Il belletto e la cave à liqueurs

INTERVISTA A MARGHERITA BOTTO CIRCA DUMAS PADRE E STENDHAL

di Piernicola D’Ortona

Margherita Botto ha il piglio e la parlantina di una traduttrice di razza, di chi con i libri in generale e con la civiltà letteraria francese in particolare ha una lunga dimestichezza di mestiere. Ha esordito – in parallelo all’attività di ricerca e insegnamento universitario – con la traduzione di saggistica letteraria, lavorando su opere di autori fondamentali come Tzvetan Todorov, Roger Chartier, Marc Fumaroli, Lubomír Doležel (ma su questa parte della sua produzione si rimanda alla bella intervista che le hanno fatto Stefania Sini e Sara Sullam sul numero 6 di «Enthymema», 2012). Oggi è la voce italiana di alcuni tra i romanzieri più in vista del panorama contemporaneo di lingua francese: Fred Vargas, Jonathan Littell, Boualem Sansal, Emmanuel Carrère (La vita come un romanzo russo, Einaudi, 2009, da Un roman russe, Gallimard 2008).

Di recente è tornata in un certo senso al suo primo amore, al secolo cui ha dedicato gran parte dei suoi studi – l’Ottocento – lavorando a due uscite della collana «Le grandi traduzioni» di Einaudi: Il rosso e il nero da Stendhal (2013) e Il conte di Montecristo da Alexandre Dumas (2014). Stesso secolo, pochi anni di distanza, ma due scritture che più diverse non si potrebbero immaginare: tanto magmatico e travolgente il secondo, quanto secco e misurato il primo. Tanto sottile e ancora intriso di Settecento Stendhal, quanto eccessivo e flamboyant Dumas. Eppure, dietro alle mille e passa pagine che oggi ci raccontano in italiano le peripezie di Dantès e dietro i sospiri di Madame de Rênal e le ansie di Julien Sorel c’è la mano della stessa persona.

A spingermi a conversare con Margherita è stata quindi, in primo luogo, la scoperta di questa impressionante duttilità. E la curiosità di sapere come aveva modulato la propria voce e la propria lingua su due romanzi che, magari per ragioni opposte, sono nell’immaginario di tanti lettori.

Iniziamo da Dumas e da un po’ di storia. Ci racconti qualcosa delle vicende editoriali del Conte di Montecristo in Italia?

Le comte de Monte-Cristo ha avuto naturalmente parecchie traduzioni. La più longeva è quella, anonima pubblicata a Milano da Sonzogno nel 1869. Ma la più venduta e la più letta, fino alla recente riscoperta di questo romanzo da parte di vari editori italiani, a cominciare da Donzelli nel 2010 (con la traduzione di Gaia Panfili condotta sull’edizione stabilita da Claude Schopp) e poi quelle di Lanfranco Binni per Garzanti nel 2011 e di Guido Paduano per la BUR nel 2013, è quella di Salani del 1899. Anch’essa anonima, è stata attribuita in casa Mondadori per un’edizione Oscar del 1984 a un inesistente Emilio Franceschini, come ha dimostrato Carmine Donzelli presentando la versione Panfili. Per gli editori attuali, che l’hanno pubblicata «con qualche rimaneggiamento» fino a pochissimo tempo fa, aveva il pregio di essere gratuita: sia Mondadori sia Rizzoli l’hanno ripresa fino ai primi anni Duemila. Eppure, non solo è piena di imprecisioni, ma il romanzo è sfigurato da tagli pesantissimi, dovuti a una vera e propria censura ideologica: sono state espunte, per esempio, tutte le parti in cui emergono il superomismo di Montecristo e la sua vena luciferina, quel desiderio di sostituirsi a Dio che è un tratto peculiare del protagonista. È, insomma, una versione che davvero tradisce l’originale. Era quindi indispensabile offrire ai lettori il testo nella sua integrità, ma è curioso che siano uscite ben quattro nuove traduzioni nel giro di soli cinque anni.

Ci sono anche intere scene che i lettori italiani forse non avevano mai letto.

