Bad cop e good cop

IL GIOCO DELLE PARTI CON MICHELE SISTO

di Gianfranco Petrillo

Il lettore ormai l’avrà capito. Michele Sisto e io facciamo finta di discutere tra noi soltanto per incastrare meglio il reo, ovvero la collocazione dell’opera letteraria nell’empireo iperuranio delle idee, avulsa da ogni contaminazione materiale, lui con l’eleganza, l’ampiezza e la profondità delle sue ricerche, io con la rozzezza e la pedanteria delle mie puntualizzazioni. Ma finché non avremo costretto alla resa la nostra vittima, imponendo uno studio della letteratura che tenga conto di tutti i fattori e gli agenti che contribuiscono a creare un’opera, il gioco delle parti deve continuare. Sicché, eccomi qua a fare ancora la parte del cattivo.

Nella mia laudatoria recensione al suo libro Traiettorie (Quodlibet 2019), uscita sul n. 17 di questa rivista, alla quale lui ha ampiamente replicato nel numero scorso di «tradurre», mi ero permesso di contestare a Sisto appunto l’adozione del termine balistico «traiettoria», in realtà risalente a Bourdieu, per definire il percorso delle opere letterarie e dei loro “produttori”, perché a mio avviso mal si adatta alla varietà e alla imprevedibilità delle cose umane, comprese la creazione letteraria e la produzione editoriale. Ed ecco, da lui stesso more geometrico demonstrata con tanto di figure nella sua replica, uscita sul numero scorso di «tradurre», la conferma che vorrebbe essere una smentita: quello che sia Bourdieu che lui intendono è tutt’altro che una traiettoria, è una linea spezzata. Benissimo. Ne risulta che il termine è appunto improprio. Ma ce lo teniamo lo stesso.

Ma la mia cattiveria da quell’improprietà deduceva una conseguenza che rappresenta ciò che più fa giustamente orrore a Sisto: il rischio di cadere nel determinismo. Da questo avviso traevo il consiglio a cautelarsi per non rinchiudersi, con l’adozione dello schema bourdieausiano, in una gabbia vincolante. Sisto respinge quella sorta di accusa di determinismo, già contestata da insigni studiosi allo stesso Bourdieu, cercando di difendere un punto della sua argomentazione che io additavo a esempio della trappola in cui rischia di trasformarsi la sua griglia interpretativa se adottata meccanicamente. Si tratta della sua condanna di Giuseppe e i suoi fratelli, la traduzione di Gustavo Sacerdote dei primi tre volumi di Joseph und seine Brüder di Thomas Mann, a opera «a basso capitale letterario» (figura III.3 a p. 266 del suo libro) solo perché comparsa, negli anni trenta, nella collana mondadoriana «Medusa. I grandi narratori di ogni paese», collocata in quello che Bourdieu e lui chiamano «polo di produzione di massa»; mentre, poiché pubblicato nella coeva collezione «Letteraria» di Bompiani, collocata nel «polo di produzione ristretta», il romanzo Fabian di Erich Kästner, che vi compare tradotto dal fantomatico Carlo Coardi, assurge al rango di opera ad «alto capitale letterario». Mi sembrava un palese rovesciamento di valori.

