Due lingue inaudite

FRANCO ANTONICELLI DA LE AVVENTURE DI TOPOLINO A SE QUESTO È UN UOMO

di Domenico Scarpa

1.

«Premio Saint-Vincent 1948» annuncia, in occhiello, il frontespizio del volume, mentre il titolo, a grandi maiuscole rosse, è I poeti scelti. L’editore è Mondadori e la collana è «Lo specchio», che si è ormai affermata come la più prestigiosa per la poesia in versi. Accanto all’antologia del Saint-Vincent pubblica infatti (qui, diplomaticamente, i loro nomi scorreranno in ordine alfabetico) Cardarelli, De Libero, Montale, Quasimodo, Saba, Sinisgalli, Ungaretti, Vigolo.

In quel 1948 in cui si consuma il più aspro confronto politico-elettorale del dopoguerra italiano, tra la Democrazia cristiana e i suoi alleati da una parte e il Fronte popolare social-comunista dall’altra, la coppia dei curatori è frutto di squisita diplomazia: il cattolico Giuseppe Ungaretti, elettore dichiarato della Dc, firma il volume insieme con Davide Lajolo («Ulisse» il nome da partigiano), che dirige l’edizione milanese dell’organo comunista «l’Unità». Collaborano dunque, firmando insieme l’antologia, due rappresentanti di alto livello dei due grandi avversari politici di allora.

Tra i poeti segnalati al Saint-Vincent 1948 e accolti nel volume c’è Franco Antonicelli. Con qualche civetteria la sua nota biografica (p. 20) non fa cenno né al suo lavoro editoriale né al suo impegno politico attivo:

Franco Antonicelli è nato il 15 novembre 1902 a Voghera. Risiede a Torino.
Non ha mai pubblicato poesie né ha mai preso parte a nessun concorso letterario.
Laureato in lettere e in legge. Collabora a diversi giornali con articoli di letteratura e politici.

Questa dell’ottobre 1949 (finito di stampare dell’antologia Mondadori) è realmente la prima apparizione pubblica di Antonicelli come poeta in versi, e non era mai stata segnalata prima d’ora (cfr. Barbarisi et alii 1980; Barbarisi e Pellegrini 1990), così come i tre testi accolti nel volume – Epigrafe in vita; Parole per musica; Al mondo in lotta: li si può leggere in coda a questo articolo – non sono mai stati ripresi in seguito, nemmeno nella raccolta postuma e complessiva delle sue poesie (Antonicelli 1984).

Tra i poeti selezionati dal Saint-Vincent 1948 s’incontrano presenze notevoli: basti elencare (di nuovo in ordine alfabetico) Gaetano Arcangeli, Angelo Barile, Andrea Camilleri (23 anni), Alfonso Gatto, Adriano Grande, Alessandro Parronchi, Pier Paolo Pasolini, Maria Luisa Spaziani e Sergio Solmi. Il premio viene assegnato a Gatto e a Solmi, ex æquo; di lì a poco l’uno e l’altro saranno cooptati nello «Specchio». Quanto alla giuria del premio, oggi la definiremmo consociativa proprio come la coppia che firma il volume; accanto a Lajolo e a Ungaretti ne fanno parte Piero Bargellini, Mario Bonfantini, Lorenzo Gigli, Natalia Ginzburg, Giovanni Titta Rosa e Elio Vittorini. L’insieme è un piccolo parlamento letterario che rappresenta cattolici, socialisti, comunisti, laici della cosiddetta «terza forza».

Tra il 18 e il 20 settembre 1948 tre successive riunioni di giuria conducono ad assegnare i premi: al plurale, perché ce n’è anche uno per la prosa, cui concorrono fra gli altri Luigi Bartolini (Ladri di biciclette, Longanesi), Carlo Bernari (Prologo alle tenebre, Mondadori), Angelo Del Boca (L’anno del giubileo, Einaudi; un anno prima Del Boca ha pubblicato, con lo stesso editore, la raccolta di racconti Dentro mi è nato l’uomo), Primo Levi (Se questo è un uomo, De Silva), Alberto Moravia (La disubbidienza, Bompiani), Domenico Rea (Spaccanapoli, Mondadori) e Guido Seborga (L’uomo di Camporosso, Mondadori). Tra i concorrenti la giuria seleziona, nella sua seconda riunione, quattro nomi: Bartolini, Del Boca, Primo Levi, Moravia, per poi assegnare a Del Boca il premio nella riunione finale del 20 settembre.

Alle pagine 10-11 della Presentazione redatta da Lajolo per l’antologia Mondadori si registra dunque che Primo Levi ha partecipato con Se questo è un uomo al Premio Saint-Vincent 1948, superando le prime due fasi di selezione ed entrando nel gruppo dei finalisti. È notevole che della giuria facesse parte Natalia Ginzburg, la quale – in accordo con Pavese e per conto di Einaudi – aveva rifiutato il libro poco più di un anno prima. Ugualmente notevoli sono altri due fatti: il Saint-Vincent 1948 non è il primo bensì il secondo premio letterario – dopo il Premio Viareggio, pure del 1948 – al quale concorre la prima edizione di Se questo è un uomo, presenza che oggi può apparire alquanto incongrua in una competizione letteraria. Non la pensava certo così il suo editore, che com’è noto – ed è il terzo e ultimo fatto notevole – era lo stesso Franco Antonicelli, fondatore-direttore delle edizioni De Silva di Torino.

Antonicelli e Levi si ritrovano dunque in una sede sfuggita alle ricerche fino a questo momento: una sede incongrua per Antonicelli, che viene allo scoperto come poeta debuttante, e incongrua per l’esordiente Levi, candidato per la seconda volta a un premio letterario con un libro che dovrà attendere a lungo l’ingresso nel canone del Novecento.

Se il cammino dell’opera prima di Levi è lento ma lineare, le poesie che Antonicelli presenta al Saint-Vincent 1948 – e che pure ottengono l’onore di una pubblicazione prestigiosa – rischiano di essere considerate come l’ennesima conferma di quella dispersione che, agli occhi di molti, ha segnato la sua vicenda intellettuale. È possibile, al contrario, che le si possa ricondurre a un nucleo forte e fecondo del suo lavoro di tutta la vita; ma per arrivare a toccare questo nucleo si dovrà fare un lungo giro.

2.

«C’era in Antony qualche cosa della natura inafferrabile di Ariele». Lo scrive Massimo Mila, che di Antony-Antonicelli è tra gli amici più empatici e allo stesso tempo più critici. Nel 1935 sono addirittura finiti in prigione assieme per attività antifascista. Il nome Antony, racconta Mila, lo aveva suggerito

Franchot Tone

certa sua innata eleganza di tipo anglosassone che lo distingueva dal fare trasandato dei suoi vecchi (e ancor più dei nuovi) compagni. (Chi scrive lo vide una volta sola andar fuori dei gangheri, e fu in una cella delle Nuove, quando scodellando il carcerario minestrone nei piatti di latta, ne fece inavvertitamente schizzare alcune gocce sul suo bel vestito nocciola, accuratamente ripiegato sull’asse infisso al muro a guisa di sedile. «Oh ma insomma! Potresti fare un po’ d’attenzione, perbacco!»). Somigliava un poco a un attore americano che allora conquistava molti cuori di sartine e dattilografe – Franchot Tone – e da questa eleganza naturale e civiltà di maniere in un mondo generalmente cafone molti traevano motivo per giudicarlo mondano, frivolo e inconsistente. (Mila 1975)

Anche un più giovane concittadino di Antonicelli, Alberto Arbasino, originario di Voghera, ricorda che nei suoi rari passaggi in via Mazzini, la strada dove entrambi erano nati, «sembrava l’attore americano Franchot Tone, partner di Deanna Durbin, fra la chiesa del Carmine e una locanda con stallazzo. Ma la voce educata e flautata (anche con un po’ di oboe) apparteneva alla sublimazione birignao-con-sprezzatura, di maestri quali Ruggero Ruggeri e Luigi Cimara» (Arbasino 1994).

Si può passare quanto tempo si vuole a immaginarsi quell’acustica vocale, o a confrontare il viso di Franchot Tone con quello di Franco Antonicelli, magari nelle foto segnaletiche (di profilo e di fronte) scattate nella Questura di Torino dopo il suo primo arresto per motivi politici, il 31 maggio 1929. Ma non si andrebbe lontano. Per sfuggire agli accostamenti di superficie occorre puntare al centro della questione: al lavoro di Antonicelli editore.

 

 

Logo Frassinelli

La lettera di cui trascrivo la prima di due facciate si conserva presso il Centro Piero Gobetti di Torino nel Fondo Franco Antonicelli (sezione Frassinelli editore, 1932-1943, cartella 1a). È scritta con una sottile stilo nera, in una grafia nitidissima che resterà inalterata negli anni, e su un foglio che in alto a sinistra reca il logo Frassinelli. In alto sulla destra l’intestazione recita, su due righe: «c. frassinelli tipografo-editore | Dott. f. antonicelli, direttore».

