Di che cosa parliamo quando parliamo di approccio scientifico alla traduzione

RISPOSTA A BRUNO OSIMO

di Aurelia Martelli

Di che cosa parliamo quando parliamo di approccio scientifico alla traduzioneOrmai un anno fa, l’articolo di Giulia Baselica circa le traduzioni di classici russi svolte da Paolo Nori si guadagnò, sulla lista di traduttori QWERTY, aspre rampogne da parte di un esperto come Bruno Osimo, che a loro volte suscitarono clamorose reazioni fra gli addetti ai lavori. «tradurre» invitò quindi Osimo a spiegare meglio e più distesamente la sua posizione teorica, il che lui ha fatto con un ampio articolo uscito nel numero 4, la primavera scorsa. A questo punto il dibattito era aperto e mi è parso opportuno intervenire. Spero, come tutti noi di «tradurre», che anche altri vogliano farlo. Gli interventi, per non andar troppo per le lunghe con la periodicità semestrale della nostra rivista, verranno tempestivamente pubblicati – dopo il rituale controllo di congruenza – sul nostro blog «bloc-notes» (http://blocnotes.rivistatradurre.it/; gli interventi vanno inviati a commenti@rivistatradurre.it).

Veniamo al dunque. Apprezzo Bruno Osimo come autore letterario e come traduttore, ma non sono d’accordo con lui nella querelle su soggettività del tradurre e scientificità del tradurre, e ho molto da eccepire sul suo intervento. Cercherò di essere scientifica, comprensibile, soggettiva.

1. Discorso sul metodo

Scrive Osimo aprendo il suo contributo:

Per metodo scientifico s’intende una serie di accorgimenti per far sì che un dibattito possa procedere con chiarezza senza che, a causa di malintesi su ciò che si è detto, due persone possano: 1) dire la stessa cosa pensando di dire due cose diverse; 2) dire due cose diverse pensando di dire la stessa cosa.

In realtà, a voler essere precisi (“scientifici”, appunto), con l’espressione “metodo scientifico” si intende altro. Lo scopo di un “metodo scientifico” è quello di acquisire conoscenze sulla realtà tramite: 1) l’osservazione di un determinato fenomeno; 2) l’uso di un linguaggio coerente e rigoroso. Il metodo scientifico non è unico, nel senso che non è uguale in tutte le scienze, e comporta procedure e strategie diverse a seconda degli ambiti.

L’idea di metodo scientifico, così come la conosciamo oggi, si basa su alcuni presupposti più o meno universalmente riconosciuti, quali per esempio la ripetibilità di uno studio/esperimento, la falsificabilità dei dati e conseguentemente, la controllabilità di una certa teoria attraverso procedure empiriche.

Nel Novecento, in ambito epistemologico, si è abbandonata l’idea di un metodo scientifico unico, evidenziando come nelle singole discipline i “metodi” si possano evolvere e dotare di uno specifico linguaggio e di specifici strumenti analitici e descrittivi. Vi è certamente un tratto comune a tutti i metodi scientifici: l’ambizione di essere rigorosi, razionali e oggettivi; tuttavia non si può negare che ciascuna disciplina sia in qualche modo influenzata e condizionata dal proprio oggetto di studio e dal suo universo concettuale e semantico. Per esempio, in chimica si usano formule per descrivere la composizione delle sostanze, mentre in fisica si fa uso di equazioni differenziali per descrivere le relazioni tra le grandezze oggetto di studio. Insomma, il “metodo” riflette l’oggetto di cui una determinata disciplina si occupa.

Esistono quindi diversi metodi scientifici e occorre distinguere tra quelli utilizzati nelle scienze naturali e quelli utilizzati nelle scienze umane. Dire che esiste un solo metodo scientifico che può essere usato trasversalmente pone un problema: possono le varie discipline e tutte le loro branche convergere in un’unica scienza fondamentale?

Non è questa la sede per avviare una discussione su tale tema, tuttavia mi pare giusto segnalare che la seguente affermazione di Osimo

una divisione di carattere prettamente culturale e non politico in senso stretto è causata […] dalla presunzione – occidentale – che esista un’area “letteraria” al di fuori di quella “scientifica”. In altri paesi il rigore scientifico è d’obbligo a prescindere da quale sia l’oggetto del discorso.

è del tutto opinabile. A mio avviso, l’analisi di un testo letterario (e/o della sua traduzione) richiede un apparato critico diverso dall’analisi di un testo non letterario, così come la chimica e la fisica applicano metodi e aprocci e linguaggi scientifici diversi tra loro e, molto più banalmente, così come io – da lettrice – attivo meccanismi di decodifica (aspettative, competenze culturali, bagaglio emotivo eccetera) diversi a seconda del tipo di testo che “consumo” (letterario, non letterario, audiovisivo, multimediale e così via).

