I diritti editoriali, questi sconosciuti

L’ESPERIENZA SUL CAMPO

di Maria Giulia Castagnone

buchmesseMi è capitato spesso di notare quanto poco si sappia del settore dei diritti fuori dallo stretto ambito di chi lavora all’interno di una casa editrice. Forse perché i diritti vengono vissuti come una faccenda amministrativa, un po’ noiosa, priva di glamour, di quel fascino che di solito viene associato al mondo dei libri. Anch’io la pensavo così un bel po’ di tempo fa, quando non avevo ancora iniziato quella lunga strada che mi ha assorbito la vita, portandomi dove sono. Anche a me i diritti non sembravano interessanti, cose da legali o da contabili. Fino al giorno in cui non sono finita a lavorare all’Agenzia letteraria internazionale, allora praticamente l’unica organizzazione in Italia in cui si gestiva la proprietà letteraria di autori vivi e morti: un panorama unico, che offriva allo sguardo del neofita una visione ineguagliabile sulla letteratura del Novecento, quella che, appunto, non era di pubblico dominio, ma era regolamentata dalla legge sul diritto d’autore.

Lì mi si sono aperti gli occhi e ho capito che quello che prima mi era sembrato materia arida, ossequioso rispetto di principi legali, era in realtà sostanza duttile e multiforme, profondamente legata alla figura dell’autore, al rispetto per il suo lavoro. Chi ha operato il miracolo è stato quello che allora, sto parlando dell’inizio degli anni Ottanta, era una star del mondo editoriale, una delle menti più geniali che mi è capitato di conoscere, il grande Eric Linder, anima dell’agenzia.

Bastava starlo ad ascoltare quando, in tarda mattinata – era uno che cominciava presto e forse a quel punto era già un po’ stanco e magari anche un po’ stufo – si appoggiava allo stipite della porta e cominciava un suo monologo, prendendo spunto da qualcosa che era appena successo, che, a me che lo ascoltavo, apriva finestre su mondi sconosciuti, su quello che avveniva all’interno delle case editrici, su un particolare aspetto della personalità di un autore, sulla lotta da parte degli editori per accaparrarsi un libro, su qualcuno che ci teneva tanto a pubblicare e forse avrebbe fatto meglio a lasciar perdere.

Be’, direte voi, ma cosa c’entra questo con i diritti? C’entra eccome, perché di questo lui si occupava, e non lo faceva in modo schematico, settoriale, bensì con una visione ampia, che non si limitava al vile denaro, ma teneva conto anche di quale poteva essere l’editore migliore per un autore, quale attenzione avrebbe riservato al lancio del libro e altre considerazioni di questo tipo.

È stato allora che ho capito quanto il lavoro sui diritti sia strettamente legato all’attività editoriale; e anche come funziona la testa di un agente, che non è una cosa così scontata e mi è stata molto utile quando ho lasciato l’agenzia per addentrarmi nel mondo delle case editrici.

Ora la situazione è profondamente cambiata dai tempi in cui l’Agenzia letteraria internazionale aveva il monopolio della gestione degli autori; le agenzie hanno proliferato e sono diventate molto più numerose, alcune grandi, altre più piccole; oltre agli autori nuovi, hanno in parte ereditato l’immenso patrimonio di cui si occupava Linder. L’Agenzia letteraria esiste tuttora, ma in formato ridotto. Questo diffondersi della figura dell’agente nasce anche dal fatto che gli autori italiani, al pari dei loro colleghi inglesi o americani, sentono sempre più il bisogno di affidarsi a un mediatore, di farsi rappresentare nel loro rapporto con l’editore. In America sarebbe impensabile non avere un agente, un autore senza agente non arriva neanche all’editore, e quindi non ha nessuna speranza di venire pubblicato.

