washington che fosse indispensabile per regolarizzare le dimissioni. E le due lettere vennero lette pubblicamente durante il processo. Nelle sue peregrinazioni per l’Europa al rientro dall’America, dopo aver rinunciato a costituirsi a Roma, quella lettera gli fu duramente rinfacciata dagli esuli antifascisti, inducendolo a compiere un gesto clamoroso che gli restituisse l’onorabilità. Fattosi prestare il denaro necessario, comprò un aeroplano, prese lezioni di pilotaggio e, dopo diverse disavventure, il 3 ottobre del 1931 partì da Marsiglia, giunse sopra Roma e – sull’esempio di d’Annunzio su Vienna nel 1918 e del militante di Giustizia e libertà Giovanni Bassanesi su Milano l’anno prima – lanciò sulla città centinaia di volantini di propaganda antifascista contenenti un appello al re (il quale ovviamente si guardò bene dal raccoglierlo). Ma al ritorno l’aereo rimase probabilmente senza carburante e s’inabissò in mare (Vigilante 1987). Oggi a Roma è intitolato a Lauro de Bosis il largo del Foro Italico (già Mussolini) dove si erge l’obelisco Dux.
2.5.2. Fascismo e modernità
La casa editrice del Ponte di San Luis Rey era la Modernissima, cioè Gian Dàuli. Quanto a posizione nei confronti del fascismo, l’abbiamo visto, costui non era certo d’accordo con De Bosis. Dell’America e della sua letteratura però subì il fascino moderno. Ad aiutarlo era stato l’incontro con l’americana, trapiantata a Roma, Edith Carpenter, con la quale si era sposato nel 1913. Come quasi sempre quando si tratta di donne traduttrici, di lei non sappiamo nulla, se non ciò che proviene di riflesso dallo stesso Gian Dàuli. Però è significativo che le prime traduzioni da Jack London, per le opere del quale Dàuli lanciò nel 1924 presso Modernissima una collana apposita, siano firmate da entrambi, lei con lo pseudonimo Dienne Carter. E già l’anno dopo, nell’ondata di ben sei titoli londoniani sfornati contemporaneamente, figurava Il tallone di ferro, traduzione – prima in Italia – di Gian Dàuli da The Iron Heel, il primo romanzo di fantapolitica distopica, precursore di The Brave New World di Aldous Huxley e di 1984 di George Orwell. In seguito, per un’intera generazione di socialisti costretti al silenzio, la descrizione del regime dittatoriale che vi era contenuta sarebbe stata la rappresentazione di ciò che proprio quell’anno iniziava a compiere Mussolini. L’originale era del 1908, ma lo si sentiva attuale. D’altronde, già quattro anni prima, era stata la casa editrice Avanti!, diretta da Aldo Oberdorfer, a pubblicare 100%. Storia di un patriota, tempestiva traduzione di 100%. The Story of a Patriot (1920) di Upton Sinclair, uno scrittore americano dichiaratamente socialista, impegnato a denunciare le malefatte del capitalismo e della wage slavery, la «schiavitù del salario», come ebbe a commentare proprio il suo amico e compagno socialista London (Greenstein 2000).
Il traduttore di 100%, e probabilmente il suo proponente, si chiamava Arturo Caroti (1875-1931) e traduceva davvero dall’inglese, in quanto conosceva bene la lingua per aver trascorso otto anni, dal 1905 al 1913, negli Stati Uniti, dove si era rifugiato in seguito a una condanna dovuta alla sua attività socialista e dove aveva praticato il giornalismo. Giunta un’amnistia, ne era tornato nel 1913 ed era stato eletto deputato al parlamento nelle file del partito socialista. Proprio nel 1921 partecipò alla nascita del partito comunista. Nel 1924 si rifugiò in Russia, imparò anche il russo e riprese a scrivere romanzi per ragazzi in quella lingua come già aveva fatto in precedenza in italiano (Tomassini 1975).
Occorre fare mente locale a quel momento. C’era grande confusione, sotto il cielo italiano. Il fascismo, benché detenesse ferreamente il potere, non era ancora propriamente regime; una componente importante del suo movimento era costituita da ex socialisti rivoluzionari e anarco-sindacalisti, che se ne aspettavano un rivolgimento sociale, una “rivoluzione” tutta italiana: esattamente il contrario dei De Bosis e dei Croce, conservatori. Così esso veniva vissuto – che non significa tout court da tutti condiviso – dalla generazione che si affacciava allora alla consapevolezza, quella dei Pavese e dei Vittorini, per intenderci, nati entrambi nel 1908. Coloro che nutrivano queste aspettative si riconoscevano nella modernità di massa qual era quella rappresentata nei romanzi naturalisti americani, che abbiamo visto essere modello della Neue Sachlichkeit. D’altronde uno storico nazionalista come Gioacchino Volpe, che fino all’ultimo volle credere in lui, ancora nel 1939, nella Storia del movimento fascista definiva Mussolini, adottando non a caso una terminologia americana, «l’uomo della strenuous life, della macchina rombante e della velocità» (Belardelli 2005, 123). Questa confusione si trascinò ben dentro gli anni d’oro del regime, dal 1929 al 1938, quando si arrivò addirittura a trovare paralleli tra corporativismo fascista e New Deal rooseveltiano (Diggins 1972, 368); e i posteri, nel tentativo di capirci qualcosa, hanno finito col distribuire le parti secondo un copione preconcetto, che affidava agli intellettuali antifascisti il ruolo degli innovatori – anzi, agli innovatori quello di antifascisti – e al regime quello dell’occhiuta chiusura a ogni novità.
Un caposaldo della narrativa naturalista americana fu An American Tragedy (1925) di Theodor Dreiser, che comparve in italiano in traduzione anonima, Una tragedia americana, proprio nel 1930, all’indomani del Concordato e dello scoppio della crisi economica mondiale. A pubblicarla era l’editore Nicola Moneta di Milano, che l’anno dopo pubblicò anche la versione del primo romanzo di Dreiser, Sister Carrie (1900), come La sorellina Carrie. In questo caso il nome della traduttrice, Mariquita Pizzotti, comparve solo nell’edizione postbellica, che uscì nel 1946 col titolo cambiato in Il cammino di una donna. Di Pizzotti, che risulta autrice solo di quest’opera, vorremmo sapere di più, così come dell’editore Moneta, vittima ai nostri occhi di posteri – come tanti altri suoi colleghi “minori” di quegli anni – della dispersione dell’archivio. Invece, del libro che più di ogni altro interpretava la modernità di massa americana, Manhattan Transfer di John Dos Passos, anch’esso del 1925, si ebbe la traduzione italiana solo nel 1932, ben tre anni dopo – s’è visto – quella di Berlin Alexanderplatz, che lo prendeva a modello. Anche nel caso di New York (questo il titolo italiano) si trattava del lavoro dell’alacre Alessandra Scalero per Modernissima.
Non altro che il caso fu a volere che questa traduzione uscisse contemporaneamente al Moby Dick pavesiano. Non potrebbe esserci però coincidenza più significativa. Da un lato un editore, Gian Dàuli, inequivocabilmente fascista, che inalberava il romanzo-verità, il romanzo-documento, prettamente moderno; dall’altro Antonicelli, inequivocabilmente antifascista, che inseriva nel canone italiano il classico del realismo simbolico. Quale dei due più filoamericano? Quale dei due più “moderno”? Molti anni dopo Vittorini condivise con Pavese il rifiuto di inserire Dos Passos, da lui ritenuto «falso e arido» (citato da Esposito 2011, 90), tra gli scrittori antologizzati in Americana (Pavese 1966, 556 nota), indice della comune ambizione ad appartenere a una tradizione letteraria che si asteneva dal verismo e aspirava al mito. Non si troverà mai, né nell’uno né nell’altro, un qualsiasi apprezzamento per uno scrittore della Neue Sachlichkeit. A dire il vero, tranne per Kafka, non c’è apprezzamento neanche per alcun autore di lingua tedesca.