Sì, per esempio quella dell’esecuzione capitale ambientata a Roma. Si trova in una parte del romanzo che Dumas inserisce riciclando gli appunti di un viaggio in Italia (per lui era un’abitudine consolidata: pur di riempire pagine, usava tutto). In quell’episodio il conte di Montecristo mostra ai suoi ospiti la curiosità romana della «mazzolata»: il condannato a morte veniva pugnalato e il boia gli saltava sul petto per fargli uscire tutto il sangue. Nella traduzione di “Emilio Franceschini” la scena era stata espunta non solo perché raccapricciante, ma perché implicava un giudizio severo sullo Stato della Chiesa. A motivare il taglio sono bastati motivi religiosi e di bienséance. Tutto sommato, però, il danno più grosso resta il tipo di taglio di cui parlavo prima, perché il personaggio del conte di Montecristo ne esce modificato. È sempre un vendicatore, ma perde tutta l’aura byroniana dell’originale.

Ci racconti il tuo rapporto con Il conte di Montecristo?

La prima volta l’ho letto da ragazzina, forse proprio nella cosiddetta traduzione di Franceschini, chissà… Poi l’ho riletto nell’originale, divertendomi sempre tantissimo. Il conte di Montecristo era ancora considerato “paraletteratura”, non se ne parlava praticamente mai in ambito colto e figuriamoci in ambito accademico. A cambiare la situazione in Italia sono stati i saggi di Umberto Eco (Il superuomo di massa, Roma, Cooperativa scrittori, 1976; Elogio del “Montecristo”, confluito in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, 1985) che hanno dato nuova “legittimazione” al feuilleton.

Prima del Montecristo, di Dumas avevo tradotto per i Millenni Einaudi Viva Garibaldi !, che l’editore aveva programmato in vista dei centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. E mi ero già divertita enormemente: vorrei avere sempre un Dumas da tradurre. Anche le difficoltà che pone la sua scrittura sono una sfida che il traduttore affronta volentieri. L’obiettivo è ottenere una resa altrettanto accattivante anche in italiano, nonostante i mille difetti e i mille errori materiali dell’originale. Perché, in realtà, quella di Dumas è una scrittura piena di difetti, ripetizioni, ridondanze, zeppe, imprecisioni: non a caso ho consigliato per la quarta di copertina della mia traduzione questa spiritosa citazione di Eco: «Il conte di Montecristo è senz’altro uno dei romanzi più appassionanti che siano mai stati scritti e d’altra parte è uno dei romanzi più mal scritti di tutti i tempi e di tutte le letterature». Una seconda difficoltà è che richiede molta documentazione: Dumas parla di tutto, tocca tantissimi ambiti. Per esempio, nello scegliere gli strumenti della sua vendetta, il conte si guarda bene dal ricorrere al consunto arsenale del romanzo nero – pugnali e veleni – ma usa gli stratagemmi più moderni. Rovina l’arcinemico Danglars provocando, con la diffusione di false informazioni, il crollo dei titoli in cui ha investito il suo patrimonio. E lì ho avuto qualche difficoltà, perché i meccanismi dell’investimento finanziario e del credito nella Francia di Luigi Filippo evidentemente non corrispondono a quelli odierni.

Eppure leggendo il “tuo” Montecristo si ha l’illusione che siano strumenti modernissimi, uno di quei casi di aggiotaggio su cui si scrive molto nelle cronache finanziarie degli ultimi anni.

In effetti, in quel caso mi sono permessa di forzare un po’: ho scelto di tradurre «titoli di Stato» là dove in francese si parla di rente, realtà che nell’Italia pre-unitaria non trova un vero corrispettivo. Del resto, la lingua francese possiede il sostantivo rentier, «colui che vive di rendita», che in italiano si può tradurre appunto solo con una perifrasi. In quel caso, quindi, ho adottato la soluzione di spostare il fuoco verso la contemporaneità: ho deciso di usare «titoli di Stato», strumento finanziario ben noto invece agli italiani di oggi (anche se i loro rendimenti odierni non consentono certo di vivere da rentier!). Così ho anche evitato di aggiungere una nota; il senso complessivo della macchinazione del conte passa, e la forzatura è minima.

A proposito delle note, l’accordo con la redazione è stato di limitarsi a chiarire certi elementi della cronaca contemporanea di cui i lettori italiani (ma anche i francesi di oggi) non possono essere al corrente: scandali giornalistici, nomi di personaggi politici o cronisti mondani ormai sconosciuti, di danzatrici dell’Opéra allora celebri, così come i numerosi riferimenti a sarti e fabbricanti di carrozze che al lettore ottocentesco risultavano immediatamente riconoscibili. Da milionario, il conte si compra tutto ciò che di più lussuoso esiste sul mercato, oggetti fabbricati da marchi allora famosissimi.