Ma forse a questo punto vale la pena di entrare un po’ di più nel cuore della questione e di affrontare a grandi linee la parte tecnica. Di che cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di un ufficio che ha due compiti principali: l’acquisizione dei testi che entreranno a far parte del programma editoriale e, nel caso in cui la casa editrice ne possegga la gestione, la vendita di un libro all’estero, perché venga tradotto nella lingua del paese dove ha sede l’editore che lo acquisisce. Mi scuserete se, avendo acquisito libri per tutta la mia vita professionale, mi dilungherò più sul primo aspetto.

Il primo passo per l’acquisizione di un libro è l’offerta. Momento karmico, emozionante, carico di suspense, soprattutto se si tratta di un libro ambito, uno di quei libri che si vorrebbe pubblicare a tutti i costi. E qui interviene il punto a cui ho accennato prima, e cioè quanto sia importante lavorare con qualcuno con cui c’è una grande intesa. A me per fortuna è capitato di lavorare con una persona del genere, una persona con cui mi sono ritrovata nelle varie case editrici dove ho svolto la mia attività, tranne in un unico, giustificatissimo caso. Perché qui scatta un meccanismo che è fatto di: “ma basteranno” (i soldi); “e non sarà il caso di prevedere un bonus” (quando l’anticipo non è un gran che); “ma dai, non importa se sono tanti (i soldi), è un libro forte, può vendere molto” (scommessa quanto mai azzardata). Da questo dibattito, che comprende anche valutazioni di altra natura, soprattutto di psicologia applicata, tipo il carattere dell’agente, la notorietà dell’autore e, nel caso di un libro straniero, l’eventuale successo nel paese di origine, nasce l’offerta.

Che, per amore di chiarezza, è articolata in un anticipo e nelle royalties. Generalmente l’anticipo si versa alla firma del contratto. Ma nel caso di somme abbastanza forti, viene scaglionato in varie rate, per esempio una alla firma e una alla pubblicazione (e qui mi fermo altrimenti il discorso rischia di diventare troppo tecnico). Le royalties, roy per gli amici, non sono altro che delle percentuali. Base di calcolo è il prezzo di copertina: è su questo che vengono conteggiate le royalties. Per esempio, se la royalty iniziale è del 10 per cento, vuol dire che l’editore dovrà sborsare il 10 per cento del prezzo di copertina di ogni libro venduto. Questo è l’essenziale; sul contratto compariranno un’infinità di altre clausole, riguardanti i diritti dei sottoprodotti del libro in questione: l’edizione tascabile, l’edizione per il Club del libro o iniziative analoghe, la versione digitale, le trasposizioni televisive e/o cinematografiche e via discorrendo.

Sembra semplice, ma non lo è. Perché, dopo l’offerta, si apre la cosiddetta “trattativa”, una specie di negoziato degno di un suk, di un bazar levantino, in cui le due parti in causa, generalmente l’editore che acquista e l’agente che vende, cercano di tirare l’acqua al loro mulino, spesso con esito modesto (per l’editore).

Ora la situazione è un po’ cambiata. La crisi, che sull’editoria ha picchiato molto duro, ha fatto sì che gli editori non fossero più disposti a sborsare dei soldi che non sempre ricuperavano con le vendite e tutti si sono fatti più avveduti.

Ma non si può parlare di diritti senza parlare di due meccanismi che, quando messi in atto, possono incidere sulla salute psicofisica di un editore (per quello che riguarda la salute dell’agente, non ne so abbastanza).

Uno è l’asta, l’altro la best offer. Di solito si adottano nei casi di libri importanti da un punto di vista commerciale, i cosiddetti best seller o aspiranti tali. Ma mentre l’asta è un procedimento chiaro, o almeno dovrebbe esserlo – chi offre di più, o completa l’offerta con un piano di lancio particolarmente allettante, vince – la best offer è subdola, infida, clamorosamente sfuggente. Immaginate questo: siete in asta, volete accaparrarvi il libro, avete già puntato al rialzo tre, quattro volte, e come voi gli altri. Insomma, nessuno è disposto a mollare, quando l’agente fa questa bella scoperta (e può farla, è assolutamente consentito). Basta asta, tagliamo corto, fatemi la vostra migliore offerta. Tragedia, disperazione, perché sì, come faccio a sapere che la mia migliore offerta sarà sufficiente? Che non ci sarà nessuno che fa una migliore offerta migliore della mia? E così, con questo giochetto, capita spesso che la cifra finale aumenti indebitamente, e che l’editore paghi un libro più di quanto realmente merita.