Dàuli si sporcava volentieri le mani con romanzi che descrivevano una realtà di massa scandalosa non solo per ciò che vi era dentro – prostituzione, razzismo, erotismo, omosessualità ecc. -, ma anche per la loro crudezza e immediatezza stilistica e linguistica, lontana mille miglia dalla tradizione letteraria nazionale (e nazionalista) italiana (Marchetti 2017). Tuttavia, in quanto traduttore, la sua passione per Jack London e un altro paio di autori minori non basta a farne un americanista; e, anche come editore, il suo merito principale era il fiuto per il nuovo in genere, ma non pare che esso lo abbia condotto a scoperte clamorose. D’altronde, ad affiancarlo – se non addirittura a fare le sue veci – alla Modernissima c’era appunto Alessandra Scalero, grande professionista, come s’è già detto, non solo della traduzione ma anche dell’editoria. Nell’aprile del 1930 era arrivata ad affermare, scrivendo alla sorella Liliana: «Tutto ciò che riguarda la Modernissima è in mani mie, e Gian Dàuli non sa più nemmeno quel che c’è da fare quando non ci sono io» (Bolchi 2018). Era stata quindi probabilmente lei, oberata di lavoro, ad affidare a Liliana la traduzione a tambur battente di Babbitt (1922) di Sinclair Lewis, allora appena insignito del premio Nobel. Non fu il Moby Dick pavesiano ad aprire la strada al romanzo americano in Italia, ma semmai, dopo il London di Caroti e Dàuli, il Sinclair Lewis delle sorelle Scalero. «È con il Nobel assegnato nel 1930 a Sinclair Lewis che il quadro si amplia al romanzo contemporaneo» (Esposito 2018, 68).
2.5.3. Sinclair Lewis apre la strada
Il neolaureato Pavese recensì immediatamente su «La Cultura» il Babbit di Liliana Scalero, esprimendo le sue riserve sulla struttura narrativa e concedendo dignità solo alla lingua. Però in privato ammetteva che il romanzo «è il quadro più completo dell’America contemporanea nel suo intero carattere» (Pavese 1966, 172-3). E subito dopo fu pronto ad accogliere l’invito di Arrigo Cajumi a tradurre un altro – e ormai vecchio – romanzo di Lewis, Our Mr Wrenn (1914), per la collana di Bemporad «I romanzi della vita moderna», della quale s’è già detto a proposito degli Zeitromane tedeschi. Il nostro signor Wrenn, uscito nel 1931, è il vero esordio di Pavese traduttore, un anno prima di Moby Dick (al quale però lavorava già dagli anni dell’università). Nell’introduzione egli rivelava l’ambivalenza della sua immagine dell’America, che già si poteva cogliere nel suo innamoramento per Whitman: da un lato la realtà affascinante per la sua modernità, dall’altro un mito immobile, tutto letterario (Stella 1977, 27).
Due anni dopo Pavese tradusse perfino il primo volume della trilogia newyorchese del ben più ardito Dos Passos, 42th Parallel (1930). Un giovanissimo studente di filosofia dell’Università di Milano, allievo di Antonio Banfi (che abbiamo visto amico e compagno di studi di Lavinia Mazzucchetti in quanto entrambi allievi di Piero Martinetti prima della prima guerra mondiale), Luciano Anceschi, futuro maestro di estetica, il 9 luglio 1933 recensì Il 42° parallelo su una rivistina giovanile, «Orpheus», sotto il significativo titolo Nuova obiettività (Ben-Ghiat 2000, 92 e nota), che ha tutto il sapore di una possibile traduzione di Neue Sachlichkeit. Il che, se si tiene conto di quanto s’è detto a proposito di traduzioni dal tedesco, non significa affatto che tra quei giovani si stabilisse un nesso tra romanzo americano e democrazia, quale, secondo la studiosa americana, avrebbe già allora stabilito Pavese, e lui solo. No, neanche lui invece. La traduzione di questo libro di Dos Passos era agli antipodi delle sue prove precedenti – non solo il capolavoro melvilliano (e suo), ma anche Riso nero (1932) da Dark Laughter (1925) di Sherwood Anderson (1876-1941), sempre per Frassinelli/Antonicelli – e in genere, benché molto più in sintonia con quella sua antica dichiarazione d’amore per la vita urbana, agli antipodi anche della sua più autentica vena di poeta e di narratore. La buona retribuzione concessa da Mondadori per la «Medusa» fu certamente decisiva per la sua accettazione dell’incarico. Scriveva a Enrico Piceni, responsabile della collana, il 30 gennaio 1933: «attualmente traduco per vivere» (Pavese 1966, 360).
In quella stessa lettera il giovane torinese pregava Piceni di procurargli «New York (Manhattan Transfer) tradotto da A. Scalero per dare un’occhiata a quello stile italiano». Aveva di quella traduttrice un’altissima stima. Nel 1932 Scalero era già impegnata «con un editore» a tradurre Moby Dick quando Pavese aveva ormai pronto il suo per Frassinelli. Il giovane si era affrettato a scriverle, il 22 maggio: «Spero che Lei non avrà già intrapreso la fatica per trovarsi ora a metà con la strada tagliata. Mi dispiacerebbe, non perché sia impossibile far di meglio – specialmente da parte Sua – ma per l’involontaria concorrenza» (Pavese 1966, 336).
Cajumi pubblicò, nel 1935, un altro romanzo famoso di Lewis, Main Street (vecchio ormai di dieci anni) nella traduzione di tale Giorgio Liebman, di cui ci è nota soltanto un’altra traduzione: la biografia di Metternich di Arthur Herman per il Corbaccio, del 1933. Quanto a Giulio Peluso, traduttore di Free Air (1919), pubblicato nei «Romanzi della palma» mondadoriani col titolo L’amore in automobile nel 1933, sappiamo solo che, oltre che di un altro paio di traduzioni, era coautore di un opuscolo su Fiesole e i poeti, pubblicato senza data da un’associazione culturale locale, in solido con Luca Ronci. Costui si segnalava a sua volta per aver scritto anche libri con titoli che suonavano Aurea Roma e 10 grandi condottieri e che rendono ancor meno convincente di altri casi analoghi la sua conversione al comunismo, sancita nel 1945 con un librino intitolato Rivoluzione, pubblicato a Milano da Agnelli.
Altro traduttore di Lewis si trovò a essere Luigi A. Garrone (1886-1950), già giornalista sportivo che collaborava a «Il Calcio illustrato» (Giani 2017, 17). Intorno al 1933 fu radiato dall’albo per antifascismo e costretto a inventarsi altri mestieri per campare: traduttore, scrittore di libri per ragazzi (Buffalo Bill l’eroe del Far West. Vita e avventure, Milano, Aurora, 1936), di racconti per ragazze su «Novella» e, infine, dal 1940 attore cinematografico a Roma in particine comiche, stentando la vita (Kezich 2002, 32), ma mai rinnegando le proprie idee. Il 24 marzo del 1944, a 58 anni, sospetto di attività antifascista, era detenuto a Regina Coeli da 74 giorni e doveva essere ancora interrogato, circostanza che forse lo salvò quando i tedeschi prelevarono alcuni suoi compagni di cella per trucidarli alle Fosse Ardeatine (Troisio 1944). Uscito di prigione alla liberazione della città, di questa terribile esperienza parlò lui stesso in un libretto uscito poco dopo, Io e le SS (Roma, Margutta editrice). La sua traduzione di Dodsworth (1929) di Sinclair Lewis era uscita da Treves in due volumi nel 1933.