Ecco, a proposito di ambienti e oggetti, qual è stata la scena descrittiva in cui hai incontrato le maggiori difficoltà?

C’è in particolare una lunghissima descrizione, una sorta di visita guidata in cui Albert de Morcerf mostra al conte il suo pavillon nel giardino del palazzo paterno. Si passa di piano in piano e ci si sofferma su una galleria di oggetti tra i più sofisticati, che in un paio di casi ho addirittura lasciato in francese. Per esempio, la cave à liqueurs, che – consultando cataloghi di case d’asta – ho scoperto essere una specie di tempietto di legno in cui venivano inseriti sia i flaconi di cristallo con i liquori sia i bicchierini. E in antiquariato si chiama comunemente così. Però bisogna riconoscere che Dumas non ha le stesse insidie di Balzac, romanziere che dal punto di vista delle descrizioni è un vero incubo. Più rognosa è stata invece la parte “navale”: i primi capitoli, in cui Edmond Dantès è ancora marinaio su una goletta (c’era da districarsi fra i nomi delle vele…), e poi la descrizione delle rotte. Per fortuna la rilettura della mia traduzione, in Einaudi, è stata affidata a una persona fantastica, Walter Bergero. Ricordo ancora le sue email: ma è verosimile la rotta seguita da questo a quel punto? Abbiamo controllato anche sulle carte nautiche. È molto rassicurante per un traduttore sapere che qualcuno ti rileggerà con grande competenza e precisione.

Entrando nella tua fucina di traduttrice, hai adottato un metodo particolare nella traduzione di Dumas?

Una difficoltà a monte di tutto è stata la mole del romanzo. Una fatica in parte alleggerita solo dal fatto che Dumas sa benissimo come catturare il lettore, compreso quel lettore un po’ speciale che è il traduttore. La vera impresa, per chi lo traduce, è semmai trovare il giusto equilibrio tra la salvaguardia delle caratteristiche ottocentesche e una prudente modernizzazione linguistica. E questo è l’obiettivo di tutta la nuova collana di classici einaudiana. Devo dire che l’operazione risulta più semplice con Dumas che con autori appartenenti al “canone” letterario. Perché in fondo quella di Dumas è una scrittura contemporanea, che mira soprattutto a tenere sveglio il lettore, a mandarlo avanti da una pagina all’altra, da una sezione all’altra del romanzo…

Quanto al metodo, so che fra i traduttori esistono varie scuole di pensiero. Per alcuni, finché una pagina non torna perfettamente non si passa a quella successiva. Invece io, fin da quando traducevo le versioni di greco al liceo, tendo ad arrivare in fondo. Anche a costo di lasciare alcuni segmenti in francese, evidenziando con i colori le parole, le frasi o i capoversi che non mi convincono. Durante la prima stesura sto solo attenta a non saltare niente, grosso rischio con Dumas, soprattutto nei dialoghi, che spesso sono molto ripetitivi per ragioni di enfasi retorica, e anche per “allungare il brodo”, visto che il feuilleton gli veniva retribuito un franco e mezzo a riga. Arrivare fisicamente alla fine della prima stesura è un’operazione che trovo per certi versi rassicurante, dati i tempi sempre stretti. A quel punto bisogna staccarsi dall’originale, lavorare solo sulla traduzione, secondo me la condizione indispensabile per non essere risucchiati dal testo di partenza. Sul primo “brogliaccio” in italiano si vede subito che cosa funziona e cosa meno, in un testo di cui comunque ho ben presente l’originale, anzi a volte ne conosco a memoria intere pagine. In questo senso, il fatto di aver lavorato per decenni prevalentemente sulla letteratura francese dell’Ottocento mi ha facilitata molto, non solo perché conosco bene i testi, ma padroneggio già il contesto storico, sociologico, linguistico, che non devo più costruirmi, dedicando tutto il tempo alla traduzione e non alla decodificazione dell’originale. Sembra assurdo, ma a volte tradurre un romanzo contemporaneo può essere molto più faticoso. Una certa narrativa di oggi pone problemi molto diversi: linguaggio colloquiale, gerghi che spesso in italiano tendono a farti scivolare verso i regionalismi. Invece nell’Ottocento francese mi muovo molto volentieri e più facilmente.

