di Laura Bortot
Autrice di Leta Semadeni, Tamangur, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2017 (da Tamangur, Zürich, Rotpunktverlag, 2015)
Tamangur: fin dal titolo il primo romanzo di Leta Semadeni, poetessa grigionese, proietta il traduttore in luoghi sonori e immaginifici inconsueti. Le due “a” del nome di questa selvaggia foresta di pini cembri evocano luminosità e spazi aperti che subiscono poi una progressiva riduzione, incuneandosi con rifrazioni sempre più cupe nella “u” della sillaba finale. I passi del traduttore si muovono tra questi chiari e scuri, tra i varchi inattesi e gli anfratti spigolosi della lingua di Semadeni.
Prima di questo libro ci sono solo poesie. L’autrice sceglie qui una nuova “misura”. Con i suoi brevi scorci narrativi che addensano e diluiscono eventi, sentimenti, visioni, Tamangur è di fatto prosa poetica, o poesia in prosa, scrittura asciugata, limata, ispessita, che tuttavia assume uno specifico andamento narrativo, con un suo paesaggio sintattico e lessicale. Primo passo: “ascoltare” il testo, coglierne il ritmo, il registro e lo spessore lessicale, tre punti cardinali per una possibile strategia traduttiva.
La lingua d’elezione è il tedesco, ma sotto la sua superficie scorre il romancio dei Grigioni. Traducendo era costante la sensazione di camminare su un terreno carsico, indizio di ricorrenti compresenze e intersezioni: movimenti narrativi e addensamenti lirici, sintassi tedesche regolari o rallentate e scompaginate, rime fluide e asprezze sonore. La logica concettuale, prima che grammaticale, a cui rispondono i blocchi sintattici e semantici del tedesco era ciclicamente compromessa e riproposta sotto altre spoglie.
Il registro è basso, quasi dimesso in certi punti, come nelle poesie: Semadeni racconta sé e il mondo con parole e immagini di una semplicità disarmante, le quali, tuttavia, combinandosi e accumulandosi, intessono una “trama” nitida, intensa. Si trattava di seguirne il filo, di riconoscere, smontare e ricodificare le strutture fedeli al tedesco come pure le incongruenze, di attribuire il giusto peso alle scelte lessicali e rispettare le asperità di registro. E allo stesso tempo di scovare gli scorci lirici, che meritavano scelte dense, sintassi ardite.
Altro passo: individuare un “timbro” per ogni singola voce presente, che lasciasse dietro di sé un’eco distinguibile. I protagonisti del romanzo sono tre, privi di nome: la bambina, la nonna, il nonno. Il punto di vista della bambina è dilagante nel testo; il suo sguardo sulla vita è nel contempo fresco, non contaminato, e adulto, segnato dal dolore, dal trauma; la sua voce si modula selezionando pensieri e immagini con una logica tenera, ma anche spietata. La nonna è una donna ruvida e generosa, la sua voce si alterna e si sovrappone a quella della bambina: confini e visioni si incontrano e si scontrano. Il nonno è morto ed è a Tamangur, il paradiso dei cacciatori; parla attraverso i ricordi della bambina e della nonna, ma la sua voce c’è, forte, saggia. E poi ci sono personaggi secondari, con timbri riconoscibili nella misura in cui lo è la loro infelicità: Elsa con le sue folli metafore e congetture, Kasimir con un idioma fatto più di gesti che di parole, e altri…
Infine: la natura. In Tamangur non esistono quasi descrizioni, eppure la natura reclama una propria lingua, una “traduzione” rispettosa e amorevole: il pino cembro è il nonno, le nuvole bianche sono i capelli della nonna, i grilli sono la tragedia, il verso stridente del trauma, il rospo è il ricordo dei genitori assenti, la volpe è la seconda pelle dell’autrice, la capra è l’inquietudine che serpeggia nel paese, l’acqua è il fiume della vita, la valle è l’incavo della perdita, ma anche del riscatto e della forza di solcare l’esistenza; il cielo, infine, è la libertà, la memoria, lo specchio di stati d’animo ondivaghi.