Sisto mi invita a storicizzare, diamine!: facile oggi decretare che Thomas Mann è un grande del Novecento, ma allora, chi se lo filava? Nel dibattito critico delle riviste, dice, non se ne occupava pressoché nessuno. La scoperta della sua grandezza sarebbe venuta solo nel dopoguerra. Non conosco puntualmente la storia della fortuna critica di Thomas Mann in Italia fino agli anni trenta, e forse Sisto ne sa molto più di me. Ma, per quanto da prendere con le molle (allora molto meno di oggi, tuttavia), il premio Nobel del 1929 avrà contato pur qualcosa per far considerare Mann tra i “grandi”, per non dire delle traduzioni precedenti, anche su qualificate riviste e ben prima del Nobel, di ben noti e autorevoli germanisti come Alberto Spaini, Rosa Pisaneschi e Lavinia Mazzucchetti. Quest’ultima, anzi, nello stesso 1929, ma prima dell’annuncio del Nobel, aveva addirittura inaugurato la sua preziosa collanina «Narratori nordici», presso Sperling & Kupfer (diffusione ristrettissima!), con Disordine e dolore precoce e Cane e padrone, le proprie traduzioni da Unordnung und frühes Leid  (1926) e Herr und Hund (1918), che aveva già presentato due anni prima nel numero monografico del «Convito» interamente dedicato a Mann e da lei stessa curato. Mario Luzi affiancava Mann a Proust tra le poche letture formative della sua adolescenza (Accrocca 1960, 252). Il diciannovenne Primo Levi era affascinato dalla «storia senza tempo» della Montagna incantata, la traduzione di Bice Giachetti Sorteni di Der Zauberberg pubblicata dal Corbaccio (Levi 1975, 36): «La montagna incantata fu un viatico fondamentale per Levi negli anni dell’università, probabilmente insieme alla trilogia di Giuseppe» (Mengoni 2018, 421). Sisto potrà leggere in questo stesso numero di «tradurre», nel saggio di Aldo Agosti, che anche Emilio Castellani, a lui ben noto per le traduzioni da Brecht, attribuiva a Mann, e in particolare alla Montagna incantata, il merito di aver preservato «“una buona parte della nostra gioventù dalla morte spirituale” in cui la stava trascinando il fascismo con “la sua sistematica falsificazione dei valori e il suo aggressivo antiumanismo”». Benedetto Croce dedicò a Thomas Mann la sua opera chiave di quel periodo, La storia d’Europa nel secolo XIX (1932), aperta dalla professione di fede nella «religione della libertà» e letta subito da tutti gli intellettuali italiani, fossero consenzienti o no. Lo avrebbe mai fatto se avesse ritenuto Mann detentore di «basso capitale letterario»? Niente male come scarsa attenzione.

Tanto meno conosco la fortuna critica italiana di Erich Kästner, ma mi sorprenderei se qualche autorevole rivista italiana gli avesse dedicato un numero monografico. A lui – discreto professionista della penna, amico della stessa Mazzucchetti, che ne tradusse appunto, proprio per Bompiani, i gialli per ragazzi che ho indicato nella mia contestata recensione – deve andare tutto il nostro rispetto per la dignità con cui, da “emigrato interno”, “resistette” sotto il nazismo. Kennst du das Land wo die Kanonen blühn? (Conosci il paese dove fioriscono i cannoni?), la sua parodistica canzonatura del militarismo prussiano, è stata uno dei primi contatti che ho avuto, ragazzo, con la lingua tedesca. Che il suo nome compaia nel dimenticato dibattito sul «romanzo collettivo» provocato da Valentino Bompiani, e solo recentemente assurto alla storia letteraria grazie ad Anna Baldini, mi sembra però ben poco probante dell’«alto capitale letterario» delle sue opere, compreso Fabian. E certo tutt’altro che probante è la prefazione di Massimo Bontempelli a questo romanzo, che Sisto ammette per altro «non lusinghiera». L’Accademico d’Italia non la scrisse sponte sua, ma, prezzolato, nell’ambito di un’operazione editoriale con cui lo «scrittore» (in realtà mediocre commediografo) Valentino Bompiani ne precorse un’altra ben più nota: la famigerata seconda edizione dell’antologia Americana curata da Elio Vittorini, alla quale, bloccata la prima dalla censura come nel caso di Fabian, l’editore appiccicò un’introduzione (anch’essa ben poco lusinghiera e definita da Cesare Pavese, com’è arcinoto, «canagliesca criticamente e politicamente», termini che, ne valesse la pena, si potrebbero applicare anche all’ingloriosa impresa bontempelliana) commissionata a suon di quattrini a un altro Accademico d’Italia, Emilio Cecchi, per recuperare i soldi già investiti con la prima. Per combinazione ne ho parlato sullo stesso numero 17 di «tradurre» in cui è comparsa la recensione al libro di Sisto, e lì ho scritto anche dell’accoppiata Mazzucchetti/Mann.

