di Margherita Carbonaro
autrice di Regīna Ezera, Il pozzo, Milano, Iperborea, 2019 (da Aka, inizialmente pubblicato sulla rivista «Zvaigzne» – 1971, n.11 e 1972, n. 4 – e successivamente in volume: Riga, 1972)
Quando lessi per la prima volta Aka ho provato subito il desiderio di tradurlo. Volevo trasferire dal lettone in italiano il suono di quella voce pacata, apparentemente distante eppure vicinissima non solo ai suoi personaggi ma anche agli oggetti e ai fenomeni del mondo naturale. Una difficoltà che ho dovuto affrontare durante il lavoro di traduzione è stata la presenza di tanti termini legati all’epoca e al luogo, cioè la Lettonia sovietica tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, quel mondo in cui circolano automobili Pobeda («vittoria» in russo), dove non si beve cognac ma Vinjak e le calze non sono fatte di nylon ma di dederon (da DeDeR – la Repubblica Democratica Tedesca – + on).
Una difficoltà ben maggiore è stata poi quella di rendere la voce e i suoni del romanzo: la pacatezza a cui accennavo, quella distanza e prossimità nello stesso tempo. In alcuni passaggi il tono sommesso di Ezera sembra invitare a chiudere mentalmente gli occhi, durante la lettura, e a percepire i suoni descritti e raccontati sulla pagina: «La notte aveva steso la sua coperta di tenebra sotto la quale solo i suoni vivevano ancora» (Nakts visam bija pārsegusi tumsu, zem kuras dzīvoja tikai skaņas). Nel romanzo i rumori sono sempre vigili, anche quando tutto il resto è già cieco. Anch’io, come traduttrice, tendo allora l’orecchio e consapevole dell’impossibilità di far combaciare con esattezza la vibrazione del suono lettone e di quello italiano. Leggo il dizionario monolingue alla voce, per esempio, gurkstēt. Si tratta di un suono prodotto da qualcosa di bagnato ma denso nel momento in cui tocca o si sfrega su qualcosa, o di qualcosa che tocca un oggetto compatto e bagnato. È il rumore che produce la sabbia o la neve quando viene calpestata, o che sorge quando i granelli di neve ghiacciata toccano il terreno, ma è anche il rumore che fa la seta: in lettone, un fruscio in cui sento un leggero crepitio, sento l’umidità e anche un soffio bagnato. Nel dizionario Treccani, alla voce «fruscio», il rumore della seta non è accostato a quello della neve ma a «serpi che strisciano per terra», a «foglie mosse dal vento». La seta e la neve da un lato, la seta e le serpi e il vento dall’altro. Ed ecco Ezera: «In sogno le fusa del gatto diventarono il fruscio della neve sotto gli sci, che nel sole scintillava azzurra mentre all’ombra era di un violetto vellutato» (Kaķa dzirnaviņas sapnī viņam šķita kā sniega gurkstoņa zem slēpēm. Saulē tas bija zilgani mirdzošs, ēnās samtaini violets).
Il lettone, appartenente al gruppo baltico delle lingue indoeuropee, è molto conciso: non ha articoli, fa un amplissimo uso di prefissi verbali che qualificano le azioni, presenta sette casi fra cui il locativo. Le «fusa del gatto», nel passo che ho appena citato, risuonano «in sogno». In lettone lo fanno senza il tramite di una preposizione, ma dentro la parola stessa, cioè nel «sogno» che al nominativo è sapnis e al locativo sapnī, con quella vocale lunga alla fine che pare protrarsi proprio per fare spazio al contenuto e alle ombre del sogno.
Sono tante le parole lettoni per le quali non si trova un equivalente esatto e conciso in italiano. Per tutte, una sola, particolarmente suggestiva, che nel romanzo compare dove Rūdolfs «beveva, parlava, addirittura scherzava, ma dentro di lui l’inquietudine e l’ansia covavano come un fuoco segreto [di torba, zemdegas]». In lettone zemdegas è la terra (zeme) che brucia senza fiamma, il fuoco che cova sotto la terra o la cenere, il fuoco di torba. Ma è anche ciò che brucia all’interno, sotto il terreno vigile – la coscienza – dell’essere umano.