di Ilaria Piperno
autrice di Annelise Heurtier, La ragazza con le scarpe di tela, Roma, Gallucci, 2020 (da La fille d’avril, Bruxelles, Casterman 2018)
Uno degli insegnamenti dell’etica ebraica è quello di dare il giusto peso alle esperienze della vita: né troppo, né poco, la sfida è saper dare il peso giusto. Traducendo i libri di Annelise Heurtier mi è capitato di ripensare a questo concetto. Come tradurre una lingua dal peso così specifico, calibrato, nella quale la bilancia non pende mai verso un sentimentalismo scontato né verso una semplificazione eccessiva? Ero già entrata in contatto con la lingua di questa scrittrice e ne avevo apprezzato non solo le capacità narrative, il tono empatico e caldo, ma anche la precisione nel ricostruire il contesto storico, punto di partenza dei suoi romanzi, insieme alla dedizione nel preferire tematiche di rilevanza sociale. Le qualità della scrittura di Heurtier, autrice che definirei anche per ragazzi – ammettendo che una tale distinzione abbia senso – e l’impatto civile che emerge dai suoi libri, questa era la cifra che volevo trasmettere al lettore italiano traducendo questa storia di emancipazione femminile. Ma come? Mi sono fatta coraggio e anche topo di biblioteca (reale e virtuale), dato che le ricerche sono state una parte importante del lavoro su questo libro ambientato nella provincia francese alle soglie del maggio 1968. Prima sfida: come regolarsi con la variegata mole di riferimenti alla società e cultura francese della seconda metà degli anni sessanta (cibi, giocattoli, canzoni e programmi televisivi, riviste…), così intelligentemente integrati nel testo ma di difficile comprensione oggi? Se Diabolo Menthe evoca il sapore di un momento storico, dubitavo che avesse lo stesso “effetto Madeleine” sul lettore italiano; stessa cosa, ad esempio, per i riferimenti a letture allora in voga, come Simplicie, personaggio nato dalla penna della Contessa di Ségur i cui libri per ragazzi sono molto noti in Francia ma non altrettanto in Italia, e le riviste «Salut les copains», «Vingt ans» o «Formidables». Come ricreare la medesima armonia culturale rendendola, però, accessibile? Non ho seguito una strada unica, ne ho seguite diverse, cercando di costeggiare la stessa via maestra: non rendere spoglio un contesto in originale ricco di citazioni e informazioni, aspirando a renderlo non solo dotto ma ugualmente comunicativo. Diabolo Menthe ha perso un po’ di allure diventando una semplice gazzosa alla menta, le riviste sono ovviamente rimaste tali, Simplicie è stata contestualizzata anche con l’inserimento del nome della scrittrice. Più complicata la questione quando il riferimento culturale s’intrecciava allo sviluppo narrativo: cosa fare con Le cochon qui rit? Un gioco comunissimo in Francia ma sconosciuto da noi, al quale l’autrice sceglie di affidare uno snodo importante dell’infatuazione di Catherine, la protagonista, per Daniel, il ragazzo parigino con uno sguardo tutto nuovo sul mondo, che Catherine farà suo. Il climax di una scena fondamentale nella storia tra i due è affidato proprio a questo gioco, o meglio ai suoi “pezzi” e alle sue regole, sconosciute al lettore italiano. L’intensità del primo amore non può essere scalfita da una nota a piè di pagina, la variazione del gioco con un altro non era possibile dato l’incastro narrativo… come uscirne? E qui un bagliore mi ha illuminata: dare il giusto peso alla traduzione, né troppo né poco. Creare una pagina ex novo avrebbe voluto dire darne poco ed eludere la traduzione; dipendere pedissequamente dall’originale, però, avrebbe voluto dire darne troppo. Così ho tradotto ciò che non era scritto ma che per il lettore francese esisteva eccome: le regole del gioco. «Mi concentrai sullo scopo del gioco: costruire un maialino, pezzo dopo pezzo». Voilà, il peso giusto, orientarmi e decidere autonomamente, emanciparmi dalla lingua francese per ricreare la medesima lingua in italiano, proprio per non tradire l’originale. Emanciparsi non vuole dire tradire, questo era l’insegnamento di Catherine, la ragazza con le scarpe di tela.