Nonostante la fama di cui era già circondato Francis Scott Fitzgerald in patria e in Francia, pressoché inosservato passò allora Gatsby il magnifico, la traduzione di seconda mano, compiuta da Cesare Giardini, del suo The Great Gatsby, uscita nel 1936; ho già avuto occasione di accennarvi nella prima puntata di queste note (https://rivistatradurre.it/2019/05/che-ti-dice-la-patria-1/). La notorietà in Italia giunse solo dopo il successo del film Il grande Gatsby di Elliott Nugent, protagonista Alan Ladd, nel 1949, quando Mondadori si affrettò a far ritradurre con quel titolo il romanzo da Fernanda Pivano per la «Medusa», dove uscì l’anno dopo.
2.5.4. La terra e la città
Tra Lewis e Dos Passos, per Pavese traduttore c’era stato in mezzo Sherwood Anderson, nel tradurre il quale, però, era stato preceduto da Ada Prospero nel 1931, con Solitudine, da Winesburg, Ohio (1919), per la Slavia, nella collana «Occidente» diretta da Silvio Polledro, fratello dell’editore, che con essa cercava di competere con Dàuli. Fin dalla preziosa Prefazione di Italo Calvino alla raccolta di saggi di Pavese, del 1951, è noto il peso che questo autore del Midwest ebbe per la riflessione del giovane aspirante scrittore sul rapporto tra provincia e mondo, tra lingua locale e lingua nazionale, che lo spinse a stabilire addirittura un parallelismo tra Midwest e Piemonte. Ciò significava anche scoprire il nervo nascosto del problema della letteratura italiana in quel cruciale momento di transizione del paese verso una civiltà urbana moderna. Era questo, infatti, ciò di cui parlavano gli scrittori americani; era questo il nodo da sciogliere; qui stava la ragione dell’ambivalenza stessa della lettura degli americani da parte del giovane Pavese, che prima che in lui era in loro: chi, come Anderson e Dos Passos, affrontando quel nodo dal bandolo della metropoli, chi, come – a due estremi opposti – Lewis e Faulkner, da quello della campagna e della provincia. Ora diventava attuale anche nell’Italia modernizzata dal regime fascista.
Gli anni trenta furono quelli in cui la crisi mondiale spinse il fascismo a imboccare la strada dell’economia mista, capitale pubblico – capitale privato, imperniata sulla grande industria sorretta dalle commesse civili e soprattutto belliche dello stato e finanziata dalle banche di interesse pubblico, consolidando un sistema che per singoli provvedimenti e singole iniziative si era già profilato all’indomani della prima guerra mondiale, con la crisi dell’Ansaldo e della Banca di sconto, e si prolungò fino agli anni ottanta, inserendo l’Italia nel novero dei più avanzati paesi del mondo. Grande industria significa città, come in America. Nasceva il “triangolo industriale” Milano-Torino-Genova. E per il regime il problema politico della lotta all’urbanesimo, ossia alla tendenza dei giovani ad abbandonare la campagna per lavorare nell’industria e, soprattutto, vivere in città, aspramente ma invano combattuta (Treves 1976). Il problema città-campagna – assimilabile a presente-passato, innovazione-conservazione, modernità-tradizione – diveniva per l’Italia una questione chiave, vivamente attuale.
Nella sua lotta all’inurbamento, il regime da un lato favorì la costituzione di uno strato consistente di operai-contadini, cioè di lavoratori dell’industria residenti nelle campagne adiacenti alle grandi città e pendolanti quotidianamente su di esse; dall’altro disegnò la “città corporativa”, gerarchica, che assorbiva gli operai, di solito qualificati, e i tecnici dell’industria che riuscivano a ottenervi la residenza, in modo però che non contaminassero gli altri ceti urbani (Consonni, Tonon 1981; Consonni 1992). Nascevano così i quartieri operai, come la Bovisa a Milano, dove Vittorini si trovò ad abitare nei suoi brevi soggiorni fra il 1933 e il 1934, e che gli dettò entusiastiche lettere a Lucia Rodocanachi in cui descriveva «la città più bella del mondo», irta di fabbriche e di ciminiere (Vittorini 2016). A metà degli anni trenta il regime fascista aveva già ormai rinunciato a conquistare il consenso degli operai di fabbrica, abbandonando a se stessi anche i sindacalisti fascisti che tentavano di organizzarne la resistenza al volere padronale (De Bernardi 1993). Si apriva così un varco tra patria (quale il fascismo la rappresentava) e masse operaie. Esso sarebbe stato richiuso a fatica soltanto nell’aprile del 1944. Si era nel pieno della guerra partigiana e poco dopo il grande sciopero generale della prima settimana di marzo nel “triangolo industriale” occupato dai tedeschi, che fornì una base di massa urbana al movimento resistenziale. Appena rientrato in Italia, Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito comunista italiano, l’organizzazione antifascista che godeva del maggior prestigio tra gli operai del Nord e che aveva organizzato quello sciopero, indicò al Pci come imprescindibile la assunzione di responsabilità della «classe operaia e del suo partito» nei confronti della nazione (Togliatti 1944, 87), ossia di quella “patria” di cui quattro anni dopo Satta avrebbe decretato la morte come avvenuta l’8 settembre 1943. Questa idea della classe operaia come “classe nazionale” metteva tra parentesi, a favore di quella reale, ogni “patria ideale”, quale tuttavia continuava a essere per migliaia e migliaia di lavoratori l’Urss, la cui osannata Armata Rossa stava d’altronde respingendo i tedeschi invasori verso casa loro. Intorno a questa idea poté costruirsi non solo la repubblica, ma, dopo di allora, anche la piattaforma che tra anni sessanta e settanta permise ai grandi partiti e ai sindacati di attutire il dramma del ben più grande esodo dalle campagne avvenuto in quegli anni. Solo allora, nel 1961, Vittorini avrebbe affrontato di petto la questione del rapporto tra Industria e letteratura, nel n. 4 del «Menabò di letteratura», la rivista da lui fondata e diretta (nominalmente insieme con Italo Calvino).
2.5.5. La svolta di metà decennio
Il 15 maggio 1935 Pavese fu arrestato, in un’operazione di polizia che sgominò facilmente il gruppo torinese di Giustizia e libertà guidato da Vittorio Foa. Già l’anno prima era stato colpito il gruppo capeggiato da Leone Ginzburg, e con lui erano stati arrestati, tra gli altri, Barbara Allason e Franco Antonicelli. Nella retata del 1935 furono arrestati anche altri giovani, tra cui: l’editore Giulio Einaudi, figlio del senatore ed economista, nonché autorevole editorialista del «Corriere della sera», Luigi, che ne ottenne facilmente il rilascio; il filosofo Norberto Bobbio, anche lui ben presto favorito; il musicologo Massimo Mila, che in carcere studiò il tedesco, da cui divenne traduttore; e di nuovo Antonicelli (Giovana 2005). Spedito al confino in Calabria, Pavese, non ancora noto come poeta e narratore (la raccolta di poesie Lavorare stanca fu pubblicata dalle edizioni di «Solaria» proprio allora), faticò a sopportare la lontananza dalla città e non mancò occasione per lamentarsi di essere stato coinvolto involontariamente in una vicenda che gli era estranea (condivideva i sentimenti ma non le responsabilità cospirative degli altri arrestati). Il 24 ottobre, informando Alberto Carocci, il direttore della rivista fiorentina, sulle proprie letture ad ampio raggio, precisava: «Unico mio disinteresse – ab aeterno e parlo con la mano sul cuore – la letteratura politica» (Pavese 1966, 454). Gli crediamo senz’altro, conoscendolo; ma quella dichiarazione era destinata al censore e preparava la letterina al duce che gli valse il condono di due dei tre anni di confino ai quali era stato condannato, accomunandolo ad altri lapsi come la madre di De Bosis e Barbara Allason. Rientrò a Torino nel marzo del 1936, quando era ormai in corso l’«impresa d’Etiopia», ossia l’aggressione italiana all’ultimo lembo d’Africa fino ad allora immune dal colonialismo.