Sei stata la prima a cambiare nome a Faria, chiamandolo «don» e non «abate»…

Ci ho pensato a lungo, ma l’imperversare degli “abati” nelle traduzioni di testi francesi mi ha sempre irritata moltissimo. Per non parlare poi, in alcuni romanzi, di quegli abbés che non erano gli abbés settecenteschi, ma proprio i curati, i parroci. Ho consultato anche l’editore e abbiamo deciso di sfatare questo mito. Fatte le debite proporzioni, a un livello molto più banale, abbiamo voluto infrangere una tradizione inveterata, com’è stato fatto per La montagna magica. Dopodiché, immagino che tutti continueranno a chiamarlo abate Faria, ma chi ha quindici anni oggi leggerà «don Faria» e forse si abituerà alla nuova denominazione.

Passando invece al Rosso e il nero, mi domandavo se, data appunto una formazione di studiosa come la tua, non si corra il rischio di avvicinarsi al testo con una lettura già in testa, un’interpretazione che condiziona la resa traduttiva…

Non credo. Studiando questi testi, l’italiano non entra mai in gioco. Si resta nell’universo non solo culturale ma linguistico francese. Quando si tratta di tradurre, invece, si naviga in acque assolutamente incognite. Per quanto tu abbia sviscerato il testo originale, l’idea di tradurre un “classico” ti suscita sempre un terrore assoluto. Mi riferisco ovviamente a Stendhal più che a Dumas, che intimidisce molto meno il traduttore. Anche se Stendhal non è Flaubert, non è Proust, non ha la loro concezione sacra dell’écriture, e sai che non ha passato, come loro, intere giornate a riflettere sul peso di ogni virgola, di ogni parola. La scrittura di Stendhal ti costringe alla scelta di un linguaggio pragmatico e secco. Ma è certamente un’arma a doppio taglio: mantenere secchezza ed essenzialità non è sempre facile in italiano. Anche l’italiano più povero è sempre un po’ ridondante. Altrettanto difficili – le più difficili del testo – sono state le parti relative ai sentimenti, all’amore, all’introspezione psicologica. Perché lì il linguaggio stendhaliano è ancora legato al Settecento, come riconoscevano già i primi lettori del romanzo. Il problema fondamentale è che in italiano manca una tradizione accostabile, e così per salvaguardare questa caratteristica la mia scelta è stata adottare un lessico non modernizzato, non identificabile come contemporaneo. Una parola chiave come «sensibilità» l’ho mantenuta nel senso che aveva allora, di potente carica erotica. In questi casi credo sia giusto mantenere una certa distanza, far capire che certe parole sono state scritte, vissute, meditate, in un’epoca specifica, in un contesto storico ben preciso. È stata la principale difficoltà di questa traduzione, proprio a causa di “carenze” culturali, di un divario abissale tra la storia della lingua italiana e il background e le scelte linguistiche di Stendhal.

Rispetto a Dumas, per tradurre Stendhal ti sei attenuta a un metodo diverso?

Dumas trascina il lettore e trascina anche chi lo traduce: mano a mano che procedi, ti rendi conto se sta funzionando come romanzo popolare, come grande storia avventurosa. Con Stendhal il numero di stesure e riletture è stato enorme: in quel caso sì che il lavoro è andato avanti molto più lentamente. Se certo non ho adottato il sistema di arrivare a una pagina quasi definitiva prima di passare alla successiva, su ogni pagina ho comunque lavorato tantissimo, per poi rimettere mano a tutto il romanzo con sette, otto, dieci nuove stesure e altrettante riletture. L’unica parte di cui sono stata soddisfatta fin dall’inizio è non a caso quella riguardante la politica. Lì l’italiano di oggi funzionava perfettamente: ai maneggi della politica si adattava quasi naturalmente. Mentre su tutte le notti d’amore e le sequenze psicologiche sentivo il peso di questo primo Ottocento che rischiava di apparire straniante a un lettore odierno. Sono andate lisce anche le parti satiriche, gli episodi in cui Julien Sorel si ritrova nei salotti provinciali dei nouveaux riches – dove il padrone di casa vanta persino il prezzo del vino che ha messo in tavola. Le scene ambientate nei salotti raffinati della grande nobiltà, a Parigi, sono più difficili, perché un lettore odierno può capire meglio il comportamento di un nouveau riche che non quello di chi, come gli ospiti del marchese de La Mole, ha alle spalle secoli di buone maniere e di capacità di conversare.