2. Sullo status accademico degli studi sulla traduzione

Scrive Osimo che in Italia la traduttologia è «branca delle letterature comparate, intesa come disciplina non scientifica ma letteraria». Occorrerebbe precisare che a livello universitario la traduzione, pur essendo trattata anche in corsi e seminari di letteratura, è collocata nel settore scientifico disciplinare L-LIN (Lingua e traduzione). Pertanto, anche a livello concorsuale, la traduzione è “abbinata” a studi linguistici, laddove per «linguistico» si intende lo studio sistematico e scientifico delle strutture delle singole lingue. Per fare un esempio, il settore L-LIN 12, Lingua Inglese e Traduzione, comprende (cito dal sito del MIUR):

 [..] l’analisi metalinguistica della lingua inglese nelle sue dimensioni sincroniche e diacroniche, nelle sue strutture fonetiche, morfologiche, sintattiche, lessicali, testuali e pragmatiche, nonché nei diversi livelli e registri di comunicazione orale e scritta; […]

Ciò detto, va inoltre notato che in Italia gli studi sulla traduzione hanno da sempre dimorato in ambiti non solo letterari, basti pensare al contributo di linguisti e filologi come Benvenuto Terracini (1983), Gianfranco Folena (1991), Tullio De Mauro (1995). E se è vero che molti studi “traduttologici” si collocano nell’ambito delle letterature comparate (con qualche perplessità, dato che molti studi della cosiddetta “comparatistica” presentano analisi testuali svolte su testi in traduzione, senza che ne venga riconosciuto lo status di testo tradotto, ossia come se il testo studiato si fosse “autoprodotto” nella lingua d’arrivo…) è altresì vero che i corsi di lingua e traduzione (cioè tutti gli esami che hanno come codice L-LIN) sono inclusi in corsi di laurea che non necessariamente hanno (solo) un focus letterario: Lingue e letterature moderne, Linguistica e filologia, Mediazione linguistica, Didattica delle lingue, Storia, Scienze della comunicazione, Beni culturali, Communication Studies, per citarne alcuni. La proliferazione e disseminazione degli studi sulla traduzione, sempre più interdisciplinari e niente affatto “relegati” al territorio dei comparatisti, è stata incoraggiata dall’istituzione della classe di laurea in Scienze della mediazione linguistica e delle Scuole superiori per mediatori linguistici, dove la traduzione è materia centrale (non ci soffermeremo sulle ovvie obiezioni che si possono sollevare all’idea che la mediazione linguistica – qualunque cosa essa sia – possa essere definita una scienza, anche perché dovremmo allargare la discussione a tante altre neonate scienze negli atenei italici: Scienze della comunicazione, Scienze del turismo e via dicendo).

3. Lo status della traduttologia e il preteso primato degli approcci orientali.

Scrive Osimo:

 Questo fenomeno del procedere ognuno “per conto proprio” nella disciplina che studia la traduzione ha segnato in modo significativo le relazioni culturali tra Europa dell’est e Occidente. Mentre nell’est europeo si sono fatti significativi passi avanti soprattutto dal 1959 a oggi, traduttori e traduttologi italiani ed europei occidentali li hanno perlopiù ignorati.

Fermo restando che la desiderabilità ed efficacia dei numerosi approcci che predicano e vantano sistematica oggettività e rigore “scientifico” è discutibile (chi scrive, per esempio, li trova spesso null’altro che sterili congetture ed esercizi di esibizionismo teorico-traduttologico del tutto inutili ai fini della pratica e della critica traduttiva) pare azzardato, per non dire pericoloso, ridurre la questione a un’opposizione Est vs Occidente. Di certo, è innegabile che, soprattutto in termini cronologici, il primato negli studi traduttologici spetti a studiosi dell’est europeo e nessuno si sognerebbe mai di negare o sminuire l’importanza del filone Popovic-Lûdskanov-Torop, al quale si riferisce Osimo. Tuttavia non si può certo dire che, mentre l’Est europeo faceva “significativi passi avanti”, l’Occidente oziasse in uno stato di qualunquismo traduttologico. È nel Novecento, e in particolare nel secondo dopoguerra, che gli studi sulla traduzione ovunque entrano nella cosiddetta fase scientifica e nascono le tante (troppe) teorie che esibiscono un armamentario di strumenti teorici con fini sia descrittivi sia pedagogici, tutti all’insegna della sistematicità, della formalizzazione e della schematizzazione, teorie che si raggrupperanno via via sotto diverse etichette: scienza della traduzione, teoria della traduzione, traduttologia, translation studies.