Alla «missione civilizzatrice» di quella guerra, benedetta da gran parte del clero italiano, credette entusiasta Vittorini, che avrebbe voluto addirittura parteciparvi da volontario (Bonsaver 2008, 58). Pochi mesi dopo, la svolta: in Spagna i generali si rivoltano contro il governo di Fronte popolare della Repubblica e Vittorini è scandalizzato dal sostegno che fornisce loro il fascismo italiano: «Crede di guadagnarci, il fascismo stesso, ad avere una vittoria di canaglie aristocratiche sul proprio conto? Perché lo chiamerebbero fascismo abbattere un popolo per mettergli il giogo!», scrive all’amico Silvio Guarnieri il 25 luglio (Vittorini 1985, 58). D’improvviso, cominciava a farsi luce sulla realtà del regime in cui il giovane letterato entusiasta aveva riposto le sue speranze di palingenesi sociale.
Fino a quel momento non c’è notizia di un suo particolare interesse per la letteratura americana. Anche tra i «maestri cercati» nel famoso articolo Scarico di coscienza, uscito sull’«Italia letteraria» malapartiana nell’ottobre del 1929, non si trova un solo americano (né tedesco, se è per questo). Quando Pavese, forte della sua laurea, dopo essersi invano proposto come traduttore fin dal 1930 a Gian Dàuli per Modernissima (Pavese 1966, 115-116), traduceva già testi americani per Cajumi/Bemporad e Antonicelli/Frassinelli, il coetaneo autodidatta Vittorini stava ancora stentatamente imparando l’inglese. In quel 1936, appunto, uscì la sua prima traduzione di un autore d’oltreoceano: si trattava, a complemento di un lavoro iniziato da Delfino Cinelli, di una parte dei Racconti e arabeschi di Edgar Allan Poe, pubblicati nell’ambito della «Biblioteca romantica» mondadoriana fondata e ancora formalmente diretta da Borgese, ormai in volontario esilio in America. A questa raccolta fece seguito, pubblicata nel 1937 nella stessa collana, un’altra, Gordon Pym e altre storie; in entrambi i casi il «giovane letterato affamato, intraprendente e privo di timori reverenziali», oltre che della traduzione di una parte delle novelle, si occupò «della correzione delle bozze e della scelta dei titoli dei due volumi». Prima della guerra Cinelli (1889-1942) aveva vissuto qualche tempo in America e lì aveva sposato, nel 1913, un’americana, ma, una volta scelto di affiancare il mestiere delle lettere a quello dell’agricoltore, non si occupò precipuamente né di traduzioni né di scrittori americani (Cattaneo 2011). Quelle in collaborazione – forzata dall’editore – con Vittorini restano le sue uniche imprese traduttive. Né si può dire che Poe fosse particolarmente rappresentativo della modernità e della eccezionalità di quella letteratura. A sua volta, a Vittorini questa prima occasione di incontro fattivo con un autore americano era offerta dall’editore, non da una sua scelta. L’accolse con entusiasmo e, definendo quelle traduzioni le sue prime benché ne avesse già firmate altre, proclamò in seguito: «così imparai l’inglese» (Vittorini 1985, 99); ammetteva così quella sua sostanziale ignoranza della lingua che lo aveva in precedenza indotto a rivolgersi, tramite il comune amico Eugenio Montale, a Lucia Rodocanachi per averne le traduzioni «letterali» da Lawrence e da Dickens su cui ricamare un proprio testo, assolutamente personale (Vittorini 2016, passim). E anche in sede critica, benché già avesse segnalato autori americani, l’occasione più concreta di incontro con l’America gli era stata offerta per recensire il Moby Dick pavesiano su «Pègaso» nel gennaio del 1933, distillandone i momenti lirici ed epici di poema marinaro a preferenza della rappresentazione del “mito” puritano che ne costituisce il cuore (Vittorini 1957, 46-48). In entrambi i casi, comunque, “classici” ottocenteschi, non il travaglio della modernità di massa pur intravista da Pavese in Whitman.
Nel 1934 Vittorini aveva instaurato un rapporto solo come traduttore e «intenditore-capo» per le «cose inglesi» con la Mondadori (Vittorini 1985, 26). Provò a proporre a Luigi Rusca, il condirettore di quella casa editrice, autori come Faulkner e Hemingway, ma i problemi di censura erano insormontabili (Ferretti 1992, 32). Si tratta di segnali importanti, che smentiscono l’indicazione che il suo interesse per «gli americani come rinnovatori del romanzo» si esprimesse solo a partire dal 1938, ma è vero che solo da questa data, con il rapporto con Bompiani, esso si concretizzò (Esposito 2011, 44). Ciò accadde in parte sulla scia di Pavese: l’autore da lui proposto il 19 aprile 1938 a Valentino Bompiani era John Steinbeck (1902-1968), di cui il suo interlocutore aveva appena pubblicato, «proprio in questi giorni», Uomini e topi, traduzione di Of Mice and Men (1937) condotta appunto da Pavese. Lui stesso non si sentì di accettare di tradurre These Low Grounds (1937) dell’afro-americano Waters Edward Turpin, da lui tempestivamente recensito su «Omnibus» nel novembre precedente, ma a tutt’oggi misconosciuto perfino in America. L’altra sua proposta, tra i libri «non belli, ma commercialmente indicatissimi», era American Dream di Michael Foster, che, per quanto allora un bestseller in patria, in italiano non approdò mai (Vittorini 1985, 85). Quindi, constatato che Steinbeck, benché libro per libro «proceda ora a nord, ora a sud, ora a est, ora a ovest», «se la cava bene in tutti e quattro i generi», propose Tortilla Flat (decisamente orientato a sud, direi), del 1935, «un libro veramente spassoso, con un valore suo particolare e scritto da Dio» (Vittorini 1985, 89-90). Fu questo, dunque, Pian della Tortilla, il primo romanzo contemporaneo americano tradotto da Elio Vittorini, pubblicato ben otto anni dopo il Sinclair Lewis di Pavese. Sia in questo che in Of Mice and Men la modernità americana è tutta linguistico-letteraria e ben poco socio-politica. A Pian della Tortilla avrebbe fatto subito seguito Luce d’agosto, da Light in August (1932) di Faulkner, uscito nel 1939 nella «Medusa».
2.5.6. Non è tutt’oro quel che luce
Né Praz, che ne parlò per primo, né Pavese, che recensì negativamente Sanctuary (1931) appena uscito in America e divenuto rapidamente un bestseller che gli dava la notorietà, poterono allora riconoscere in William Faulkner (1897-1962) un interprete magistrale della trasformazione subita dagli Stati Uniti dall’eredità britannica alla modernità attraverso la guerra civile (che in Italia si chiamava pudicamente guerra di secessione) e la prima guerra mondiale, e dei nodi – a cominciare dai rapporti razziali – lasciati irrisolti da quel processo esemplare di «nazionalizzazione delle masse». Ovviamente lo scandaloso Sanctuary, storia di un’inchiesta su uno stupro particolarmente disgustoso, in Italia non uscì allora, in quel clima censorio, benché l’avvertito e ben introdotto Emilio Cecchi, col fiuto commerciale infallibile di chi aveva capito per tempo che l’editoria si avviava a diventare un’industria come le altre (Albanese, Nasi 2015, 90), lo proponesse nel 1934 a Mondadori (Albonetti 1994, 92). La prima traduzione italiana porta ufficialmente la data del 1943 e la doppia domiciliazione Milano-Roma, ma è molto più probabile che sia uscita a Roma, vera sede della casa editrice Jandi Sapi, subito dopo la liberazione della città, nel 1944, quando Milano era ancora sotto l’occupazione tedesca. Altrettanto probabile è che la traduzione – giudicata da Cecchi «scandalosa e orribile» (Albonetti 1994, 92) – fosse condotta sull’edizione francese, così come un’altra ardita opera del suo autore, Aldo Scagnetti, giornalista comunista, e cioè Il Volga si getta nel Caspio, traduzione di Volga vpadaet v Kaspijskoe more (1930) di Boris Andreevič Pil’njak, uscita anonima presso la stessa Jandi Sapi appunto nel 1944. Di Sanctuary Mondadori pubblicò una versione accettabile solo nel 1946, opera di Paola Ojetti, continuamente ripubblicata.