La collana «Letteraria» è un po’ evanescente. Purtroppo non esiste un vero e proprio catalogo storico della Bompiani, come ce n’è per le altre principali case editrici italiane. Il Catalogo generale Bompiani, 1929-1999 mescola insieme tutti i titoli di Narrativa e, se si controlla direttamente sui volumi che vi sono elencati, spesso non esiste indicazione della collana. Se si attinge all’Opac del Sistema bibliotecario nazionale, per solito affidabile, essa non risulta molto brillante: aperta – guarda caso – proprio da Bontempelli con Vita e morte di Adria e dei suoi figli nel 1930, sui suoi scarsi 19 titoli in nove anni fino all’arrivo di Vittorini, nel 1938, come consulente principe di Bompiani, ben nove sono italiani, autori due volte Bontempelli, due volte Arnaldo Frateili, una Vincenzo Cardarelli (più noto per le sue poesie, tuttavia, che per questa prosa), e poi tali Alberto Cecchi (cognato di Frateili e precocemente scomparso), Eugenio Barisoni, Paola Masino (compagna di Bontempelli), Edwin Cerio (un ingegnere cultore delle bellezze della sua Capri, di cui fu sindaco nel 1922-23). Se si vuol considerare Fabian ad «alto capitale letterario», gli si può affiancare in quella collana solo la traduzione, compiuta da Antonio Radames Ferrarin, della ben più significativa Condition humaine di André Malraux, il quale tuttavia era certamente allora meno considerato di Thomas Mann e avrebbe dovuto aspettare, lui sì, il dopoguerra per essere considerato in Italia (ma, a ben vedere, più per i suoi meriti antifascisti che per la sua produzione letteraria). Tra gli altri autori stranieri si contano John Galsworthy, altro premio Nobel ma arcinoto già per iniziativa di Gian Dàuli e ben più robustamente presente nella stessa «Medusa», il popolarissimo Archibald Cronin, il brillante ungherese Ferenc Körmendi, allora di gran moda, e Gina Kaus, una modesta imitatrice austriaca di Vicki Baum. Complessivamente, non mi pare un gran parterre, dal punto di vista del «capitale letterario». Si confronti il catalogo della «Medusa» negli stessi anni, anzi nel solo anno iniziale, il 1933: 25 titoli, neanche un italiano tra gli autori, tra cui compaiono – oltre a Thomas Mann e allo stesso Galsworthy – Alain-Fournier, Jakob Wassermann, André Maurois, Pearl S. Buck, Paul Morand, François Mauriac, Hans Fallada, Lion Feuchtwanger, Arnold Zweig, Aldous Huxley, Hermann Hesse, Colette, Heinrich Mann, André Gide. Non c’è partita, direbbero i miei amici del Caffè Sport. Ovviamente avrebbero torto: la qualità delle opere letterarie non si misura a suon di gol; si tratta di valutazione ben più delicata: occorrerà dirglielo, più avanti.

Intanto, però, eccomi anch’io in gabbia, rinchiuso in una “scuola milanese” di cui non sospettavo l’esistenza. Se con ciò mi si mette in compagnia di studiosi di valore e amici carissimi come Gian Carlo Ferretti, di me più vecchio e sorprendentemente sempre giovane, come Alberto Cadioli, di me più giovane e sorprendentemente sempre saggio, come Enrico Decleva, mio coetaneo e condiscepolo purtroppo morto qualche mese fa, come Giuliano Vigini (che da tempo si è però volto a studi di ben più grave momento) e come Luisa Finocchi, Ada Gigli Marchetti, Lodovica Braida, Irene Piazzoni e gli altri e le altre che operano intorno alla Fondazione Mondadori e al Centro Apice, ne sono lusingato. Loro però non mi hanno mai reputato della loro compagnia. E occorrerà ricordare a Sisto che alla stessa “scuola” allora vanno assegnati almeno anche il fiorentino Gabriele Turi, la romana Albertina Vittoria, il “torinese” Nicola Tranfaglia, i “bolognesi” Gianfranco Tortorelli e Christopher Rundle, per non parlare di altri che purtroppo non sono più con noi, a cominciare dal “fiorentino” Eugenio Garin, primo in Italia a intuire che non si può fare storia della cultura prescindendo dagli editori che l’hanno veicolata, e dalla napoletana Luisa Mangoni. Si tratta in sostanza dei cultori nostrani della storia dell’editoria, ramo di studi indispensabile ai fini della nostra inchiesta. Quello che non capisco è come abbia fatto a meritarmi quell’etichetta. Solo perché ho fatto trapelare che considero Arnoldo Mondadori – camicia nera nelle occasioni ufficiali o no, libro di testo di stato o no – un grande imprenditore? Lo ribadisco: uno dei più grandi imprenditori italiani in assoluto, il più grande dell’editoria italiana, uno dei più grandi di quella mondiale. Eccolo, è lui, ben più rappresentativo di Bompiani (d’altronde suo apprendista), l’esponente principale di quella che, secondo la terminologia di Bourdieu-Sisto, si dovrebbe chiamare «avanguardia» editoriale, che ha trasformato l’editoria in industria moderna, comparsa da noi sul finire degli anni venti.