Ed è appunto il direttore editoriale che in data «14-III-’32» (niente decennale dell’èra fascista) scrive all’editore nonché proprietario dell’impresa:

 

Caro Frassinelli,
eccoLe ricorrette con il maggior scrupolo possibile le bozze passatemi da Pavese.
A ogni cosa, per far bene, il tempo ch’è necessario. Rivedere le bozze non è mio dovere, ma è mio diritto; e ci tengo, visto che, nel caso di Melville tutte le mie correzioni sono state di esattezza e di finezza e Pavese le ha accettate tutte.
Ho ricorretto anche l’Etimologia e gli Estratti che ora sono perfettissimi: e sono stati studiati in tutti i sensi.
Ma non posso permettere che si tolga neppure una virgola. E perciò La prego di rimettere, al fondo dell’Etimologia, la lista delle parole straniere.
In un’opera d’arte non è ammissibile il minimo taglio. Tanto più qui, che la lista ha un suo valore di spiritosa dottrina.
D’altra parte, il direttore per queste cose sono io e mi prendo tutta la responsabilità, insieme col traduttore che ho prescelto.
Questo per dirLe, se è ancora il caso, ch’io lavoro per Lei con la massima coscienziosità.

Si sta parlando delle bozze di Moby Dick o la Balena che, nella prima traduzione italiana e integrale di Cesare Pavese (traduzione che include le parti erudite a corredo dell’opera), è sul punto di uscire nella collana «Biblioteca Europea» ideata e diretta da Antonicelli per conto di Frassinelli. «Lei deve anche sapere che quando, per es., si stabiliscono quattro volumi» – e saranno appunto i primi nel programma della «Biblioteca Europea» – «io li penso uno accanto all’altro, in gruppo. Non posso all’ultimo momento mutare e amputare il gruppo. La cosa cambia, e in peggio. D’altra parte, io comprometto volontieri il mio nome per cose che abbiano una certa durata, o almeno tutta la volontà di durare. Non posso dirigere una collezione di tre autori e poi basta». La lettera finisce chiedendo a Frassinelli, appena pronte, le bozze di Babel’ (cioè del volume L’Armata a cavallo, che nella traduzione di Renato Poggioli aprirà la collezione) e del Moby Dick.

I rapporti Antonicelli-Frassinelli rimarranno tesi per tutto il periodo della loro collaborazione, che finirà nel 1936 con una controversia legale; ma questa vicenda esula da ciò che qui importa: il contenuto e il tono della lettera su Moby Dick. L’energia, anzi, l’assertività intellettuale di Antonicelli, sarà anche un po’ piccata, sarà anche un tantino désabusée, ma è tanto più significativa in quanto ci parla di Melville a partire da un insieme di lavori concreti: correggere bozze, aver scelto il traduttore più competente, salvaguardare l’integrità dell’opera inclusi quelli che oggi chiamiamo paratesti, qui essenziali. La lettera del marzo 1932 ci parla di una collezione editoriale come di un insieme coerente, dove tutto sta in piedi o tutto crolla: ci parla, in breve, di un’idea di editoria.

«Tutte le mie correzioni – scrive Antonicelli – sono state di esattezza e di finezza e Pavese le ha accettate tutte». In realtà Pavese non è stato così remissivo. In una data successiva al 16 marzo 1932 scrive anche lui all’editore:

Egregio Frassinelli,
visto tutto. Sono andato adagio nell’accettare le correzioni di Antonicelli, che qualche volta, se fatte, mutavano il senso; se solo accennate con pallina, rivelavano particolari gusti stilistici suoi, come la prevenzione che ha contro l’espressione «qualcosa del genere» o l’altra «no?».
Io lui non l’ho visto. Ho sentito con piacere che anche in
Armata a cavallo ci sono errori di stampa: meno male che siamo tutti poveri peccatori. (Pavese 1966, 329)

Il suono delle due campane ci persuade che il lavoro editoriale si fa così, in concordia discors. L’essenziale è che il suo frutto – il Moby Dick di Pavese, uscito in quello stesso 1932 come volume II della «Biblioteca Europea» – appaia oggi non soltanto come un vertice dell’editoria del Novecento, ma anche come un vertice della prosa italiana tout court, e non solo della prosa di traduzione.

3.

Antonicelli raggiunge il suo obiettivo fin dal debutto come direttore editoriale, lavorando per Carlo Frassinelli e progettando la «Biblioteca Europea». Nella città di Torino esistono antecedenti che hanno preparato il terreno per la nuova impresa: l’ingresso nell’editoria commerciale di una moderna slavistica italiana grazie alle edizioni Slavia, fondate nel 1926 da Alfredo Polledro, e prima ancora, a partire dal 1923, l’esperienza di Piero Gobetti editore. C’è poi, negli stessi anni, la Ribet di Mario Gromo e c’è stata la sortita di Edoardo Persico, subito interrotta ma destinata a rimanere feconda sottotraccia non solo per l’editoria ma anche per la grafica, per le arti figurative, per l’arredamento, per l’architettura.

In realtà, la «Biblioteca Europea» che nasce nel 1932 non è soltanto europea, perché si allarga subito al continente nordamericano e perché fin dal primo volume si annette una terra – la Russia – che non è mai stabilito una volta per tutte se sia Europa oppure no.

La geografia culturale trova il suo corrispettivo nella confezione editoriale: nelle copertine che, per Babel’ e per Melville, vengono realizzate da Mario Sturani, il quale oltre a essere un giovane pittore ben quotato lavora da anni alla Lenci realizzando oggetti e bambole diventati, in breve tempo, proverbiali. Proprio a questi oggetti Sturani si ispira per la confezione dell’Armata a cavallo: un’applicazione di pannolenci a sbalzo sulla copertina rigida del volume: la sagoma rossa di un cosacco a cavallo, una delle più eleganti e sbalorditive invenzioni editoriali dell’intero Novecento, non solo italiano, mentre la successiva balena bianca su fondo azzurro mare, coda flessuosa e spruzzo verticale ricadente, assurge con gli anni a emblema di quel libro, anzi di un’America verso cui mettersi in viaggio.

Sui volumi della «Biblioteca Europea» come oggetti-libro il discorso più appassionato e tecnicamente preciso si deve a un altro editore, Vanni Scheiwiller:

Vorrei […] spendere due parole di elogio sul gusto tipografico di Carlo Frassinelli […] riprendendo, come esemplificazione, il Dedalus. È un piccolo gioiello tipografico, si pensi che ha più di cinquant’anni ed è attualissimo ed eccezionale. Sulla copertina, rilegata e cartonata, vi è un disegno, che nel retro-frontespizio è attribuito a G. Bozzetti, probabilmente, anzi sicuramente, per un piccolo errore di stampa. Quel G. si dovrà leggere infatti C. Bozzetti, cioè Cino Bozzetti: uno dei maggiori incisori italiani del ’900. La sovracoperta è una specie di rivisitazione futurista, molto curiosa e mediata da un certo gusto neobodoniano di quegli anni. Pensate: futuristi e Bodoni insieme, e come riferimento tipografico pensate a quel principe dei tipografi che fu nel nostro secolo Giovanni Mardersteig – trasferitosi proprio in quegli anni da Lugano a Verona, per impiantare quella sua straordinaria Officina Bodoni – e a quel personaggio scomodo, anche antipatico ma eccezionalmente bravo a mettere le mani in tipografia, che fu Leo Longanesi, con l’esperienza editoriale dell’«Italiano» e delle sue edizioni.

Il gusto di Frassinelli, invece, passa attraverso l’esperienza delle edizioni della «Voce», e soprattutto attraverso la ventata di rivoluzione futurista, che ha lasciato il segno anche in questo grande tipografo, che ha contribuito lui pure alla rivoluzione tipografica in Italia. Il Dedalus risulta così un oggetto bellissimo oltre che un testo straordinario; con un particolare gusto per il marchio tipografico, preso dal ’400/’500, che riportava il motto «Ogni libro recante questa marca ricrea lo spirito e adorna la casa». Un motto che, probabilmente, reca l’impronta di Franco Antonicelli. Ammirevole, nel libro, è infine la proporzione perfetta della pagina bodoniana: la proporzione 1-2-3-4 ed i margini; il corsivo e il tondo nitidissimi, i corpi proporzionatissimi. Insomma, una impeccabile architettura tipografica. E quello che è più eccezionale è che questo piccolo miracolo editoriale era accessibile non ai pochi ma a tutti, perché non si trattava di edizione numerata, ma arrivava anche a un grosso pubblico. (Scheiwiller 1988, 107-8)</CM>

4.

Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, di James Joyce, è il volume V della «Biblioteca Europea». Esce nel 1933, nella traduzione di Pavese e con prefazione di Alberto Rossi. Per apprezzarlo in pieno come impresa culturale, in ciascuno dei livelli che tocca, bisogna tornare un po’ indietro e, almeno a prima vista, scendere parecchi gradini lungo lo scalone dell’estetica.