Tuttavia neanche nel caso di Faulkner Vittorini fu un pioniere. Era stato preceduto da Lorenzo Gigli, che per la «Medusa» aveva tradotto Pylon (1935), uscito nel 1937 col titolo Oggi si vola. Abbiamo già incontrato Gigli quale traduttore di The Brave New World di Huxley (Il mondo nuovo) per la stessa «Medusa». Aveva quindi un ottimo rapporto con la Mondadori almeno dal 1932, quando quel libro era uscito, tanto è vero che sue erano anche altre traduzioni dall’inglese, nella stessa collana. Tra esse due altri romanzi – a dire il vero nessuno dei due molto significativo – proprio di quel vessillifero della diffusione della narrativa americana in Italia che era il Nobel Sinclair Lewis: Il dottor Arrowsmith (1934, da Arrowsmith, 1925) e Avventura al Canadà (1936, da Mantrap, 1926). Si poteva riconoscergli il merito, come americanista, di aver assegnato il nome italiano a Mickey Mouse, pubblicandone le prime strisce nel 1930 sul settimanale illustrato da lui diretto (Decleva 1993, 235). Dopo un tentativo della fiorentina Nerbini di sfruttare Topolino per un suo nuovo settimanale per ragazzi, andato a vuoto, fu ancora una volta Pavese a compierne le prime traduzioni per un paio di piccoli album che furono pubblicati da Antonicelli presso Frassinelli nel 1933 , ma che non ebbero seguito a causa del costo eccessivo dei diritti, affrontato invece con duraturo successo da Mondadori (Decleva 1993, 235-236; Mazzoleni 1998, 58). Indirettamente Cecchi avrebbe reso omaggio all’impresa condotta da Gigli con Oggi si vola, sottolineando «l’asperità del testo» proprio nella sua famigerata Introduzione alla seconda edizione di Americana di cui si discorrerà più avanti.
Un’attività notevole, dunque, che candiderebbe Gigli a un posto tra coloro che elessero l’America a propria “patria ideale”, buon compagno di scoperte di Cesare Pavese. Ma Lorenzo Gigli (1889-1971), oltre che appartenere a una generazione precedente, era invece di tutt’altra pasta, benché abbastanza potente nel mondo della carta stampata d’allora da ottenere facilmente quegli incarichi di traduzione. Era infatti il responsabile della pagina culturale della «Gazzetta del popolo», presso la quale lavorava fin dal 1919. Abbiamo visto che sotto la direzione di Ermanno Amicucci il quotidiano torinese era stato trasformato in un foglio propagandistico di regime al quale Paolo Monelli, traduttore di Renn, collaborava con la sua rubrica Barbaro idioma. Ma soprattutto Gigli dirigeva fin dal 1928 il supplemento settimanale annesso a quel quotidiano, «L’Illustrazione del popolo». Di formazione cattolica, particolarmente influenzato dal pensiero di Charles Péguy, e laureatosi in lettere con Pascoli a Bologna con una tesi sul romanzo italiano da Manzoni a D’Annunzio che oggi sarebbe interessante poter leggere, era stato travolto dalla «passione nazionalistica». Non aveva potuto partecipare alla guerra perché menomato dalla poliomielite, ma aveva scritto corrispondenze dal fronte per «L’Idea nazionale», l’organo dell’Associazione nazionalistica italiana, confluita poi, nel 1924, coi Fasci, a creare il Partito nazionale fascista. Lavorava alla «Gazzetta» già dal 1918, ma aveva continuato a coltivare interessi letterari di cui erano frutto alcuni studi su classici francesi e italiani. Nell’ottobre del 1924, nel pieno della crisi politica seguita all’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti da parte dei fascisti, scrisse alla «Rivoluzione liberale», la prima rivista di Gobetti, una lettera in cui sosteneva che non si potesse parlare di mancanza di libertà in un paese in cui veniva pubblicato un articolo come quello fieramente antimussoliniano di Giovanni Ansaldo (il quale ci avrebbe poi opportunamente ripensato) appena uscito sulla rivista. E concludeva richiamando all’impegno «di partecipare al comune lavoro per la costruzione di una nuova patria, a fronte del quale le posizioni del pur stimato Gobetti finivano per apparire al G.[igli] astratte ed elitarie». Dal giugno del 1931 al maggio del 1935, quanto esso durò, diresse il Diorama letterario pubblicato tutti i mercoledì sulla «Gazzetta», al quale collaborarono tutte le maggiori firme della sua generazione di letterati, giudicando e mandando su quanto veniva pubblicato. Intanto coltivava anche un’intensa attività di critico e di autore narrativo e teatrale (Izzi 2000).
Ho avuto modo, nella mia ricerca su Giorgio Monicelli, di apprezzare personalmente «le infamie contro gli ebrei e l’esaltazione delle vittorie franchiste in Spagna e giapponesi in Cina» pubblicate nel 1939 sulla «Illustrazione del popolo» diretta da Gigli (Petrillo 2017, 299). Del razzismo Gigli si fece banditore in una serie di articoli usciti tra l’agosto e il settembre del 1938. Soprattutto nell’articolo del 30 agosto, in un fondo di prima pagina dal titolo Razzismo imperiale, egli giunse a sostenere gli «effetti vivificatori della separazione delle razze», proponendo un «razzismo costruttivo», premessa «necessaria della nostra politica imperiale». D’altronde Bompiani gli aveva pubblicato già nel 1933 una Vita di Gobineau, uno dei maggiori teorici invocati – più o meno a proposito – dai razzisti, dedicata a Mussolini. Ancora nel 1943, in extremis, raccogliendo diversi suoi scritti giornalistici nel libro Anime e frontiere (Torino, Il Verdone), tra i quali alcune corrispondenze dall’estero, non si esimeva dal contestare la fierezza ebraica di Heine e l’appartenenza di Marx a quella etnia. Eppure, in quel settembre ebbe lo scatto di orgoglio – dettato certo da quella sua antica «passione nazionalistica» – di dimettersi dalla «Gazzetta» per rifiutarsi di celebrare sulla tradizionale copertina a colori della «Illustrazione» l’entrata dei tedeschi a Torino; e visse i due successivi anni di guerra in semiclandestinità. Un po’ poco per giustificare l’immediato rientro al suo posto nel maggio 1945 e la successiva indisturbata carriera giornalistica e letteraria (in cui si annovera anche la biografia di Edmondo De Amicis per la prestigiosa collana della Utet «La vita sociale della nuova Italia», 1962), culminata con la presidenza del Centro di studi alfieriani, tenuta dal 1963 alla morte, «senza che egli giungesse mai a rinnegare la sua vita precedente» (Izzi 2000). Decisamente, è impossibile che Pavese pensasse a Gigli, quando evocava fra i traduttori i sognatori di patrie ideali alternative all’Italia fascista. Ed è comprensibile che per decenni gli esaltatori dell’accoppiata Pavese-Vittorini abbiano totalmente ignorato Gigli.
Era il 1939, ormai: assicurato l’Asse Roma-Berlino, definitivamente sconfitta la Repubblica spagnola, immolata, dopo l’Austria, la Cecoslovacchia all’illusoria conservazione degli imperi coloniali britannico e francese, il baratro della ripresa della guerra interrotta nel 1918 era ormai spalancato. E Vittorini aveva fatto la sua scelta, aderendo, insieme con i suoi amici ed ex camerati di illusioni fasciste Romano Bilenchi e Vasco Pratolini, al partito comunista in clandestinità.