Come vi ho detto, però, questo capitava più spesso nei tempi di vacche grasse, quando, soprattutto in Italia, gli editori si facevano la guerra pur di portare un libro in casa editrice.

E ora voglio raccontarvi due casi di cui mi sento di parlare liberamente perché entrambi sono capitati a me. Tutti e due stanno a dimostrare che l’editoria non è una scienza esatta, che la percentuale di rischio di un acquisto è sempre molto alta, che nel mondo dei libri non c’è niente di scontato.

Il primo riguarda un successo, un grande successo di alcuni anni fa. Un libro arriva in casa editrice, un’edizione tascabile abbastanza malandata, si vede che è passata attraverso molte mani. È un romanzo ambientato negli Stati Uniti subito dopo la guerra civile, la storia di un soldato che finisce per legare con una tribù di indiani. Nello sfogliarlo cade a terra un foglietto, su cui l’agente aveva riportato i nomi di chi l’aveva già visto e rifiutato, praticamente tutta l’editoria italiana. Mi dico che è normale, che chi mai può più interessarsi a un tema del genere, e perché dovrei comprarlo io, visto che non l’ha voluto nessuno. Poi comincio a leggere, così, per curiosità, e mi accorgo che è ben scritto, appassionante e che appartiene a quella categoria di libri “che non si possono mettere giù”. E poi c’è un film, chissà.

E così faccio la mia offerta, un’offerta infima, modestissima, sicura che, visto che non ci sono altri concorrenti, sarei riuscita ugualmente a prenderlo. E così è stato. Quel libro, Dances with Wolvesdi Michael Blake (tradotto da Liliana Bollini come Balla coi lupi per la Sperling & Kupfer), è diventato un grande best seller e ha venduto un numero impressionante di copie, grazie anche al film trattone da Kevin Kostner, vincitore di sette premi Oscar e saldamente presente nella storia del cinema americano.

Il secondo, per rispettare una sorta di par condicio, riguarda invece un insuccesso. Non tanto in senso assoluto (il libro ha venduto bene), ma rispetto all’anticipo esorbitante che è stato versato per portarlo a casa. Rhett’s Butler People, di Donald McCaig(alla Piemme abbia deciso di intitolare Il mondo di Rhett la traduzione italiana di Gianna Lonza) è una sorta di Via col vento raccontata dal punto di vista di Rhett Butler, il “lui” della situazione. Be’, Via col vento, il film, aveva ancora un’audience molto alta tutte le volte che lo proiettavano in televisione e anni prima un sequel del romanzo, Rossella di Alexandra Ripley, aveva ricevuto un accoglienza molto favorevole. Ma come ho detto, un “vento” maligno ci ha portato con sé, facendoci perdere il contatto con la realtà e inducendoci a svenarci in un’asta tragica che ha compromesso i buoni risultati ottenuti dalla traduzione di Alessandra Cremonese Cambieri. Anche gli editori possono perdere la testa.

La domanda a questo punto è: ma gli editori, quando acquistano un libro, pensano a un eventuale traduttore? Per amore di verità devo dire di no; la scelta del traduttore avviene in un secondo tempo, a meno che non si tratti di un autore “di portafoglio” che ha già il suo traduttore. È solo in un secondo momento, infatti, quando il libro entra nella programmazione, che si pensa a quale sia il traduttore più adatto, in base alle sue precedenti esperienze, ai suoi gusti, alla sua preparazione.

Ci sarebbero molte altri risvolti di cui parlare, ma spero che a questo punto almeno una cosa sia chiara: anche il mondo dei diritti, così essenziale per la vita editoriale, può essere emozione e passione, come tutto quello che riguarda il libro.