Il 29 luglio 1932 Carlo Frassinelli conferisce ad Antonicelli l’incarico ufficiale per la traduzione «del libro MICKEY MOUSE di Disney», consegna a fine settembre 1932. Il compenso è di Lire 1.000 che saranno corrisposte in tre tranches, più 10 copie omaggio (Centro Gobetti, Fondo Antonicelli, cart. 1a). In una lettera del 13 agosto che spedisce dal Palazzo della Spiaggia di Marina di Pietrasanta, l’incaricato Antonicelli racconta al suo editore di aver subìto un «infortunio» (la parola qui in corsivo è sottolineata nel testo): si è scottato dopo essere rimasto troppo tempo al sole; dopodiché cerca di alleggerire il proprio ritardo buttandola in scherzo: «In compenso sono un bel brunetto e la folla femminile, come può bene immaginarsi, si accalca intorno alle mie equilibrate e stupefacenti nudità» (ivi). Sul libro Disney, non una parola. Il 17 agosto Frassinelli fa muro: «Le raccomando stare all’ombra, lontano dalla folla femminile, e dentro a Mickey Mouse». Antonicelli rassicura il 30 agosto, per telegramma (ha ricevuto due ulteriori solleciti, l’ultimo il 27 agosto), e il 10 settembre potrà finalmente inviare al suo editore, da Firenze, un messaggio rincuorante: «Almeno sia contento, che il Mickey Mouse va bene» (anche quest’ultima rassicurazione in corsivo è, nell’originale, sottolineata). Così, alla data dell’11 novembre Frassinelli invierà ad Antonicelli una prima tranche di 300 Lire sollecitandogli la traduzione di due nuove storielle per il 20 del mese.

 

Le avventure di Topolino, copertine

 

Le avventure di Topolino, volume 2, Frassinelli 1933, copertina e frontespizio

Ecco le copertine che furono il risultato di quel lavoro. Non sono giornalini per ragazzi, sono due volumetti dalla copertina rigida, che escono nel 1933 con l’intestazione «Frassinelli Tipografo-Editore». Sul frontespizio del primo si legge «Le avventure di Topolino | (Mickey Mouse) | Storielle e illustrazioni dello Studio | Walter Disney | N. 1». Walter dunque, e non Walt, per un ipercorrettismo mal posto, mentre a centro pagina una Minnie sorridente con fiorellino inalberato sul cappello agita un fazzoletto in segno di saluto. Questo primo volumetto – che reca, nel controfrontespizio, l’indicazione «a cura di antony» – offre due storie: I pionieri e I militi del fuoco. A fine volume, una pagina bianca contiene unicamente una domanda-invito rivolta al lettore: «E poi? | Se queste avventure di Topolino vi sono piaciute, felici vi faranno le nuove storielle del numero 2». E il numero 2 (dal frontespizio ci saluta Mickey Mouse prima maniera: scarpe grosse, torso nudo e pantaloncini con i due grossi bottoni rotondi sul davanti) presenta altre due storie, Il mistero del gorilla e La festa del compleanno.

Prima però di osservare più da vicino i contenuti dei due libretti curati da Antony-Antonicelli, e in particolare la trasposizione italiana dei testi americani originali, bisogna rispondere a una domanda: che cosa sono questi manufatti editoriali? sono davvero degli albi a fumetti? In realtà non lo sono. Nel frontespizio delle edizioni originali troviamo questa indicazione: Story and Illustrations by Staff of Walt Disney Studio.

 

Mickey Mouse Movie Stories, frontespizio

Mickey Mouse Story Book, 1931, apertura e dedica

I volumetti tradotti e stampati da Frassinelli non sono fumetti, sono delle Mickey Mouse Movie Stories, oggetti di natura ibrida. Le immagini che si susseguono nelle pagine a stampa non sono nate sulla e per la carta, provengono invece dai primi cortometraggi di Topolino & C., proiettati nei teatri americani: i volumetti delle Mickey Mouse Movie Stories sono antologie di fotogrammi, oggetti di merchandising che lo «Staff of Walt Disney Studio» (dicitura resa da Antony con quel Walter in eccedenza) ha creato per sfruttare fino all’ultima goccia il successo enorme delle prime pellicole Disney. Per questo motivo il loro frontespizio parla di Story (una, confezionata a posteriori) e di Illustrations (molte, preesistenti e oggetto di selezione dalla pellicola in cui scorrono).

A partire dal 1930 i libretti delle Mickey Mouse Movie Stories vengono pubblicati a Philadelphia da David McKay, con copertine in vari colori. Lo sfruttamento commerciale si spinge fino a tenere conto dei collezionisti: per una singola storia nata per lo schermo e poi spezzettata su carta esistono almeno quattro copertine con colori diversi; non mancherà chi le voglia comprare tutte.

Nelle edizioni originali americane ciascuna delle storie corrisponde a un albo, mentre le date rispettive del debutto in sala per i cortometraggi dai quali derivano sono le seguenti:

5 dicembre 1930: Pioneer Days
10 ottobre 1930: The Gorilla Mystery
25 giugno 1930: The Fire Fighters
7 gennaio 1931: The Birthday Party

Ecco dunque risolto un mistero preliminare, rimasto insoluto fino a oggi, di queste traduzioni italiane: i libretti di Frassinelli, ripresi dalle pubblicazioni McKay, sono una sorta di fotoromanzo di Mickey Mouse, versioni italiane eseguite su transcodifiche dal linguaggio filmico al linguaggio dell’immagine disegnata, e con un testo a corredo misto di prosa e versi, la cui versificazione –dettaglio cruciale – è fitta di onomatopee. Il testo scritto, ben più abbondante rispetto ai normali albi a fumetti, è l’unica maniera di dare senso e amalgama alla storia messa in pagina: una scelta necessariamente frugale di singoli fotogrammi deve dire addio alla rocambolesca continuità della vicenda che a rotta di collo corre sullo schermo: vanno perdute quasi completamente le acrobazie e le gag. Le parti in prosa, i versicoli in rima tamponano e ricuciono come possono, ma spesso vanno a senso, o se ne vanno per conto loro.

Nei libretti originali McKay c’è una straordinaria invenzione che non viene riprodotta in italiano: questa.


In antiporta i libretti recano la dicitura (tutta in M) Mickey Mouse Miniature Movies, seguita dall’invito in rima baciata Flip these pages – here’s your chance | See Mickey Mouse and Minnie dance!, che suppergiù si potrebbe tradurre così: «Fai scorrere gli angoli, basta provare, | e vedrai Mickey e Minnie ballare!». Gli angoli inferiori di destra di ciascuna pagina sono illustrati, infatti, con Mickey che si anima in un ballo, gli angoli di sinistra con Minnie che fa altrettanto, sicché sfogliando rapidamente con la punta di un dito si assiste a due danze distinte: e succede, com’è ovvio, sia dalla prima all’ultima pagina sia dall’ultima alla prima. È un dispositivo manuale di animazione, un surrogato della real thing a compensare il pubblico del non trovarsi seduto dinanzi a un grande schermo.

Le due figurine in movimento frenetico rimandano anche alla pazza gioia del sonoro: questi albi sono, a ogni effetto, libri cinematografici improntati a quello sbalordimento acustico che d’altronde accompagna fin dal principio (fin dal 18 novembre 1928, debutto di Steamboat Willie al Colony Theatre di New York) i cortometraggi di Mickey Mouse. I volumetti del flip these pages sono, ancora, oggetti ispirati dalla gioia dell’operare sulla materia, esperienza alla quale incoraggiano i loro lettori. I cartoni animati, le figure dei cartoni animati, si possono deformare in tutti i modi; e andando a guardare su YouTube quei cortometraggi del 1930-31 (ci sono tutti e quattro) si scoprirà fino a che punto siano strapieni di invenzioni spettacolari quanto impossibili secondo le leggi della fisica: pieni zeppi di torsioni che richiamano da lontano (ma dentro la stessa geografia, dentro la stessa epoca culturale) l’operatività sulla materia che proprio negli anni trenta la fisica atomica va sperimentando. E qui se ne può approfittare per aggiungere che tanto la gioia del sonoro (del fissaggio acustico di parole e suoni nella propria memoria) quanto la gioia di manipolare la materia avvicinano questa storia, che al momento riguarda il solo Antonicelli, a quella del suo futuro autore Primo Levi, già comparso all’inizio.

5.