In questo frangente si situa una vicenda paradossale, rivelatrice dell’involontario inganno che si cela in quell’affermazione di Cesare Pavese da cui ho preso spunto per questa puntigliosa carrellata fra le traduzioni letterarie degli anni trenta. Come Pavese era finalmente approdato, l’anno prima, all’impiego fisso con Giulio Einaudi, così anche Vittorini era approdato alla collaborazione fissa con Bompiani e aveva finalmente coronato il vecchio sogno (alimentato anche da ragioni sentimentali) di trasferirsi a Milano. In quella posizione fu in grado di distribuire lavoro ai suoi amici degli anni fiorentini. E quindi anche a Eugenio Montale, rimasto disoccupato perché, essendosi rifiutato di iscriversi al partito fascista, aveva perso il posto di direttore del Gabinetto Vieusseux, dove, secondo la testimonianza di Prezzolini (1978, 573), «i libri letti son d’autori americani: Faulkner e Hemingway, Lewis e Dreiser. Ma tutti romanzi: Lee Masters è sconosciuto». Pavese aveva rifiutato l’invito di Bompiani a tradurre un altro libro di Steinbeck, del tutto divergente (verso est? o verso ovest? Verso nord, direi) da Tortilla Flat: In Dubious Battle, che Vittorini stesso aveva definito per l’editore «del tutto realistico come un qualunque romanzo di Lewis o Dreiser» (Vittorini 1985, 89). Pavese era stato drastico: «non escludo un ricco interesse umano in quest’opera, un appello sociale di larga risonanza, ma semplicemente dico che quanto a me mi lascia freddo» (Pavese 1966, 551 e 554). E qui sta il paradosso. Vittorini ne approfittò per affidare dunque proprio a Montale, al poeta di cui in quello stesso 1939 Einaudi pubblicava la seconda raccolta, Le occasioni, quella traduzione, che, se non era nella vena di Pavese, figuriamoci se lo era nella sua! Eppure La battaglia, del 1939, traduzione della faticosa epopea sindacale dello Steinbeck ideologicamente impegnato a sinistra, è appunto opera del più grande poeta italiano del Novecento. Il quale, per sua fortuna, poté poi rifarsi con La storia di Billy Budd (1942), da Billy Budd, Sailor, un’ambigua e drammatica “novella” postuma di Melville. Ma era ben lontano dal riconoscere nell’America, nemmeno in quella di un classico come Melville, la “patria ideale”: l’ammirato Eliot sarà pure nato a St. Louis nel Missouri, ma restava non solo a classicist in literature – classicista in letteratura; e fin qui tutto bene – ma anche, da tempo trapiantato in Inghilterra e proprio allora divenuto definitivamente suddito di Sua Maestà, a royalist in politics, Anglo-Catholic in religion (Eliot 1928, IX), ossia monarchico in politica, anglicano quanto a religione. Quanto di più inglese e meno americano si possa immaginare.
2.5.7. Una famosa antologia: Americana
Macché Polledro! Macché Borgese! Macché Antonicelli e Ginzburg! Macché scrupoli filologici! Quando da Bompiani, nel 1942, varò la sua «collezione universale» di opere poco note di classici di tutte le principali letterature, «Corona», rivolta a «un pubblico non specialistico e non colto, di operai piuttosto che di ingegneri e studenti» (Ferretti, Iannuzzi 2014, 95), Vittorini aveva a modello proprio la «Biblioteca universale» Sonzogno, da lui celebrata fin dal 1937 (Vittorini 1957, 74), dalla cui casualità nelle scelte e sciatteria filologica quegli insigni predecessori avevano voluto consapevolmente prendere le distanze. Il suo criterio – con non celati intenti pedagogici – era la leggibilità, la godibilità della lettura, il coinvolgimento del lettore nell’avventura intellettuale alla scoperta del mondo attraverso la lettura.
Questo stesso criterio aveva applicato all’altra e più ambiziosa collana che aveva messo in piedi due anni prima, «Pantheon». Si trattava di ponderose antologie miranti a ricostruire rapidamente, per quello stesso pubblico, la storia delle principali letterature nazionali, mettendone a fuoco le caratteristiche essenziali. Lì era uscita, nel 1941, Americana, in cui lui stesso aveva compendiato poco meno di un secolo e mezzo di quella «letteratura universale ad una lingua sola», come l’aveva definita nel 1938 sulla rivista «Letteratura» (Vittorini 1957, 89). La vicenda di Americana è ultranota (prima di Pavese 2018, che non ho avuto modo di vedere, le ricostruzioni più recenti sono in Esposito 2009 e in Rundle 2010, 197-205), ma devo riassumerla brevemente. Americana ebbe la disgrazia – editoriale, trasformatasi poi in fortuna ideologica – di uscire alla vigilia della dichiarazione di guerra italiana agli Stati Uniti. Già dall’attacco si avvertiva dove Vittorini intendesse andare a parare, quando avvertiva che una storia della letteratura americana era equiparabile a «una storia politica […] la storia per eccellenza dell’uomo nell’una e nell’altra cornice prescelta di spazio e di tempo. Dunque è America che diciamo» (Vittorini 1941, 2).
Il ministro della Cultura popolare era allora il fiorentino Alessandro Pavolini. Suo fratello Corrado, letterato e regista (e futuro primo traduttore, sotto pseudonimo, di The Catcher in the Rye di Salinger, noto oggi da noi come Il giovane Holden – Gentili 2014), era stato amico di Vittorini giovane, anni prima. Il ministro, forse anche irritato per la conversione antifascista del curatore dell’antologia, avvertì odore di antifascismo abbastanza schietto nelle note introduttive a ciascun autore antologizzato, dichiarò che non era il caso di osannare gli americani in quel momento, e fece sequestrare il libro. Per salvare almeno in parte il suo investimento, Bompiani ripeté l’operazione compiuta nel 1934 con Fabian di “Carlo Coardi” (la stessa firma che nel 1939 era ricomparsa per Furore, traduzione di The Grapes of Wrath di Steinbeck). Fece fare in tutta fretta una nuova edizione dell’antologia, uscita l’anno dopo, in cui le note di Vittorini venivano sostituite e a tutto era premessa una introduzione in cui l’Accademico d’Italia Eccellenza Emilio Cecchi badava bene a mettere in chiaro che quella letteratura era o tributaria di quella europea o di rango minore o espressione di un mondo bacato e putrefatto, cosa che aveva avuto modo di sostenere anche in propri saggi precedenti. L’operazione fu definita da Pavese, in una celebre lettera di solidarietà a Vittorini, «canagliesca, politicamente e criticamente» (Pavese 1966, 642). La solidarietà era espressa a nome di un “noi” da identificare probabilmente coi redattori della Einaudi e quindi da non confondere col “noi” cercatori di una “patria ideale”, soggetto, anche lì sottinteso, dell’articolo del 1945 da cui ho preso spunto.
È significativo che ancora nel marzo del 1946, nel tracciare un bilancio critico delle Traduzioni negli ultimi vent’anni per «Belfagor», la «Rassegna di varia umanità» appena fondata da Luigi Russo, Giuseppe Bettalli non citasse neppure un libro americano. Solo qualche tempo dopo, la persecuzione subita da Americana fece assurgere quell’antologia, grazie al sovranismo di Pavolini, al ruolo di manifesto della rivolta concretizzatasi nella Resistenza, indicante nell’America la terra della democrazia e della libertà, e Vittorini a quello di pioniere, che non gli spetta e che forse neanche gli premeva poi molto, ma che Pavese sanciva, senza saperlo, con la sua lettera di solidarietà. Pavese e Vittorini si trovarono da allora accomunati nel ruolo dei santi Pietro e Paolo della buona novella di redenzione e di libertà democratiche proveniente da oltre oceano e recata in realtà, nel frattempo, dai carri armati e dai bombardieri, dai pacchi Unrra, dal piano Marshall e dalla Nato.