«“Medusa” non è che una versione aggiornata e più sofisticata della “Biblioteca amena”» della Treves, afferma Sisto. Mi sembra un giudizio tanto perentorio quanto azzardato. Il lancio pressoché concomitante dei «Romanzi della palma» e della «Medusa. I grandi narratori d’ogni paese»– grazie a Luigi Rusca, Enrico Piceni, Lorenzo Montano, Alberto Tedeschi, Giacomo Prampolini, Lavinia Mazzucchetti e altri valenti collaboratori di cui Mondadori seppe avvalersi, per esempio sottraendo gli ultimi due proprio a Bompiani: capitale umano che Mondadori affiancava al capitale finanziario proprio e di Senatore Borletti – , segnò la fine della «Biblioteca amena» e, ben prima del colpo di grazia delle leggi razziste, della stessa Treves (che per sopravvivere dovette allora aggrapparsi all’alleanza con Tumminelli sotto l’ombrello di Giovanni Gentile e Giovanni Treccani nella grande impresa dell’Enciclopedia italiana). La «Biblioteca amena» aveva la pretesa di essere insieme la «Medusa» e «I Romanzi della palma» e la «Biblioteca romantica» (traduzioni integrali di classici stranieri), Barion e Corbaccio, Bemporad e, sì, Frassinelli, alla rinfusa, senza tener conto delle esperienze divergenti ma entrambe decisive della Modernissima di Gian Dàuli e della Slavia di Alfredo Polledro, senza un criterio di selezione né di «capitale simbolico» né di target, senza attenzione alla qualità dei testi e delle traduzioni, come se non ci fossero esigenze nuove rispetto ai feuilleton ottocenteschi. Era la produzione di un’editoria condotta con criteri artigianali, di massa sì, ma per masse culturalmente indifferenziate, inconsapevole, premoderna, ormai asfittica, che guardava indietro. Nell’operazione complessiva di Mondadori la «Medusa» va vista – a prescindere dalla politica delle “opere complete” di D’Annunzio, Verga, Pascoli, Deledda, Pirandello, Panzini e chi più ne ha più ne metta – insieme alle altre collane, compresi i «Gialli», compreso «Topolino», ciascuna diretta a un pubblico determinato – un segmento di mercato, direbbero i competenti -, ma tutte convergenti verso la modernità a cui tutti i pubblici componenti la massa aspiravano, imparando a passare dall’una all’altra a ragion veduta, consapevoli di quel che cercavano: non era un aggiornamento, era una rivoluzione, in campo editoriale. Altrimenti come si spiegherebbe che la Mondadori è diventata un colosso e si è letteralmente mangiata pressoché tutte le altre maggiori case editrici italiane?

A fine anni venti Mondadori non arrischia nessun titolo di rottura, non scopre nessun autore nuovo: ma sa che, dopo la prima guerra mondiale, il mondo sta cambiando, che l’Italia, in ritardo, deve entrare nella modernità di massa e che esiste un pubblico di lettori, di dimensioni crescenti, che proprio questo va cercando; ma un pubblico non indifferenziato, bensì composto da settori con consapevolezze diverse e a cui della modernità interessano aspetti diversi. C’era una larga parte di pubblico dei lettori per la quale i libri non potevano più essere solo divagazione o sublimazione romantica, ma erano contatto con la realtà. E questo contatto lo si trovava nei romanzi contemporanei stranieri. Lo confermo. Non si tratta di una mia “preferenza”, come sembra apparire a Sisto, ma secondo me di un dato: non era il romanzo in sé (anche Il codice di Perelà era un romanzo, sia pure «futurista»; anche Bontempelli scriveva “romanzi”), ma il romanzo in quanto veicolo di realtà, a turbare i sonni non tanto dei fascisti – molti dei quali, soprattutto giovani, concordavano con l’aspirazione al moderno, come dimostra lo stesso dibattito sul «romanzo collettivo», di rincalzo al programma corporativista del regime – quanto di un intero establishment letterario e culturale, fascista, cattolico o idealista che fosse. Più esattamente il romanzo straniero contemporaneo, perché, a differenza di quello nostrano, parlava della realtà. E la «Medusa» pubblicava solo romanzi stranieri contemporanei.