Tornando al tema dei sentimenti, mi è risultato molto più facile tradurre la seconda parte del romanzo – in cui emerge il personaggio di Mathilde – che non la prima, incentrata sulla signora de Rênal. Perché nel presentare il rapporto d’amore fra Mathilde e Julien Stendhal ricorre al vocabolario della strategia, amorosa e militare, e della conquista sociale. Sono tutti elementi modernissimi, che funzionano anche oggi. Mentre per l’amore della signora de Rênal Stendhal usa quella lingua e quegli stilemi che gli venivano dalle teorie dei sentimenti e delle sensazioni di matrice post-illuministica, dagli idéologues.

Ci sono tante teorie sul titolo del romanzo. Una di queste si basa sulle occorrenze di rouge che, in una delle sue accezioni, in italiano diventa spesso «belletto». Pensi sia una perdita grave?

Sono state ben altre le cose che mi hanno messa in crisi. Di fronte al belletto (la famosa epigrafe sulla fanciulla che avait un teint de rose, et elle mettait du rouge,«aveva una carnagione di rosa, e si metteva il belletto») c’è da considerare, tutto sommato, che si tratta di un fil rouge molto minoritario, molto sotterraneo.

Nel complesso, comunque, io sono una traduttrice pessimista. Le poche volte che ho partecipato insieme con altri colleghi a interventi o tavole rotonde, li ho visti sempre molto più ottimisti di me sulla resa. Io ho l’impressione che tradire sia inevitabile, anzi che tradire gravemente sia inevitabile. Quanto meglio conosci il testo, tanto più ti sanguina il cuore di fronte a questa ineluttabilità. Io non credo alla traducibilità perfetta. I traduttori ottimisti traducono soprattutto letteratura contemporanea, e soprattutto dall’inglese o dall’americano. Forse può essere una spiegazione. La globalizzazione a qualcosa sarà pure servita: nel caso dei testi di oggi, il lettore è già immerso in un certo tipo di corrente. È un discorso complesso. Nel caso di testi francesi anche contemporanei, per esempio, funziona decisamente meno: basta un romanzetto banale a mandarti in crisi su come far passare una cosa che il lettore italiano – dato che ormai la Francia non fa più scuola dal punto di vista della cultura, della civiltà – difficilmente potrà cogliere.

Ritornando al rouge, mi consola in un certo senso che in italiano«belletto» sia una parola datata. Nella mia traduzione è entrata una cosa diversa: un richiamo linguistico all’Ottocento che nel testo di Stendhal non c’era.

C’è un personaggio del Rosso e il nero a cui eri o ti sei particolarmente affezionata?

Premetto che sono una rougiste sfegatata. Siamo meno numerosi degli chartreux, ma a me Le Rouge et le Noir è sempre piaciuto più della Chartreuse de Parme. E in particolare mi piace proprio che Stendhal non ti consenta di simpatizzare fino in fondo con nessuno dei personaggi. È ciò che preferisco di Stendhal, la sua capacità di prendere, e far prender, le distanze. Se il narratore interviene nel testo è quasi sempre per commentare eventi e personaggi allo scopo di calmierare gli entusiasmi, quando non di esprimere una condanna tout court. Non si lascia mai prendere la mano dalla passione, dall’amore, dall’impegno politico. C’è sempre una goccia di cinismo, di realismo cinico, che a me piace molto

E i difetti di scrittura più evidenti quali sono?

Senza dubbio le ripetizioni. Ma c’è da dire che sulle opere del canone anche gli errori fanno la nota: sono opere che vanno tenute così. Nel caso di Stendhal proprio i difetti, le asperità, sono il portato di un preciso atteggiamento verso la scrittura, di uno stile. Stendhal ripete due volte la stessa parola perché è la soluzione più efficace, la più economica e la più veloce. Quindi, in quei casi, sono per la fedeltà assoluta, sempre nei limiti in cui lo consente la lingua d’arrivo.