2.5.8. Finalmente Hemingway
In Americana si trovavano anche, nelle traduzioni dello stesso Vittorini e, purtroppo, Carlo Linati, ben tre racconti di Hemingway. Su rivista erano comparsi altri racconti, tra i quali va segnalato I sicari (da The Killers, una delle First Forty-nine Stories), in quanto si tratta di una traduzione di Alberto Moravia pubblicata fin dal 1933 sulla rivista di Leo Longanesi, «L’Italiano». Ma traduzioni da Hemingway in volume non ne erano uscite, in quanto l’autore di A Farewell to Arms era particolarmente inviso, e l’accanimento di Cecchi contro di lui nella sua Introduzione si spiega solo in parte con i motivi di stile lì addotti. Dietro c’era altro. Aveva un bel ricordare, Vittorini, nella sua nota introduttiva a quei racconti, la medaglia d’argento guadagnata dal futuro scrittore sul fronte del Piave (Vittorini 1941, 792): imperdonabile, per gli italiani Hemingway era non solo l’autore della terribile rappresentazione della ritirata di Caporetto contenuta in A Farewell to Arms, di cui ovviamente si impediva la traduzione, ma anche il corrispondente da Madrid durante la guerra civile, schierato senza incertezze dalla parte della Repubblica contro Franco e i suoi alleati fascisti italiani e nazisti tedeschi.
La vicenda di Addio alle armi è molto nota anch’essa. Nel 1943, ben fuori ormai dagli anni trenta e in piena guerra, la censura si decise, traballante il regime, a concedere all’Einaudi il visto per la pubblicazione. Pavese si affrettò a fare il contratto alla giovane Fernanda Pivano (1917-2009), già sua allieva quando era stato supplente al d’Azeglio, il suo vecchio liceo, alla quale, invaghitosene, aveva fatto avere, oltre a Leaves of Grass e The Spoon River Anthology, anche il romanzo di Hemingway (Pavese 1966, 702). Quel contratto, finito sotto gli occhi dei tedeschi quando, in settembre, sopravvenuta l’occupazione, fecero una perquisizione negli uffici della casa editrice, fece passare qualche guaio prima, per errore, al fratello Franco e quindi alla stessa Fernanda (Tapparo 2006, 114). E ovviamente la traduzione si bloccò. Intanto i soldati americani erano arrivati a Roma. Nello zaino portavano libri tascabili stampati apposta per loro. Tra questi c’era il romanzo “italiano” di Hemingway. Se ne impadronì Bruno Fonzi (1914-1976) e la sua traduzione, la prima di una lunga e prolifica carriera, uscì anch’essa da Jandi Sapi nel 1945. Nel frattempo, a Firenze, un giovane militante del partito d’azione attivo nella Resistenza, di nome Giorgio Bassani, si impegnava anche lui in quell’impresa, che, all’uscita dell’opera di Fonzi, avrebbe abbandonato (Cancogni 1962, 103).
Pivano riprese la propria dopo la guerra per Mondadori, che nel frattempo si era assicurato i diritti e che la pubblicò nel 1949. Ma prima, nel 1946 e illustrata da Renato Guttuso, l’editore milanese ne aveva pubblicata un’altra, opera a sei mani. Ci avevano lavorato in Svizzera tre internati antifascisti italiani, sulla spinta del figlio dell’editore, Alberto Mondadori, loro compagno di internamento: Giansiro Ferrata (1907-1986), grande amico di Vittorini e prossimo a diventare un dirigente della Mondadori, ideatore e primo direttore dei «Meridiani»; Paolo “Puccio” Russo, figlio di Luigi; e Dante Isella (1922-2007), futuro grande italianista, entrambi più giovani di Ferrata (Ungarelli 1989, 88; cfr. ora anche Tosetto 2019).
Ma, intanto, nel 1939 era uscito in America For Whom the Bell Tolls, il romanzo in cui Hemingway aveva travasato la sua trepida partecipazione agli ideali antifascisti della difesa della Repubblica spagnola contro Franco. Ormai si era fuori dagli anni trenta, le patrie reali erano ben delineate e impegnate in una guerra immane. Nel 1942 Vittorini si procurò una copia del romanzo e cominciò a tradurlo. Poi fu sopraffatto dall’attività clandestina, e manoscritto e libro andarono perduti. Ma anche in questo caso ci furono degli internati in Svizzera che si misero all’opera.
Si trattava di due giovani ebrei, rifugiatisi lì per sfuggire alle persecuzioni. Uno era Luciano Foà (1915-2005), figlio di Augusto, il fondatore della Agenzia letteraria internazionale, la prima agenzia letteraria italiana, poi passata nelle mani di Erich Linder. Foà quindi aveva già una notevole esperienza editoriale, che avrebbe poi approfondita dapprima presso le Nuove edizioni Ivrea di Adriano Olivetti, quindi alla segreteria generale della Einaudi, con la quale ruppe nel 1958 per fondare poi, insieme con Bobi Bazlen e Roberto Olivetti, figlio di Adriano, la casa editrice Adelphi. A quest’ultima impresa collaborò anche il suo compagno di internamento e di traduzione, Alberto Zevi (1920-1993), che della nuova casa editrice fu anche presidente. Zevi fu, dopo la guerra, un esemplare imprenditore schumpeteriano nel settore del mobile, tanto da fondare nel 1980 un Centro studi industria leggera, tuttora attivo, che distribuisce ogni anno una borsa di studio a lui intitolata (https://www.csilmilano.com/experts/Zevi.html). Ma la co-traduzione hemingwayana non fu la sua unica impresa letteraria: Zevi fu il primo, e fino a tempi recentissimi l’unico, traduttore de L’Étranger di Albert Camus. Lo straniero fu pubblicato da Bompiani (cioè da Vittorini) nel 1947 (Latella 2015).
La traduzione Foà-Zevi non vide mai la luce in volume. Di For Whom the Bell Tolls i diritti erano stati acquistati fin dal 1939, quando il romanzo era uscito, dal solito Mondadori, a quanto pare tramite Maria Martone, che lo tradusse. Abbiamo già incontrato Martone (1900-post 1990) quale traduttrice a 360 gradi dal francese (Maurois, Mauriac, ma anche Colette e altri minori) e dall’inglese (Galsworthy, Wodehouse, ma anche altri). Tra i “suoi” autori, oltre ai “giallisti” inglesi Edgar Wallace e Henry Wade, vanno annoverati qui anche gli americani Erskine Caldwell (1903-1987) e James Cain (1892-1977). La via del tabacco (da Tobacco Road, del 1932) di Caldwell, pubblicato nel 1940 da Longanesi nella collana «Il sofà delle muse» da lui diretta per Rizzoli, è esattamente contemporaneo a Piccolo campo, la traduzione che Vittorini trasse per Bompiani da God’s Little Acre (1933): sicché non è a lui solo, come del resto nemmeno a Pavese, che va attribuita la scoperta di questo aspro scrittore americano. Ancor più significativo il caso di Cain, di cui anni dopo, in una lettera privata, Pavese volle riconoscere l’influenza sul suo primo romanzo, Paesi tuoi, uscito nel 1941 (Pavese 1991, 223). A proposito di Cain, Vittorini arrivò ad affermare: «la storia della recente letteratura italiana [e intendeva quella neorealista], che ha prodotto scrittori molto più importanti e vitali di lui, non potrebbe prescindere dalla traduzione del suo “Postino”» (Vittorini 1957, 93 nota). Ora, il popolarissimo The Postman Always Rings Twice (1934) aveva già nel 1943-1944 ispirato a Luchino Visconti, che l’aveva letto nella traduzione francese, il film Ossessione (su questa vicenda si può vedere ora Brogi 2019), considerato comunemente, col coevo Roma città aperta di Roberto Rossellini, il capostipite del neorealismo cinematografico italiano. Della sua traduzione, Il postino suona sempre due volte, uscita per Bompiani nel 1945, fu autore un ancora sconosciuto Giorgio Bassani. Ma altri romanzi di Cain erano già stati tradotti proprio da Martone. Nello stesso 1940 e nella stessa collana diretta da Longanesi erano usciti, in un unico volume, i due romanzi brevi In due si canta meglio e La donna e il danaro, traduzioni rispettivamente da Career in C major e Money and the Woman, entrambi del 1937; più importante L’assicuratore, uscito a Roma nel 1944 da De Carlo, una delle tante case editrici effimere sorte subito dopo la liberazione della città: si trattava della traduzione di Double Indemnity (1936), di cui usciva proprio allora in America la versione cinematografica di Billy Wilder, subito circolata da noi col titolo La fiamma del peccato, assunto anche dal libro nelle successive edizioni.