All’interno del grande contenitore dei translation studies gli approcci proposti sono diversi: molti presentano modelli traduttologici non sempre legati al testo letterario e adottano una prospettiva prevalentemente linguistico-comunicativa. Ne elenchiamo alcuni: i lavori in ambito di linguistica testuale di Wolfang Dressler (1991) e Jànos Petöfi (1982 e 1992), gli approcci più strettamente “linguistici” di John Catford (1965) e Peter Newmark (1981, 1988 e 1993), i contributi della “scuola di Lipsia” (modelli e formalizzazioni dell’atto traduttivo quasi esclusivamente su basi linguistiche, che quindi escludono o limitano l’impatto dei fattori extra-verbali), in particolare i lavori di Otto Kade (1968), Albrecht Neubert , Wolfram Wilss (1977). In particolare, il testo di Wilss (tradotto in inglese come The Science of Translation: Problems and Methods) propone una «scienza generale della traduzione» di taglio descrittivo, una visione dell’atto traduttivo prevalentemente linguistica e una classificazione dei testi in base a temi e funzioni. Né si può dimenticare il contributo di uno dei più celebri traduttologi, Eugene Nida (1964a e 1964b), da poco scomparso, che ha tentato una riformulazione della grammatica generativa chomskiana per arrivare a un modello traduttivo che armonizza elementi testuali ed extratestuali, contesto linguistico ed extralinguistico. In tempi più recenti, negli anni Settanta e Ottanta, si assiste all’emergere delle teorie funzionali-comunicative sviluppatesi in Germania grazie soprattutto al lavoro di Katharina Reiss (1971 e 1976), che, all’interno di un approccio funzionalista alla traduzione, applica alcune categorie della pragmatica e arriva a identificare e distinguere fra gli elementi funzionali del testo fonte da mantenere invariati e quelli da adattare alle esigenze comunicative, alle aspettative e alle conoscenze del destinatario. Tra gli anni Settanta e Ottanta, soprattutto in ambito anglofono, cresce l’interesse per la discorse analysis, e il modello hallidayano di grammatica sistemico-funzionale (una sorta di “griglia” analitica utilizzata per studiare il modo in cui il linguaggio trasmette significati all’interno di relazioni sociali e di potere: vedi Halliday 1978) diventa il modello di riferimento per lo studio delle traduzioni.

4. Sul ‘dovere’ critico e sullo scopo (o non scopo) della critica traduttiva

Scrive Osimo:

più che parlare di traduzioni belle o brutte, nel discorso scientifico ha senso parlare di traduzioni che svolgono funzioni diverse. Per arrivare a questo ambizioso traguardo (descrivere le traduzioni senza necessariamente valutarle), insieme a un gruppo di colleghi dell’Isit dove lavoro (http://fondazionemilano.eu) abbiamo costituito anni fa un gruppo che si chiama Valutrad che ha anche elaborato una tabella per catalogare i cambiamenti traduttivi. Scopo di questa tabella è ignorare le categorie della linguistica e della grammatica e soffermarsi invece sui cambiamenti esclusivamente in funzione dell’impatto che hanno sulla cultura ricevente, sulla ricezione del metatesto.

Ho due obiezioni.

La prima: osservando alcune caselle della tabella Valutrad si notano “descrizioni” quali «migliore/peggiore riproduzione del punto di vista del narratore o del personaggio»; «l’errore è tale da compromettere il senso generale della frase»; «la dotazione enciclopedica della traduttrice è insufficiente a colmare l’implicito culturale»; «migliore/peggiore riproduzione degli aspetti grafici rispetto alle norme suggerite dal committente»; «migliore/peggiore rendimento dello stile». In tutta onestà, non mi paiono categorie di natura meramente descrittiva, visto che comportano giudizi di valore qualitativo neanche poi troppo impliciti e che chiamano in causa i concetti di “errore” e di “migliore” o “peggiore” resa dello stile.

E ben vengano i giudizi!

E qui passo alla mia seconda obiezione: perché un’analisi o una critica di una traduzione dovrebbe aver il fine ultimo di descrivere e basta, senza valutare? Quando leggo una recensione (e questo vale anche per la recensione di un testo tradotto, sia esso un testo letterario o meno) non voglio una descrizione, voglio un giudizio. Voglio un ragionevole giudizio estetico, motivato e sostenuto da sapienza e profonda conoscenza dei fattori che “compongono” quel testo e che contribuiscono alla sua ricezione nel sistema letterario in cui va a inserirsi. Voglio una credibile, anche se non necessariamente condivisibile, proposta di assegnazione di valori. Voglio, insomma, un atto critico, coraggioso, responsabile e opinionated, non un atto descrittivo. Dalla critica testuale (giornalistica, accademica, radiofonica, salottiera) non mi aspetto che sia una ‘scienza’ che descrive il proprio oggetto su basi empiriche e con rigore scientifico. Anche perché, chi può dire che un testo (di qualsiasi natura/genere/funzione) è una realtà «conoscibile oggettivamente»? E che esiste una “verità del testo” (e quindi dell’atto traduttivo) che può essere identificata, incasellata, e quindi ‘rivelata’ ai lettori?