Parliamo brevemente delle altre traduzioni di questi due romanzi. Nel caso di Gaia Panfili, che ha tradotto Il conte di Montecristo per Donzelli nel 2010, traduzione poi ripresa da Feltrinelli nel 2012, le soluzioni linguistiche e il tenore generale dell’opera sono molto diversi da quelli che hai scelto tu…

Sì, ed è una differenza che mi ha abbastanza colpita. L’ho letta, come quelle di Binni e di Paduano, dopo aver finito la mia traduzione. La versione di Panfili è abbastanza “arcaizzante”. È una scelta certamente deliberata, che però io non avrei mai sottoscritto per un’opera come quella di Dumas. Dumas ha lo scopo di farsi leggere: probabilmente fra qualche secolo ci sarà ancora gente che legge Dumas, perché è narrativa di intrattenimento, è il feuilleton. Insomma, secondo me non lo si tradisce facendo in modo che si possa leggerlo facilmente, perché il sommo desiderio di Dumas era essere letto, e dal maggior numero possibile di lettori. Diverso è il caso, per esempio, di un’opera come Moby-Dick, uscito nel 2016 per la traduzione di Ottavio Fatica, sempre nella collana «Le grandi traduzioni» di Einaudi. La versione di Fatica richiede molto impegno al lettore, ma è una complessità che l’originale pone e propone. Poi si potrà entrare nel merito delle singole scelte, ma la strategia complessiva è giustificata.

Con le traduzioni del Rosso e il nero, invece, come ti sei regolata?

Per principio leggo sempre le versioni di altri traduttori dopo aver finito la mia. Ma in quel caso sì che ho avuto un po’ paura di leggere le traduzioni più recenti! Di vedere quali scelte avessero fatto un grande studioso come Mario Lavagetto e un grande poeta come Maurizio Cucchi. Però va anche detto che su una scrittura come quella di Stendhal il margine di manovra è minimo; è uno stile che non ti permette di muoverti tanto, di tracimare, perché ti mantiene su binari assai rigidi.

Un aneddoto buffo: all’uscita dei primi due volumi della nuova collana einaudiana – Il rosso e il nero e Delitto e castigo, tradotto da Emanuela Guercetti – una giornalista di un grosso quotidiano ha chiesto all’editore di farle avere la prima pagina del romanzo nella versione di diversi traduttori. Peccato che, come ho subito segnalato, per quanto riguarda la prima pagina del Rosso e il nero non solo non si riscontrano sostanziali differenze fra le traduzioni più recenti, dagli anni novanta in poi, ma nemmeno fra queste e la versione di Diego Valeri, che la mia andava a sostituire e che risaliva al 1946. È, di fatto, la “descrizione catastale” di un paesaggio: come sono disposte le case, come scende il fiume, come sono orientate le montagne. Sono frasi brevissime, denotative, al massimo ci si può permettere qualche variazione sinonimica. La giornalista ha protestato: «Ma sono tutte uguali!» E ha scelto di pubblicare il raffronto fra diverse traduzioni della prima pagina del romanzo di Dostoevskij. In Stendhal, sono altre le pagine in cui si notano differenze. Per esempio, nelle scene d’amore gli esiti sono piuttosto diversi. E un pochino, nei traduttori precedenti, si nota una maggiore timidezza nell’usare anche parole non dico volgari ma piuttosto esplicite, che rendano la pochezza di modi dei componenti dei salotti di Verrières. Lo stesso vale, per esempio, per le poche ma significative parole messe in bocca al padre di Julien Sorel, un cafone arricchito. Come se non si volessero usare registri più colloquiali per questi segmenti del romanzo. Stendhal, invece, scrive anche scene brutali, non usa una lingua edulcorata né si nasconde dietro a silenzi e figure retoriche.

Com’è stato passare da Stendhal a Dumas in un arco di tempo relativamente breve?

Ho consegnato Stendhal all’editore nella primavera del 2012 e Dumas nell’estate del 2013. Ma di mezzo c’è stato anche un altro testo, di tenore del tutto diverso. Nel complesso lavoro abbastanza velocemente: mi sono “fatta la mano” traducendo Les Bienveillantesdi Jonathan Littell (Le Benevole, Einaudi 2008) in soli sei mesi, ed è stata davvero una fatica, intendo una fatica fisica, soprattutto perché allora dovevo anche assolvere tutti i miei impegni di docente. Ma secondo me il mestiere di traduttore somiglia molto a quello dell’attore (più che a quello dello scrittore, al quale invece molti traduttori si richiamano). Si tratta di entrare in un ruolo, dare significato a un linguaggio, a un’epoca, a una cultura, trasmetterli il più efficacemente possibile a un pubblico. Interpretare. È il fascino più grande di questo tipo di lavoro. Ti permette di cambiare personalità, di usare parole che possiedi ma che forse non useresti mai spontaneamente. Certo, alcuni ruoli sono più facili da rivestire di altri, o più congeniali; ma spesso la distanza o l’estraneità rispetto al proprio carattere è proprio ciò che permette di ottenere buoni risultati.