La vicenda di For Whom the Bell Tolls toccava altre corde, non puramente letterarie ma più strettamente connesse al nostro tema. Dopo la liberazione delle grandi città del Nord, in quella caotica e ormai leggendaria impresa che fu «Il Politecnico», il giornale ideato da Antonio Banfi, edito da Einaudi e diretto da lui, il pensiero di Vittorini andò subito a quel romanzo emblematico. E fin dal primo numero, uscito il 29 settembre 1945, cominciò a pubblicare a puntate la traduzione di Foà e Zevi, sotto il titolo Per chi suonano le campane perché Vittorini, fidandosi della memoria, era convinto che il titolo originale fosse For Whom the Bells Toll. Per lui quello che contava, in quel libro «per me così caro» – come scriveva introducendo la prima puntata – era la Spagna piegata sotto il fascismo, la Spagna che gli aveva aperto gli occhi.
Riferimenti bibliografici e ringraziamenti
Anche in questo caso ringrazio Wikipedia per le notizie anagrafiche e il Sistema bibliotecario nazionale per quelle bibliografiche. Grazie anche a Aldo Agosti, Anna Baldini, Tiziano Chiesa, Norman Gobetti, Franco Nasi, Sara Sullam e Domenico Scarpa, cari amici solleciti nell’aiutarmi.
Mi è d’obbligo avvertire che la chiusura delle biblioteche a causa del Covid-19 mi ha impedito la consultazione, troppo a lungo rimandata, del libro di Claudio Antonelli, Pavese, Vittorini e gli americanisti. Il mito dell’America, Bagno a Ripoli, Edarc, 2008.
Ovviamente, il seguito e fine al prossimo numero, autunno 2020
Albanese, Nasi 2015: L’artefice aggiunto. Riflessioni sulla traduzione in Italia, 1900-1975, a cura di Angela Albanese e Franco Nasi, Ravenna, Longo
Albonetti 1994: Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30, a cura di Pietro Albonetti, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori
Belardelli 2005: Giovanni Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza
Belviso 2015: Francesca Belviso, Amor fati. Pavese all’ombra di Nietzsche, Torino, Aragno
Ben-Ghiat 2000: Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino (trad. italiana di Maria Luisa Bassi da Fascist Modernities: Italy 1922-1945, inedito, poi University of California Press, 2001)
Bettalli 1946: Giuseppe Bettalli, Le traduzioni negli ultimi vent’anni, in «Belfagor», marzo 1946, pp. 169-179
Bolchi 2018: Elisa Bolchi, Un pilastro della «Medusa». Alessandra Scalero nel carteggio con la sorella Liliana, in «tradurre. pratiche teorie strumenti», n. 14 (primavera) (https://rivistatradurre.it/2018/05/un-pilastro-della-medusa/)
Bonsaver 2008: Guido Bonsaver, Elio Vittorini. Letteratura in tensione, Firenze, Franco Cesati Editore
Brogi 2019: Daniela Brogi, Tra letteratura e cinema. Pavese, Visconti, e la “funzione Cain”, in «allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura», a. XXXI, terza serie, n. 79, gennaio-agosto, pp. 176-195 (disponibile presso https://www.allegoriaonline.it/PDF/493.pdf)
Cancogni 1962: Manlio Cancogni, I rimorsi di Bassani. Non gli riesce dimenticare, in «L’Espresso», 2 settembre (ora in: Giorgio Bassani, Interviste 1955-1993, a cura di Beatrice Pecchiari e Domenico Scarpa, Milano, Feltrinelli, 2019, pp. 100-109)
Carducci 1973: Nicola Carducci, Gli intellettuali e l’ideologia americana nell’Italia letteraria degli anni trenta, Manduria, Lacaita
Cattaneo 2011: Elisa Cattaneo, Chi era Delfino Cinelli? Agricoltore, romanziere e traduttore di Poe, in «tradurre. pratiche teorie strumenti», n. 0 (primavera) (https://rivistatradurre.it/2011/04/delfino-cinelli-2/)
Consonni 1992: Giancarlo Consonni, Dalla città alla metropoli. La classe invisibile, in Milano operaia dall’800 a oggi, a cura di Maurizio Antonioli, Myriam Bergamaschi e Luigi Ganapini, Milano, Cariplo-Laterza, vol. I, pp. 19-36
Consonni, Tonon 1981: Giancarlo Consonni e Graziella Tonon, Milano: classe e metropoli tra due economie di guerra, in La classe operaia durante il fascismo, in «Annali» della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, XX (1979-1980), Milano, Feltrinelli, pp. 405-510
De Bernardi 1993: Alberto De Bernardi, Operai e nazione. Sindacati, operai e stato nell’Italia fascista, Milano, FrancoAngeli
Decleva 1993: Enrico Decleva, Arnoldo Mondadori, Torino, Utet
Diggins 1972: John P. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo, Bari, Laterza (traduzione di Jole Bertolazzi e Giovanni Ferrara da Mussolini and Fascism. The View from America, Princeton University Press, 1972)
Eliot 1928: Thomas Stearns Eliot, Preface a For Lancelot Andrewes. Essays on style and order, London, Faber & Faber
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– 2011: Edoardo Esposito, Elio Vittorini. Scrittura e utopia, Roma, Donzelli
– 2018: Edoardo Esposito, Con altra voce. La traduzione letteraria tra le due guerre, Roma, Donzelli
Fernandez 1969: Dominique Fernandez, Il mito dell’America negli intellettuali italiani dal 1930 al 1950, traduzione dal francese di Alfonso Zaccaria da un inedito, Caltanissetta, Sciascia
Ferretti 1992: Gian Carlo Ferretti, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi
Ferretti, Iannuzzi 2017: Gian Carlo Ferretti, Giulia Iannuzzi, Storie di uomini e libri. L’editoria letteraria italiana attraverso le sue collane, Roma, minimum fax
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Pavese 1947: Un negro ci parla, recensione radiofonica, maggio 1947, ora col titolo Richard Wright in Cesare Pavese, Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1968, pp. 169-171, da cui si cita
– 1966: Cesare Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi
– 1991: Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi (prima edizione 1951), Torino, Einaudi
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Prezzolini 1978: Giuseppe Prezzolini, Diario 1900-1941, Milano, Rusconi
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Tosetto 2019: Sara Tosetto, A Farewell to Arms di Ernest Hemingway. Edizioni e traduzioni italiane a confronto, in «Novecento transnazionale», Vol. 3, n. 1 (2019) (https://ojs.uniroma1.it/index.php/900Transnazionale/article/view/14752)
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Troisio 1944: Armando Troisio, Roma sotto il terrore nazi-fascista, Roma, Mondini (senza numerazione delle pagine)
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– 1941: Americana. Raccolta di narratori dalle origini ai nostri giorni, a cura di Elio Vittorini, Milano, Bompiani
– 1957: Elio Vittorini, Diario in pubblico, Milano, Bompiani
– 1985: Elio Vittorini, I libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943, a cura di Carlo Minoia, Torino, Einaudi
– 2016: Elio Vittorini, Si diverte tanto a tradurre? Lettere a Lucia Rodocanachi, 1933-1943, a cura di Anna Chiara Cavallari ed Edoardo Esposito, Milano, Archinto