Chi ha fatto, per Le avventure di Topolino, il lavoro di trasposizione dall’inglese all’italiano? Di un intervento di Pavese si è sussurrato a lungo, ma sono i documenti dell’Archivio Frassinelli ad averne offerto le prove (D’Orsi 1996, 111-13). Oggi sappiamo che davvero fu Pavese a eseguire la traduzione letterale a beneficio dell’amico Antony: un primo getto a ricalco, avvisandolo tra l’altro che la parola mystery andava intesa in senso poliziesco. Ed ecco per l’appunto la sua resa di servizio per i versicoli iniziali in The Gorilla Mystery:

Questa volta è un orribile [«orribile» sostituisce «brutto», cancellato] pasticcio
Tota Minnie Mouse è in pericolo.
Si dice che un gran gorilla è in libertà
Ma M. Mouse è sempre vicino.

Antony rielabora in questo modo:

Questa volta è un brutto affare!
Un gorilla in libertà
terrorizza la città.
(ma c’è Michi a vigilare).

L’intervento è perfetto, ma Mickey viene italianizzato in «Michi», e non solo scompare la sua compagna, ma scompare la connotazione piemontese – «Tota Minnie» – che Pavese ci aveva messo di suo e che è il dettaglio più significativo del lavoro offerto all’amico: basti ricordare che risale proprio agli anni 1930-32 il suo ciclo di racconti Ciau Masino, destinato a rimanere inedito fino al 1968. Quando a pagina 24 del secondo volumetto Frassinelli troveremo in La festa di compleanno lo scambio «“Oh, ciau, Michi!” “Ciau, Minni!”», fra i due nomi italianizzati (Antony) e la formula di saluto in dialetto (Pavese) non sapremo più bene a chi attribuirlo: a riprova del lavoro eseguito in comune e del fatto che il Piedmontese American English quale si affaccia dai documenti sta a segnalare l’esistenza di un laboratorio espressivo che, come vedremo, non chiude qui la sua attività.

Pavese non ha mai parlato di questa sua opera di manovalanza linguistica (non sarebbe stato nel suo carattere, ed è probabile che la considerasse, se pure ne conservò memoria, come qualcosa di insignificante o vagamente vergognoso), né tantomeno risulta che abbia mai chiesto a terzi un qualche consiglio su come tradurre gli albi di Mickey Mouse. Per tre interi anni aveva corrisposto con un insegnante di musica italo-americano, Anthony Chiuminatto, al quale chiedeva esose forniture di libri americani e consulenze su centinaia e centinaia di parole e locuzioni in slang: ma era uno slang ben più stretto e impervio di quello che potesse figurare in una storia di Topolino, e comunque la corrispondenza Pavese-Chiuminatto si esaurisce proprio all’inizio del 1933. Il Pavese-1933 è ormai padrone assoluto dello slang: non parla una sola parola di inglese ma è capace di produrre pagine e pagine in perfetto slang scritto, come testimoniato dai documenti che restano.

“Go West, young man,” was good advice,
So Mickey thought it would be nice
To be a plucky pioneer
And try his luck, both far and near.

Michi con Minni
s’è messo in cammino.
Va verso Occidente,
ma non per piacere:
vuol fare fortuna,
lontano o vicino,
e, come vedete,
diventa pioniere.

Così come negli originali stampati da McKay, anche in italiano le Movie Stories hanno testi misti di versi e prosa. Antonicelli rende in questo modo il prologo della prima, Pioneer Days / I pionieri. Pare che fosse, lo testimoniano tutti i suoi amici, un bravissimo improvvisatore in versi. Qui i suoi modelli nella lingua di arrivo – che, come si è potuto vedere, trasformano alla radice l’originale americano – sono obbliganti: le filastrocche e versicoli tipo «Corriere dei piccoli» innanzitutto, ma troveremo anche, in qualche punto, dei martelliani che corrispondono al metro dell’originale ma il cui possibile modello italiano è Giuseppe Giacosa: «Stavano tutti svegli con balli e con evviva, | ed il fuoco ruggente la paura bandiva» (p. 7, per The brave folks made merry with dancing and cheers | And the big roaring campfire banished their fears). In una canzone di Minni sentiremo (p. 6) che «l’alma vola» e poco oltre (p. 7) avremo un «Guatando» in incipit. In una singolare fusione o compresenza o accapigliarsi di paradigmi, il linguaggio si mostra indeciso tra l’Ottocento e il Novecento, mentre nel primo brano in prosa (p. 4) sembra addirittura affacciarsi Dante: «Una confusione assordante di rumori ruppe l’alto silenzio del deserto» (dall’attacco di Inferno IV, «Ruppemi l’alto sonno ne la testa»; nell’originale è a jumble of sounds broke the stillness of the desert). A volte, poi, affiora il calco letterale: «Or ecco, nella Via Principale [Main Street], il più bel grattacielo era in fumo» (p. 24). D’altronde, i nomi sono trascritti all’italiana, quasi foneticamente traslitterati: accanto a «Michi Maus» e a «Minnie» (dei quali, viceversa, Pavese rispetta la grafia originale nel suo brogliaccio) troviamo Orazio Collardicavallo (Horace Horsecollar) e Mucca Clarabella (Clarabelle Cow: quest’ultimo slittamento è veniale), due personaggi che sembrano annunciare gli epiteti omerici, le parole composte dell’Iliade sulla cui resa italiana Pavese e la sua traduttrice-interlocutrice-antagonista Rosa Calzecchi Onesti discuteranno e si arrovelleranno a lungo, tra il 1948 e il 1949: occhiovivace, rapidopiede, bracciobianco bisogna scriverli tutta una parola oppure staccando?

6.

La traduzione del Dedalus di Joyce è assegnata a Pavese nel gennaio del 1933 (Pavese 1966, 362 nota). Racconta Massimo Mila:

Tradusse Dedalus in quindici giorni, poi, rendendosi conto che tanta rapidità non avrebbe fatto buona impressione, aspettò tre mesi prima di consegnare la traduzione ad Alberto Rossi, che doveva fare la prefazione. Rossi, un letterato finissimo e scrupoloso, si mise le mani nei capelli: «Ma sei matto! Pretendi di tradurre un libro di Joyce in tre mesi?». Poi dovette ammettere che la traduzione era un capolavoro. (Mila 1983)

Anche l’editore Carlo Frassinelli, che ha commissionato il lavoro, conferma l’episodio:

Ricordo quando tradusse Dedalus di Joyce. Bene, ci mise venti giorni. «Non lo dica a nessuno», mi disse alla fine, «altrimenti penserebbero ad un cattivo lavoro». Dettava alla sorella che batteva a macchina. Ogni tanto si alzava, andava all’acquaio e si passava sulla fronte uno straccio inzuppato. Gli regalai, allora, un dizionario d’inglese. Alla fine, era tutto sgualcito, inciso dalle unghiate. (Mondo 1964)

Lasciando da parte la curiosità dell’aneddoto e la genialità del traduttore, siamo negli stessi mesi, nelle stesse settimane si può dire, del lavoro greggio sulle avventure di Mickey Mouse. Ed ecco le prime righe del Dedalus nella versione di Pavese:

Nel tempo dei tempi, ed erano bei tempi davvero, c’era una muuucca che veniva giù per la strada e questa muuucca che veniva giù per la strada incontrò un ragazzino carino detto grembialino…
Il babbo gli raccontava questa storia: il babbo lo guardava attraverso un vetro: aveva una faccia pelosa. Grembialino era lui. La m
uuucca veniva per la strada dove abitava Betty Byrne, che vendeva filato di limone.

Oh, le belle rose di selva
là nel verde giardinetto.

Cantava questa canzone. Era la sua canzone.

Oh, le belle lose veldi.

Quando bagnate il letto, prima è caldo, poi viene freddo. La mamma metteva la tela incerata. Era ciò che dava l’odore strano.
La mamma aveva un odore più buono del babbo. Gli suonava sul piano la tarantella per fallo ballare. Lui ballava:

Tralala lalla
tralala lallara
tralala lalla
tralallà.

(Pavese 1933, 3)

Ed ecco il testo originale:

Once upon a time and a very good time it was there was a moocow coming down along the road and this moocow that was coming down along the road met a nicens little boy named baby tuckoo.…
His father told him that story: his father looked at him through a glass: he had a hairy face.
He was baby tuckoo. The moocow came down the road where Betty Byrne lived: she sold lemon platt.

O, the wild rose blossoms
On the little green place.

He sang that song. That was his song.

O, the green wothe botheth.

When you wet the bed first it is warm then it gets cold. His mother put on the oilsheet. That had the queer smell. His mother had a nicer smell than his father. She played on the piano the sailor’s hornpipe for him to dance. He danced:

Tralala lala
Tralala tralaladdy
Tralala lala
Tralala lala.