Un altro dubbio. Le griglie/tabelle proposte dal gruppoValutrad (ma si vedano anche i modelli proposti da House, Baker, Hatim & Mason, Vinay & Dabelnet, Van Leuven-Zwart) introducono una serie di strumenti (apparentemente) descrittivi volti all’ assesment (che di per sé non è un atto descrittivo, bensì valutativo, e già qui si verifica un paradosso) e si fondano sul presupposto che si possa: 1) identificare gli elementi caratterizzanti una buona traduzione; 2) misurarli; 3) basare tale “misurazione” sul paragone con il testo originale, per cui la descrizione/critica di un testo tradotto deve farsi esclusivamente con riferimento al testo originale, riservando pertanto tale compito al critico che conosce la lingua del testo di partenza (e il testo stesso!) talmente bene da poterlo “comparare” con la sua resa traduttiva.

Premetto innanzitutto che su questo non sono totalmente d’accordo. A mio avviso, infatti, il testo tradotto ha anche un certo grado di autonomia rispetto al testo originale, e si inserisce e circola in una realtà socio-culturale all’interno della quale la maggior parte dei suoi consumatori-lettori non ha accesso al testo originale, pur subendone l’impatto. Inoltre resta aperta la seguente questione: se ogni testo, come è stato ampiamente riconosciuto da varie correnti di teoria critica del Novecento, ma anche dal buon senso e dall’intuito dei “semplici” lettori, è un’entità multipla, polisemica, che innesca percezioni, suggestioni, elaborazioni e interpretazioni diverse, che sono poi il risultato di un “incontro” di vari fattori che si incrociano (autore, lettore, contesto di codifica, contesto di decodifica eccetera) allora un testo tradotto, frutto innanzitutto di un atto ermeneutico, conoscitivo e creativo, cioè dell’interpretazione di un testo e di una sua trasposizione in altra lingua o codice, è a maggior ragione un testo ancor più complesso da comprendere, analizzare e valutare. Descrivere una traduzione sulla base dell’identificazione delle differenze rispetto all’originale (soprattutto quando vengono intese come manchevolezze, o addirittura come veri e propri errori) rischia di essere assai limitante. Il rilevamento di tali “differenze” deve essere un punto di partenza (non di arrivo) per l’articolazione di un discorso critico di vedute ampie che ragioni sulle motivazioni e sui fattori che hanno portato un traduttore (e la macchina editoriale che gli sta dietro) a compiere determinate scelte e non altre, e che si proponga anche come atto conoscitivo di tutto l’Universo Testo: il contesto che lo ha generato, le condizioni di produzione, i dati biografici-ideologici-storici dell’autore e del suo mondo. Insomma, si parte dalle “differenze” per avviare un processo di conoscenza, descrizione e valutazione di un quadro assai complicato che comprende non uno ma due universi testuali: quello di produzione e ricezione dell’originale e quello di produzione e ricezione della traduzione.

Infine, forse varrebbe la pena tenere conto del fatto che, proprio perché tradurre vuol dire essenzialmente “scegliere” tra una gamma di 1) traducenti, 2) strategie, 3) soluzioni, ha anche (per fortuna) una componente idiosincratica e arbitraria, insomma banalmente inspiegabile. Spesso, quando riprendo in mano una mia traduzione del passato, mi rendo conto che certe mie scelte non sono sempre giustificate da una logica, da un ragionamento ricostruibile, da una “tattica” imparata e applicata. Ci può essere l’intuizione, l’ispirazione del momento, la decisione di “osare” ed essere un po’ più “invadenti” del solito perché “qui ci sta”.

Comprendo la necessità, soprattutto in ambito didattico, di andare oltre il criterio del “suona bene” e di evitare derive impressionistiche e soggettivismo molle. Tuttavia, confesso la mia preoccupazione dinnanzi a una tendenza, sempre più diffusa, a voler a tutti i costi “scientificizzare” e “inventariare” le componenti dell’atto traduttivo, a voler identificare modelli universali corredati da complicati apparati di categorie (semiotiche, strutturaliste, narratologiche e chi più ne ha più ne metta) che spesso accantonano i fattori storici, sociali, biografici e creativi.

Dunque – per parafrasare Franco Fortini (Non troppo genio, per favore, «Il Corriere della sera», 10 agosto 1983) – «non troppa scienza, per favore».

Testi citati

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