Ma c’è il dato della tiratura e delle vendite, obietta Sisto. È indubbio: la «Medusa» aveva il brutto vizio di vendere molto, rispetto ai tempi, eppure ciò non impedì a Giuseppe Bettalli, nel 1946 su «Belfagor», di considerare «il pubblico della “Medusa” […] un pubblico piuttosto snob, in gran parte femminile, che “adorava” l’ultimo successo editoriale giunto fresco fresco da Londra o da New York», senza avere il coraggio di aggiungere, a seconda guerra mondiale appena conclusa, «o da Berlino»; né a Giaime Pintor, che di certo – come ben sa Sisto – non era invece una signorina snob, di affermare in una lettera alla madre nel 1937: «Quasi tutti i romanzi pubblicati da “Medusa” sono pregevoli» (Pintor 1978, 22). Ancora di più vendevano i «Gialli», tra i quali non mancavano dei veri e propri gioielli, o gli albi di «Topolino» (idem), o i «Romanzi della palma», dove si poté leggere Gatsby il magnifico, versione italiana di Cesare Giardini del capolavoro di Fitzgerald che furoreggiava già allora sia in America che in Francia, ma rimase misconosciuto in Italia, esso sì, fino a dopoguerra inoltrato, quando fu (ri)scoperto grazie alla versione cinematografica (e ritradotto da Fernanda Pivano, ma sempre per Mondadori). La «Letteraria», invece, a quelle tirature e a quelle vendite non arrivava, pur aspirandovi. O si crede che Bompiani facesse l’editore senza badare ai conti e pubblicasse la traduzione di Mein Kampf perché affascinato dall’immaginario e dallo stile di Adolf Hitler?

Quello che contesto è che da questa disparità di tirature e di vendite derivi meccanicamente (deterministicamente) la conseguenza che la pubblicazione di un’opera in questa o quella collana comporti una sua definizione in termini di qualità, ossia di «capitale letterario», per usare la terminologia cara a Sisto. La tetralogia di Thomas Mann, anche se i primi tre volumi compaiono in una collana per un segmento “di massa” (ma meno di massa della «Palma») e per questo vende molto, resta – come d’altronde diversi altri titoli “medusiani”, a parere di Pintor – definibile ad «alto capitale letterario». Un po’ meno si può definire invece in questo modo, nonostante la sua significatività morale, Fabian, anche se, non riuscendo a vendere molto, «Letteraria» è collocabile nel «polo di produzione ristretta». È un giudizio opinabile? Sì, lo è, ed è quello che è difficile spiegare agli amici del Caffè Sport. Si tratta della vexata quaestio, antica quanto la letteratura stessa, che rimetterebbe in discussione alla radice tutto lo schema al quale contesto l’accusa di cedere al determinismo: che cosa si intende per «alto capitale letterario»? come si misura e chi lo misura? Si rischia altrimenti di avvalorare il vecchio vizio snobistico di considerare pregiudizialmente “bello” ciò che va nelle mani di pochi, e meno bello, se non addirittura “brutto”, quanto apprezzato da molti. (In realtà, come tutti i pregiudizi, anche questo contiene un nocciolo di verità, però: prima o poi occorrerà parlarne).

Checché ne dica Sisto, mi permetto di ribadire che né Giuseppe e i suoi fratelli Fabian rientrano congruamente nello schema della figura da cui ho preso spunto per il mio rilievo e che a causa di ciò scricchiola tutto. Sisto sta facendo un lavoro ammirevole e i suoi saggi sulle traduzioni dal tedesco sono esemplari. Ma è compito del poliziotto cattivo mettere quello buono sull’avviso quando questi prende un abbaglio per eccessiva indulgenza verso il reo, che nel nostro caso è il luogo comune, di derivazione romantica e reso sempre più inattuale nel Novecento, dell’“opera” parto individuale ecc.

Va bene sostenere la bontà di una teoria e farsene bussola per una rotta di ricerca. Ma sarebbe meglio evitare di far entrare in una camicia di forza ogni fenomeno studiato solo affinché risponda ai criteri imposti dalla teoria, creando per questo schemi costrittivi e rigidi, del tutto superflui allo scopo, come ben dimostra proprio il bel libro di Sisto da cui ha preso le mosse questa nostra discussione. There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt in your philosophy: ci sono in cielo e in terra, amico Orazio, più cose di quante se ne sognano nella tua filosofia.

Riferimenti bibliografici

Accrocca 1960: Mario Luzi, in Ritratti su misura di scrittori italiani. Notizie biografiche, confessioni, bibliografie di poeti, narratori e critici, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del libro

Levi 1975: Primo Levi, Il sistema periodico, Torino, Einaudi

Mengoni 2018: Martina Mengoni, Primo levi e i tedeschi, in Lezioni Primo Levi, a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa, Milano, Mondadori

Pintor 1978: Giame Pintor, Doppio Diario, 1936-1943, a cura di Mirella Serri, Torino, Einaudi