(Joyce 1916, 7)

Pavese riproduce in italiano lo slalom delle onomatopee e delle assonanze, ma per la ricostruzione che sto tentando è importante soprattutto che sia stato così scaltro da mettere in corsivo – a differenza di quanto capita nell’originale di Joyce – le u del prolungamento vocalico di muuuucca: l’italiano sopporta meno certe deformazioni, che d’altronde corrispondono alle onomatopee presenti nelle Mickey Mouse Movie Stories, e che lui nel brogliaccio italiano di servizio segnala ad Antonicelli dove inserire. Per limitarci alla prima facciata dei Pionieri (pp. 4-5 in Le avventure di Topolino n. 1), troviamo in incipit, su due righe e in tutte maiuscole, un

«M-M-MMMM…» «IH-OH…»
«TLINKT-TLINT!»

che è il frastuono di una carovana di carri in marcia attraverso il deserto, e che nell’originale suona (è davvero il caso di dirlo):

«M-M-MOOOOO,» «Hee-Ho,» «Clankity-Clank!»

e non è centrato in pagina ma è l’incipit di capoverso in prosa, mentre più avanti, in corsivo, avremo un «cloct-cloct» (zoccoli di un cavallo) e un «Uà-Uà-Uà» (grido di allarme di un pellerossa in servizio di scolta). Nel caso queste onomatopee le abbia reinventate (in italiano) Pavese, sappiamo che già si è divertito a collaudarle nel Dedalus; se viceversa la reinvenzione è di Antonicelli, sappiamo che nella sua memoria acustico-visiva si sono appena depositate le onomatopee di Joyce, che Pavese ha fulmineamente rimodulato in italiano poco prima.

Il Dedalus di Joyce e i due libretti di Walt Disney – il primo di livello putativamente eccelso, il secondo di livello putativamente mediocre – sono dunque prodotti industriali e traguardi culturali in qualche maniera gemellati e, ciò che più importa, comunicanti. In questo frangente essi suggeriscono in che cosa consistesse il mestiere di Antonicelli nei primi anni trenta, e la sua lungimiranza come imprenditore editoriale; la troviamo compendiata nella lettera che invia a Frassinelli l’8 febbraio 1935 (è manoscritta su carta intestata «Dott. Franco Antonicelli, Torino, Corso Sommeiller 11, T. 61455» – in Centro Gobetti, Fondo Antonicelli, cart. 1a).

Caro Frassinelli,
Lei sa come si dice: il vasaio faccia il vasaio e il fabbro il fabbro. Io riconosco a Lei la Sua competenza e Lei riconosca a me la mia. E non mi dica che questi racconti sono inferiori al
Processo. Né mi convincono gli altri ragionamenti. Lei ha il torto di credere che io m’illuda sulle «cose materiali»: per carità! So bene quel che va e quel che non va e quel che s’ha da fare o da non fare. Quando, per prima cosa, non si hanno danari per variare il programma e allargarlo, si continua su di una strada: e quella da me segnata è nobilissima, e se tiene conto dei pochi libri e delle poche disponibilità e della difficoltà nel trovare e scegliere, vede che anche, dopo tutto, non è infruttifera.

Sempre nel 1933, dopo Dedalus il VI volume della «Biblioteca Europea» è Il processo di Kafka nella traduzione (e con introduzione) di Alberto Spaini, prima comparsa di Kafka in volume in lingua italiana. Al principio del 1935 la giovane germanista Anita Rho propone di fare anche la raccolta dei suoi racconti (frattanto, nel 1934, è uscita da Vallecchi La metamorfosi, versione italiana di Rodolfo Paoli). Frassinelli è riluttante perché Il processo ha venduto poco, nemmeno 700 copie; Antonicelli gli insinua in tutti i modi che Kafka è una scommessa lenta ma vincente, e che se Frassinelli accetta di pubblicare le sue opere le dovrà poi ristampare per anni e anni a venire: come di fatto accadrà. «Io di programmi seri e validi ne ho in testa e sono sicuro di quel che penso e non faccio, come Lei dice, il poeta (sebbene anche le poesie, quando son belle, rendan quattrini)».

Nella traduzione di Anita Rho, la raccolta Il messaggio dell’imperatore sarà, nel 1935, il volume VIII della «Biblioteca Europea», ma si può dire che ormai l’avventura della collana sia giunta alla fine: in maggio Antonicelli è arrestato per attività antifascista e inviato al confino di Agropoli. Nell’anno della sua permanenza in Campania, e poi al suo ritorno a Torino, i rapporti con Frassinelli si guastano senza rimedio, fino alle vie legali. È una storia spiacevole. Meglio ritornare a ciò che Antonicelli ha appena detto di non essere e di non voler essere: un poeta.

7.

 

D’improvviso le Langhe! E t’ho pensato.
Dure, gialle, custodi al sole, arate
da grandi ombre. Lì è nata la tua voce,
il gusto dei solinghi pentimenti.
Mesi non ci parliamo, anni; ma solo
per quell’urto del sangue che ho sentito,
io ti saluto. Un’ombra c’è tra noi
che giudica severa i nostri stenti.

1932, da sinistra, Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Carlo Frassinelli

Il titolo di questa poesia, cui segue la data «3-viii-1948», è Cartolina a Pavese. Nel 1967 Antonicelli la mette in posizione d’apertura nella sua raccolta Improvvisi, pubblicata All’insegna del pesce d’oro. Il testo è da leggere avendo sott’occhio questa celebre fotografia del 1932: che, mi ha raccontato tempo fa l’erede di Carlo Frassinelli, fu realizzata con l’autoscatto: Frassinelli si è appena messo a sedere su quel muretto.

L’antefatto della poesia è invece tutt’altro. Antonicelli viene arrestato il 6 dicembre 1943, sempre per attività antifascista, nella Roma occupata dai nazisti. Finisce a Regina Coeli, dove può incontrare il suo amico Leone Ginzburg, preso il 20 novembre per la stessa ragione. Il primo febbraio 1944, quattro giorni prima che Ginzburg muoia nel braccio tedesco della prigione in seguito alle torture subìte negli interrogatori, Antonicelli è trasferito in un carcere emiliano, dove gli arriverà la notizia della morte di Leone. Il 18 aprile lo spediscono a Torino con il foglio di via e con l’ingiunzione a presentarsi in questura entro tre giorni. Sembra però che un funzionario di polizia gli dia un modo di fuggire: troverà rifugio in una cascina a Montechiaro di Asti.

La data «3-viii-1948» di Cartolina a Pavese è fittizia. Antonicelli ha raccontato l’origine di quei versi in tre occasioni. Riporto una di seguito all’altra le due testimonianze più tarde; la prima è del 1962, la seconda è nella prefazione a Improvvisi.

Aprile-maggio 1944. «E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore?»… Io potevo. Ero ancora un letterato puro (o quasi), eccetera eccetera. Ma c’era il fatto che io uscivo fresco fresco di prigione, in quel periodo di mors certa vita incerta di mezza Italia. Avendo addosso un mandato di cattura (di un’altra polizia) mi ero rifugiato in una casetta dell’Astigiano, dove stavo chiuso in una mansardina tutto il giorno, salvo pochi minuti. […]

La Cartolina a Pavese, come altre poesie che scrissi in quel breve intermezzo di pace, fu immaginata e architettata in carcere (Forte Urbano, carcere di campagna, Castelfranco Emilia). «D’improvviso le Langhe!»: forse mi era tornata a mente una vecchia fotografia dove Leone Ginzburg sedeva su un muricciolo, in non so quale poggio delle Langhe, tra Pavese e me, al tempo che ero riuscito a far tradurre da Cesare Moby Dick. L’«ombra» che, nella poesia, sta «tra noi» è quella di Leone; e io da poco avevo saputo ch’egli era morto. Non so se trascrissi poi quella «cartolina» per darla materialmente a Pavese.(Antonicelli 1962, 43)

La data della Cartolina è il 1948; in realtà l’«improvviso» nacque prima, nel ’44, a Forte Urbano di Castelfranco Emilia e, non potendolo allora scrivere, lo tenni a memoria. L’«ombra» cui si accenna è quella di Leone Ginzburg di cui avevo, da poco, appreso la dolorosa morte, prigioniero dei tedeschi a Roma. (Antonicelli 1967, 7)

Come si sarà notato, Antonicelli elimina dalla scena la presenza di Carlo Frassinelli. Quanto alla data 3 agosto 1948, si potrebbe ipotizzare che sia il giorno in cui ha consegnato a Pavese la Cartolina. Ma non andò così. Nella prefazione a Improvvisi, poco prima del brano qui trascritto Antonicelli spiega che Cartolina a Pavese è anche, fra le poesie dello stesso genere presenti nel volume, «l’unica anche che è stata già pubblicata in un angolo di rivista». L’espressione è strana ma corrisponde al vero: privi di titolo, ma con la data «1944» in calce, quei versi sono l’epigrafe di un testo, Le favole di Pavese, che Antonicelli pubblica nel mensile «Il Ponte» pochi mesi dopo il suicidio del suo amico. Non è un ricordo, non è un ritratto biografico, non è un saggio critico, benché di momento in momento provi a essere l’una cosa o l’altra o l’altra ancora. È uno scritto spinto dalla passione ma che procede a vuoto, come se Antonicelli scalasse una parete liscia. Il testo si chiude così, con solennità e umiltà nel suo smarrimento:

Ma i miei veri ricordi cominciano ora, con la sua scomparsa, con i libri che ha lasciato, con l’immagine della sua vita, volta interamente a scandagliarsi, a esprimersi con una sorprendente tensione del suo forte, nutrito intelletto.

