Una valigia di coraggio

di Hilary Basso

autrice di Michelle Steinbeck, Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena, Latina, Tunué, 2019 (da Mein Vater war ein Mann an Land und im Wasser ein Wahlfisch, Basilea, Lenos Verlag, 2016)

Dovevo capirlo già dal titolo (strano, e lungo per giunta, ma geniale) che l’impresa in cui mi stavo imbarcando non mi avrebbe fatto dormire la notte. Da quando, leggendo il romanzo per la prima volta senza armarmi di bisturi del mestiere, il mio orizzonte d’attesa veniva continuamente spostato, abbattuto. Lo stile che parla da sé, le parole pregne di significato che giocano fra loro e creano immagini schiaccianti, infilate una dopo l’altra come perle di una collana dai mille riverberi colorati. Per non parlare della sovrastruttura di ripetizioni e rimandi interni: davanti a tutto questo la mente si sforza di riportare nell’alveo della normalità quanto gli occhi leggono, ma capitola. Mi pongo allora un obiettivo morale: voglio che il mio stupore sia lo stupore del mio lettore. E nemmeno una di queste sfumature deve andare perduta nella resa. Già. Peccato che in traduzione la perdita esiste.

In principio non riesco a entrare in sintonia col testo, ne ho un timore reverenziale, ho paura di osare e arranco. E se Loribeth parte per il viaggio della vita portando con sé solo una valigia contenente un bambino morto, io combatto contro il testo perché voglio prenda vita. Abbiamo qualcosa in comune, io e la mia antieroina: la fatica e la mancanza di coraggio.

Passo ore su un suono, una singola parola o frase; scavo in ognuna di loro e le interrogo. Voglio ricrearne la musicalità, il ritmo, le assonanze. E piano, piano, come Loribeth, inizio ad amare anche io la mia “creatura”. Lo stretto confronto con l’autrice districa alcuni nodi e ne crea altri. Accade per esempio con la traduzione del neutro Kind, i lettori germanofoni di Michelle hanno la libertà di vedere in quell’es un bambino o una bambina. Io mi affido all’intuito: nella mia testa quel Kind è sempre stato un bambino, biondo per di più. Saranno biondi anche gli helle Männer di Loribeth? Perché questi uomini sono hell? Sono biondi, luminosi, limpidi, illuminati, chiari? Hell in tedesco ha tutte queste possibili accezioni. Illuminano forse la via di Loribeth? Mi arrovello, controllo tutte le ripetizioni nel testo, devo cedere e fidarmi della semplicità del tedesco: «chiari», l’accostamento a «uomini» dà adito a un effetto straniante, ma consente di recuperare i potenziali significati impliciti che in tedesco restano celati senza limitare l’immaginazione del lettore. E il gioco degli incastri funziona anche questa volta.

Un altro scoglio: il potere imaginifico del tedesco dà la possibilità di creare neologismi composti del tutto sensati come Krokodilhündchen. Sensati in tedesco, forse, ma in italiano come sintetizzare l’immagine di un coccodrillo che si comporta come un cagnolino? La salvezza in questo caso arriva dal divano di casa la sera della consegna all’editore, quando ormai la mia mente impanicata non ha più conigli nel cilindro: «Ma scusa, “canedrillo” non va bene?». Mi dà il LA per giungere a «cucciodrillo» che rende meglio Hündchen, ma mi spinge anche a pensare: era tanto semplice, no? Perché, è vero, in traduzione il rispetto dell’autore e del testo di partenza è fondamentale, ma il primo a perderci è proprio il traduttore se non ha il coraggio di mettersi in gioco, se non si concede la possibilità di osare e immaginare. Forse il trucco sta nella semplice accettazione di poterlo fare.