Se io dovessi un giorno dare un seguito a quei semplici versi che ho messo per epigrafe in cima a queste pagine – chi potrebbe parlare di vanità? è solo la naturalezza dell’affetto – versi di una «cartolina a Pavese» dal carcere, che a lui non spedii e ch’egli non conobbe mai, io vorrei poter dire questo, il giorno che veramente sentissi di poterlo dire, che lui, come Leone Ginzburg (l’«ombra che c’è tra noi», quella di Leone) è ormai nella mia vita, è parte della mia vita e insieme con l’uno e con l’altro io ho continuato a fare umilmente quello che essi avevano fatto e volevano che soltanto si facesse: portare avanti il mondo.(Antonicelli 1950, 1416)

Nel 1944, quando un improvviso di memoria gli détta la Cartolina a Pavese mentre è rinchiuso in un carcere e non ha modo di fissarla sulla carta, Antonicelli è certo visitato da molti ricordi – non solo quelli lontani del 1932. Alcuni risalgono a poco tempo prima, quando è ancora un uomo libero mentre il suo amico Leone si trova al confino di Pizzoli, in Abruzzo, come antifascista e come ebreo.

Il 10 gennaio 1942 Antonicelli ha fondato a Torino una nuova casa editrice, la De Silva; un anno più tardi escono i primi libri con il nuovo marchio.

Il marchio De Silva

Dopo la chiusura della «Biblioteca Europea» Antonicelli ha potuto meditare sull’esempio che proprio Ginzburg gli è andato offrendo come co-fondatore, nel 1933, di una casa editrice, la Einaudi, che in breve giro di anni si è conquistata un ruolo di primo piano. Non solo in campo editoriale, l’esempio di Ginzburg è decisivo, e il suo giudizio è atteso e temuto:

Non è che costringesse i suoi amici a buttarsi anima e corpo nell’opposizione clandestina, ma li poneva col suo esempio inflessibile davanti al dovere di essere, ciascuno con la sua vocazione, sincero e rigido con se stesso. La sua non era tanto una predisposizione politica quanto una generale pedagogia dello spirito. Egli era soprattutto, direi, uno spirito filologico: educava sé e gli altri allo scrupolo, alla verifica, alla certezza.(Antonicelli 1964, 3-4)

Parole di Franco Antonicelli in un ricordo pronunciato alla radio vent’anni dopo la morte di Ginzburg. «Un’ombra c’è tra noi | che giudica severa i nostri stenti»: l’accento cade su stenti.

I maestri d’un tempo, De Silva, 1943

Il primo libro stampato da De Silva è I maestri d’un tempo di Eugène Fromentin, nella traduzione di Anna Bovero e con prefazione di Mary Pittaluga, che inaugura anche la prima delle sue collane, «Maestri e compagni». Siamo nei primi mesi del 1943; Ginzburg scrive ad Antonicelli l’8 aprile dall’internamento di Pizzoli. La sua disamina è meticolosa:

Caro Franco,
ho ricevuto il Fromentin, e ti ringrazio molto. (Di’ però alla casa editrice di imballare meglio i libri, mettendoli sotto almeno due carte, se no arrivano piuttosto spettinati). È stata un’ottima idea cominciare con i
Maîtres d’autrefois (che io avrei tradotto, però, I vecchi maestri o Gli antichi maestri). La traduzione mi pare assai buona, e certo c’entra il tuo zampino. La prefazione avrei preferito che la facessi tu, ci sarebbe stato qualcosa d’imprevisto: così è ottima, ma un po’ troppo da «prima della classe». Le illustrazioni sono scelte ottimamente, e con bella discrezione hai messo innanzi qualche tesoro della Galleria Sabauda. Non capisco, invece, perché sull’occhio iniziale si legge tra parentesi Biblioteca di cultura moderna, quando sul risvolto posteriore della sopracoperta c’è, sempre tra parentesi, una designazione molto più originale e più tua, che dovrebbe rimanere: Biblioteca di studi critici e morali. Non mi piace affatto, poi, il carattere ottocentesco del frontispizio e della copertina: non perché ottocentesco, ma perché brutto (soprattutto quelle lettere vuote); e dà al libro un carattere lezioso, che è in contrasto col tono della casa editrice e col contenuto del libro. Ho trovato un paio di erroretti di stampa, tra cui uno è solo una virgola che manca; ma non te la prendere, perché adesso tutti i libri e le riviste più reputate (cfr. la «Critica») formicolano di errori di stampa. Infine, io personalmente avrei preferito la distinzione di accenti acuti e gravi; tu non la ami: pazienza. Adesso aspetto la signora di Staël. Auguri, auguri. (Ginzburg 2004, 211-12)

A questo brano deve seguire subito un’avvertenza: Leone Ginzburg si comporta allo stesso modo, e usa lo stesso tono, con la casa editrice, l’Einaudi, che ha fondato e della quale resta virtualmente il direttore in carica, sia pure in esilio. Detto ciò, possiamo immaginare con quale animo Antonicelli si prepari, nella primavera 1943, a spedirgli il secondo titolo delle edizioni De Silva (nonché dei «Maestri e compagni», con quell’incerto sottotitolo che all’amico non è sfuggito): La Germania di Madame de Staël, versione italiana di Ada Caporali, prefazione di Pietro Paolo Trompeo. E tuttavia, prima ancora di fargli avere il Fromentin che segna il debutto della De Silva, Antonicelli gli ha inviato il programma editoriale, accompagnandolo con una lettera di recriminazioni contro lo strapotere (rispetto a lui, almeno) di Giulio Einaudi; Ginzburg (lettera del 2 aprile 1943) non lascia passare lo sfogo:

Ti calunnii quando ti paragoni a un generale di ventura: mi pare che tu conosca troppo bene la strategia e la tattica editoriale per essere ritenuto un guerrigliero del mondo dei libri. Vincerai certo bellissime battaglie, purché tu abbia pazienza e costanza. Chi ha – secondo te – un brillantissimo stato maggiore a cavallo attorno a sé, io lo ricordo quando divideva con Aquilante le cinquanta o le venti lire che erano in cassa, e due famiglie vivevano alla meglio perché si potessero stampar nuovi libri, sempre nuovi libri. Perseverando, nell’editoria, si riesce a spuntarla! (Si capisce che circostanze generali possono contribuirvi potentemente; ma queste sono lì per aiutare anche te). (Ginzburg 2004, 207)

Orlando Furioso, canto XV, ottava 67: «Questi erano i dui figli d’Oliviero, | Grifone il bianco et Aquilante il nero». A guerra da poco conclusa e nel primo ricordo dell’amico Leone che affida alla stampa (il primo, che è ancora inedito e che ne tace il nome, è proprio Cartolina a Pavese) sarà lo stesso Antonicelli a spiegare che molti anni prima lui e Ginzburg si erano spartiti i due nomi ariosteschi, Grifone e Aquilante, corrispondenti alle rispettive carnagioni (cfr. Antonicelli 1946).

«Nessuno» scrive Antonicelli nel suo ricordo del 1946 «potrà prendere accanto a me il suo posto, quel posto ch’era singolarissimo, di amico e di tutore, di confidente e mèntore severo». Dopo un training editoriale così arduo, e così irrecusabile, non c’è da meravigliarsi che Antonicelli intitoli «Biblioteca Leone Ginzburg» (sottotitolo entro parentesi: «Documenti e studi per la storia contemporanea») la collana portante delle edizioni De Silva, fin da quando esse annunciano, proprio nel 1946, una ripresa dell’attività che solo un anno più tardi entra nel vivo (Mazzoleni 1998, 227-50). Pubblicato nel 1947, il numero 3 della collana sarà Se questo è un uomo di Primo Levi.

 

8.

Goya, Album C, 49

Come si sa, è Franco Antonicelli a scegliere il titolo Se questo è un uomo per l’esordio di Primo Levi. L’autore, che in un primo momento lo ha intitolato Sul fondo, lo presenta a De Silva come I sommersi e i salvati. Difficile sopravvalutare l’importanza del titolo definitivo per la fortuna dell’opera. I due titoli presi in considerazione da Levi erano più ristretti, più parziali e (soprattutto il secondo, I sommersi e i salvati) più soggetti a malintesi. Viceversa, un titolo interrogativo, un titolo sotto forma di ipotesi, un titolo agganciato al vuoto di un verbo – «Considerate» – e nel quale chi lo legge per la prima volta avvertirà simultaneamente un’incompletezza e l’urgenza di completarla, di trovare una risposta: tutto questo rende geniale il titolo assegnato da Antonicelli, così come geniale è l’illustrazione da Goya a partire dalla quale si elabora l’immagine in sovracoperta: un disegno proveniente dal cosiddetto Álbum C, conservato al Museo del Prado, che forse Antonicelli ha visto in un catalogo appena pubblicato da Skira (Mori e Scarpa 2017, 123).

Se questo è un uomo è in assoluto, fra i libri pubblicati da De Silva, quello in cui Antonicelli ha creduto di più e per la cui promozione ha impiegato la maggiore quantità di risorse economiche e inventive.

 

Antonicelli prepara una brochure a colori in ottavo grande, quasi un formato album, che si apre con un primo piano fotografico dell’autore e che riporta, all’interno, la poesia-epigrafe manoscritta da Primo Levi; il verso che contiene il titolo del libro è in inchiostro rosso. Non solo la brochure viene distribuita alle librerie, agli agenti, a chiunque entri in contatto con le edizioni De Silva, ma viene integralmente riprodotta nel fascicolo del 15 ottobre 1947 del «Giornale della Libreria» (anno LX, n. 19, pp. 553-56), che è oltretutto un «fascicolo speciale per i libri di strenna».

 

Se questo è un uomo esce dunque come terzo titolo della «Biblioteca Leone Ginzburg». Non è casuale la collocazione in una serie di «Documenti e studi per la storia contemporanea»: fin dal principio, dunque, lo si considera non solo un’opera di testimonianza, ma un testo di studio e un libro destinato a rimanere (e, di conseguenza, un long seller); a riprova, basti leggere il testo anonimo, ma ovviamente di Antonicelli, nella pagina accanto a quella con il ritratto di Levi (e si tratta della quarta e ultima pagina della brochure).

Proprio come i primi quattro volumi della «Biblioteca Europea», anche la «Biblioteca Leone Ginzburg» ha una coerenza, un valore complessivo che supera la somma dei singoli elementi; di qui il pieghevole della collana, che di volumi ne presenta sei.

 

Non è finita. L’oggetto più straordinario ed elegante prodotto da Antonicelli per fare pubblicità ai libri De Silva è anche il più piccolo: in formato carta d’identità, una serie di quartini pubblicitari a colori. Sopravvive una trentina di questi oggetti: il numero 15, colorato in rosso vivo, è per Se questo è un uomo e riporta una frase appositamente coniata da Primo Levi, che non compare nel suo libro ma ne è la sintesi: «Questo libro non è stato scritto per accusare, e neppure per suscitare orrore ed esecrazione. L’insegnamento che ne scaturisce è di pace: chi odia, contravviene ad una legge logica prima che ad un principio morale.»

La sentenza conclusiva suona come la frase di un moralista classico o di un illuminista: potrebbero averla pensata Pascal o Diderot. Si potrà avere l’impressione che ci troviamo ormai molto lontani dai libretti di Mickey Mouse sui quali ci siamo fermati a lungo. di essere ormai molto lontani dai libretti di Mickey Mouse sui quali ci siamo fermati tanto a lungo. Eppure, fra quelli e l’opera prima di Primo Levi (e il suo primo editore Antonicelli) esiste più di un legame, un legame che attraversa i decenni del Novecento, dal debutto di Mickey Mouse in un teatro newyorkese nell’ultimo scorcio degli anni venti, alla campagna antiebraica di offesa, persecuzione e sterminio che, promossa dal movimento nazista, s’inarca da quegli anni venti fino al 1945. Ben presto, infatti, sarà la politica tedesca – nazionalista dapprima, nazifascista poco più tardi – a istituire un nesso tra i topi reali, i topi disegnati o animati e gli ebrei (e quella politica non fa distinzione fra ebrei reali ed ebrei immaginari). A partire da quel momento il nesso topi-ebrei innesca una serie di azioni-retroazioni fra la politica e l’estetica la cui onda d’urto giunge fino a noi.

13 uglio 1930: il «Berliner Tageblatt» informa che gli uffici di censura della Repubblica di Weimar vietano la proiezione del cortometraggio Disney The Barnyard Battle (letteralmente «La battaglia sull’aia»; il titolo italiano è Topolino contro i gatti). Disegnato da Ub Iwerks, musiche di Carl W. Stalling, The Barnyard Battle ha debuttato il 25 aprile del 1929 come settimo episodio di Mickey Mouse, mettendo in scena una battaglia dei topi contro animali nemici che sono gatti. I topi indossano dei kepì simili a quelli dei soldati francesi durante la Prima guerra mondiale, mentre i gatti loro nemici (che fin dai primi fotogrammi appaiono come i cattivi da sconfiggere) hanno gli elmetti dell’esercito germanico nel medesimo conflitto. Questa parodia a tutto danno dei gatti-tedeschi integra, per la censura di Weimar, un’offesa alla dignità nazionale (Laqua 1992, 28-31).

Hitler sarà nominato Cancelliere del Reich solo due anni e mezzo più tardi, ma l’episodio è un annuncio. Mickey Mouse avrà a che fare più di una volta con la campagna antiebraica e con i campi di sterminio. Cominciamo da questi ultimi.

Horst Rosenthal, Mickey au camp de Gurs, 1941, copertina

A differenza dei due libri stampati nel 1933 da Frassinelli, Mickey au camp du Gurs di Horst Rosenthal ha proprio il formato (suppergiù un A5) e l’aspetto di un albo a fumetti. Ma è un oggetto in copia unica: le pagine sono tenute insieme da una cucitura a filo grosso e la copertina, realizzata a mano, porta in esergo l’indicazione publié sans authorisation de Walt Disney, più la data «1941».

Ebreo e socialista, Horst Rosenthal era nato a Breslavia nel 1915; bilingue tra francese e tedesco, sognava di trovare scampo negli Stati Uniti; Mickey Mouse era un simbolo del suo paese di elezione. Deportato ad Auschwitz, venne ucciso al momento dell’arrivo, l’11 settembre 1942. Fece in tempo a fabbricare questo album quando si trovava nel campo di raccolta di Gurs, nella regione del Béarn, a nord dei Pirenei. Gurs era in origine un campo di internamento per i profughi dalla guerra di Spagna; per tragica ironia della storia divenne – dopo l’occupazione nazista della Francia, e dopo le leggi antiebraiche emanate dal governo collaborazionista di Pétain – un campo di transito verso Drancy e di qui verso Auschwitz (Pasamonik e Kotek 2017, 17; 23-25).

Nei due libri a fumetti stampati nel 1933 è Antonicelli, come già sappiamo, a italianizzare i nomi che Pavese ha lasciato nella grafia originaria: se in italiano Mickey Mouse è Topolino, per ragioni di ritmo o di rima può anche diventare Michi Maus: Maus, trascrizione fonetica; ma anche Maus come il grande classico della letteratura concentrazionaria a fumetti di Art Spiegelman (Spiegelman 1986-1992).

La prima comparsa del nome «Maus» in Spiegelman è in una strip di tre pagine pubblicata nel 1972 in Funny Animals (Spiegelman 2008, s.n.p.; Spiegelman 2011, 105-7). In quelle tre pagine si sperimentano i primi topi-ebrei, i primi gatti-nazi, antropomorfizzati gli uni e gli altri. Anche nei primi cortometraggi Disney, e nei correlativi derivati su carta del 1929 e anni successivi, gli animali umanizzati Pippo (che è un cane: prima di chiamarsi Goofy si è chiamato, in slang, Dippy Dawg, cane pazzo), Paperino, Topolino, Minnie, Orazio, Clarabella, convivono con animali «animali», cioè non umanizzati. Nei cortometraggi tradotti dal duo Pavese-Antony, fra i pompieri ci sono pitoni (umanizzati), i quali fra gli strumenti a loro disposizione hanno dei gatti (non umanizzati) montati sul loro carro a fare da sirena.

Nei cartoni animati e nelle tavole a fumetti c’è di tutto: nell’animazione che si muove, nel disegno che la blocca, nel prosimetro che, come meglio può, la rimette in movimento. Allo stesso modo, la lingua in cui viene tradotto il Topolino di Pavese-Antony si può definire, in termini psico-linguistico-editoriali, una «formazione di compromesso», a mezza via tra il linguaggio antiquato dell’Ottocento e il linguaggio innovativo del Novecento, così come animali umanizzati e non convivono in Walt Disney e in Art Spiegelman.

In esergo alla seconda parte di Maus, intitolata And Here My Troubles Began (1992), Spiegelman riporta un brano che risale alla metà degli anni trenta; lo ha trovato in un giornale della Germania nazista, «Pomerania»:

Mickey Mouse is the most miserable ideal ever revealed […] Healthy emotions tell every independent young man and every honorable youth that the dirty and filth-covered vermin, the greatest bacteria carrier in the animal kingdom, cannot be the ideal type of animal […] Away with Jewish brutalization of the people! Down with Mickey Mouse! Wear the Swastika Cross! (Spiegelman 1986-1992, 164)

Mickey Mouse è l’ideale più penoso mai esistito […] Sane emozioni rendono consapevoli tutti i giovani obiettivi e la gioventù onesta che un parassita lurido e coperto di sporcizia, il maggiore portatore di batteri del regno animale, non può costituire il tipo ideale di animale […] Basta con la brutalizzazione giudaica della gente! Abbasso Mickey Mouse! Indossate la svastica! (Previtali 2000, 160)

In realtà, Spiegelman cita di seconda mano. Queste parole non risalgono alla metà degli anni trenta, il movimento nazista non ha aspettato tanto tempo: ha visto e riconosciuto subito il suo nemico. Il brano appena riportato appare nel fascicolo di luglio 1931 di «Die Diktatur», organo del Partito nazista per la Pomerania, sotto il titolo Der Micky-Maus Skandal! (Wibbing 1998: Scandalo Mickey Maus).

9.

Che cosa ha fatto Antonicelli? Che cos’è Antonicelli editore? A questo punto, forse, lo si può capire meglio. Nel 1933 (l’anno, coincidenza, in cui il nazismo sale al potere) Antonicelli costruisce l’onomatopea che Pavese gli ha suggerito: Pavese lo mette sulla strada preparandogli lo storyboard, la sinopia verbale del fumetto da rendere in italiano. Creare quelle onomatopee sarà una sorta di incontro spirituale con il talento del suo amico Pavese, che per conto suo le ha appena reinventate per il libro di un altro giovane artista: James Joyce.

Quattordici anni più tardi, Antonicelli riceve il manoscritto di Se questo è un uomo, che forse si intitola ancora Sul fondo, o forse già s’intitola I sommersi e i salvati: e, pescando dalla poesia in versi che l’autore ha messo in epigrafe, decide di cambiare l’uno o l’altro dei titoli in Se questo è un uomo. Anche questa volta, anche nel 1947, Antonicelli si mette a manipolare un qualcosa – i suoni di una lingua nuova – per arrivare a un incontro spirituale e editoriale con un nuovo talento che si rivela.

Credo che Franco Antonicelli sia stato proprio questo per il Novecento italiano. Se pure è stato dispersivo, se pure non ha realizzato tutti i suoi progetti o li ha realizzati solo in piccola parte interrompendoli troppo presto, rimane il fatto che ha dato avvio e sostegno ai progetti altrui. Grazie al suo lavoro e al suo intuito è stato un maieuta, qualcuno capace di tirare fuori il meglio di ciò che gli altri andavano pensando, e di accompagnarlo fino a un traguardo.

La via che porta dalle Avventure di Topolino a Se questo è un uomo è poco visibile, ma forse è meno tortuosa di quanto potesse apparire in partenza. Forse era fatale che un editore direttamente impegnato nel creare una voce italiana per Topolino si ritrovasse poi, superata una guerra mondiale, a operare su Se questo è un uomo come editore – ma anche come editor: per quel decisivo dettaglio del titolo.

Le avventure di Topolino nel 1933 e Se questo è un uomo nel 1947 hanno questo punto in comune: inventano, in italiano, un linguaggio che prima non c’era. Sono, l’una e l’altra, opere di traduzione, trapianti di lingue aliene nella lingua italiana: la lingua dello slang e delle onomatopee per Mickey Mouse, il Lagerjargon di Auschwitz per Primo Levi. In un caso come nell’altro bisognava trovare un modo per tradurre quelle due lingue inaudite, per renderle comprensibili, comunicanti con l’italiano, transitive.

Nei decenni più tragici per la storia italiana del Novecento, tutto questo ha fatto – o ha dato una mano a fare – Franco Antonicelli. Ha aiutato Pavese e Melville, Mickey Mouse e Topolino; e più tardi, con la mediazione magari di un Maus di là da venire, ha aiutato Primo Levi e Se questo è un uomo.

 

Bibliografia

Antonicelli 1946: Franco Antonicelli, Aquilante, «L’Opinione», 5 febbraio, p. 3

– 1950: Franco Antonicelli, Le favole di Pavese, «Il Ponte», VI, 11, novembre 1950, pp. 1408-16; poi in Scritti letterari 1934-1974, a cura di Franco Contorbia, Introduzione di Norberto Bobbio, Giardini, Pisa 1985, pp. 93-106

– 1962: Franco Antonicelli, Dieci poesie di antico tempo, in Miscellanea per le nozze di Enrico Castelnuovo e Delia Frigessi. 14 ottobre 1962, s.e., Torino, pp. 35-44

– 1964: Franco Antonicelli, Quello che Ginzburg ci ha lasciato, testo della trasmissione L’Approdo, andata in onda alla radio nel marzo. Il dattiloscritto, 12 fogli con correzioni manoscritte, si conserva presso l’Archivio storico Giulio Einaudi Editore, in deposito presso l’Archivio di Stato di Torino, sezione Recensione volumi, cartella 147 (Ginzburg Leone, Scritti)

– 1967: Franco Antonicelli, Improvvisi, All’insegna del pesce d’oro, Milano («Fascicoli di poesia», n. 12)

– 1984: Franco Antonicelli, Improvvisi e altri versi (1944-1974), a cura di Lorenzo Greco, All’insegna del pesce d’oro, Milano («Acquario», n. 144)

Arbasino 1994: Alberto Arbasino, Antonicelli vicino di casa, «la Repubblica», 3 dicembre

Barbarisi e Pellegrini 1990: Gennaro Barbarisi e Patrizia Pellegrini, Bibliografia degli scritti di Franco Antonicelli, Presentazione di Norberto Bobbio, Olschki, Firenze

Barbarisi et alii 1980: Gennaro Barbarisi, Patrizia Lupi e Patrizia Pellegrini (a cura di), Un baule pieno di carte. Bibliografia degli scritti di Franco Antonicelli, Fondazione Franco Antonicelli, Livorno («Quaderno n. 1»)

D’Orsi 1994: Angelo D’Orsi, Il sodalizio con Frassinelli: un’avventura editoriale nella Torino degli anni Trenta, in Enrico Mannari (a cura di), Il coraggio delle parole. Franco Antonicelli, la cultura e la comunicazione nell’Italia del secondo dopoguerra, Belforte, Livorno, pp. 89-136

Ginzburg 2004: Leone Ginzburg, Lettere dal confino 1940-1943, a cura di Luisa Mangoni, Einaudi, Torino

Joyce 1916: James Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man (qui si cita da The Definitive Text Corrected from the Dublin Holograph by Chester G. Anderson and Edited by Richard Ellmann, New York, The Viking Press, 1969)

Laqua 1992: Carsten Laqua, Unter die Nazis Fiel. Walt Disney und Deutschland, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg

Mazzoleni 1998: Oscar Mazzoleni, Franco Antonicelli. Cultura e politica 1925-1950, Rosenberg & Sellier, Torino

Mila 1975: Massimo Mila, Il mio amico, «La Stampa», 6 novembre, p. 3

– 1983: Massimo Mila, Gli esploratori di Moby Dick, «La Stampa», 9 ottobre, p. 3

Mondo 1964: Lorenzo Mondo, La Balena sotto il torchio, «Gazzetta del Popolo», 20 maggio, p. 3

Mori e Scarpa 2017: Roberta Mori e Domenico Scarpa, Album Primo Levi, Einaudi, Torino

Pasamonik e Kotek 2017: Didier Pasamonik e Joël Kotek, Shoah et bande dessinée. L’image au service de la mémoire, Mémorial de la Shoah – Denoël, Paris

Pavese 1933: James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, Prefazione di Alberto Rossi, Versione di Cesare Pavese, Frassinelli Tipografo-Editore, Torino («Biblioteca Europea diretta da Franco Antonicelli», V)

– 1966: Cesare Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino

Pavese-Chiuminatto 2007:  Cesare Pavese and Anthony Chiuminatto. Their Correspondence, ed. by Mark Pietralunga, University of Toronto Press, Toronto – Buffalo – London

Previtali 2000: Art Spiegelman, Maus. Racconto di un sopravvissuto, I. Mio padre sanguina storia; II. E qui sono cominciati i miei guai, traduzione italiana di Cristina Previtali, Einaudi, Torino

Scheiwiller 1988: Vanni Scheiwiller, Antonicelli editore, in Per Franco Antonicelli. Saggi e testimonianze raccolti da Franco Contorbia e Lorenzo Greco, Edizioni della Fondazione Franco Antonicelli, Livorno, pp. 105-14

Spiegelman 1986-1992: Art Spiegelman, Maus. A Survivor’s Tale, I. My Father Bleeds History [1986]; II. And Here My Troubles Began [1992], Penguin Books, New York 2003

– 2008: Art Spiegelman, Breakdowns. A Portrait of the Artist as a Young %@&*!, Pantheon Books, New York

– 2011: Art Spiegelman, MetaMaus, Random House, New York

Wibbing 1998: Joachim Wibbing, Der Kampf gegen die Micky Maus. Die Nazis und ihr  Verhältnis zu einem kleinen sympathischen Nager, in «Der Minden-Ravensberger», 1998, pp. 108-10