Il seminario di Parma

3 MAGGIO 1995. CON LA VIVA VOCE DI SERGIO ATZENI

di Sergio Atzeni

(a cura di Gigliola Sulis)

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Atzeni: Nell’anno 1991, verso la fine del 1991, dopo aver tradotto già parecchi libri per parecchi editori italiani e convinto di aver ormai un prestigio inattaccabile, ho cercato di realizzare un antico sogno, cioè tradurre un libro per l’editore Einaudi. Antico sogno perché sono cresciuto fin da ragazzo nel mito delle edizioni Einaudi e alcuni degli uomini che hanno fatto la Einaudi, come Vittorini, Pavese, Calvino, Primo Levi, erano tutti quanti scrittori e traduttori insigni, autori di alcune delle più interessanti traduzioni del dopoguerra. Avevo questa ambizione smisurata di lavorare per l’editore per il quale loro avevano lavorato.

Allora mi sono presentato alla Einaudi col mio curriculum vitae e con alcuni saggi delle traduzioni fatte. Credevo che sarei stato accolto con molta difficoltà e durezza: un editore difficilissimo, con il quale non è facile avere rapporti, un editore che ha i suoi traduttori, noti a tutti, molto bravi, e io in fondo sapevo di non essere bravissimo, se non nella mia volontà o nei miei sogni, ma poi in pratica… Inoltre fino a quel momento tutti gli editori ai quali mi ero presentato mi avevano dato delle prove da fare: mi davano la prova di un testo, se superavo la prova mi davano il testo da tradurre. Invece Einaudi mi ha accolto a braccia aperte. Per la prima volta, dopo tanti anni di vagabondaggio per il continente, mi sono sentito a casa, ho addirittura scelto Torino come sede della mia vita, mi sembrava una cosa fantastica.

Mi avevano dato un libro, senza prova. Il libro è questo: si chiama Patrick Mauriès, Les lieux parallèles [Plon, Paris 1989]. È un libro molto bello, l’autore è un giovane scrittore parigino che ha fatto un viaggio in Italia; un libro colto, di difficile comprensione, con un problema generale di resa, dato lo stile molto elevato dello scritto, e altri problemi minori, come per esempio trovare autori italiani da lui citati e del tutto ignoti in Italia, nonché antichissimi, dei quali non c’è traccia di opere se non in una, due biblioteche italiane. Quindi bisognava andare a recuperare questi autori e trovare il brano da lui citato e riproporlo nell’italiano dell’epoca – Cinquecento, Seicento – e non tradurlo dal francese. Questo era un altro dei piccoli problemi.

Faccio la traduzione, la porto all’Einaudi. Un mese dopo mi telefonano, dicono: «La traduzione è ottima». Mi danno un’altra traduzione (io ormai mi sentivo un traduttore Einaudi), l’ultimo libro di Claude Lévi-Strauss, Histoire de Lynx, Storia di Lince. Ero felice. Anche perché ai tempi dell’università uno dei pochi esami che sono riuscito a superare con trenta e lode è stato proprio l’esame di antropologia culturale, e mi ero fatto un mazzo tanto su Lévi-Strauss. Mi sembrava un segno del destino. Ho tradotto Lévi-Strauss, l’ho consegnato e un mese dopo mi telefonano e mi dicono che la traduzione di Patrick Mauriès non sarebbe mai uscita, non a causa di errori o limiti della mia traduzione, bensì perché la casa editrice aveva deciso di non pubblicare il libro. È stata una delusione mostruosa. Perché avevo lavorato tanto, soprattutto, e poi perché ancora non sapevo che molti libri vengono tradotti e mai pubblicati. I traduttori vengono pagati e poi si decide che il libro non ha mercato, che non ha possibilità di vendita e viene in qualche modo buttato via. Mi spiaceva, anche perché avevo preso contatto con l’autore durante la traduzione per chiedergli conto di alcune sue particolari espressioni e mi sentivo quasi in colpa.

Ma ciò che è stato importante di quella telefonata, per ciò che ne è venuto dopo, è che ho sentito improvvisamente un mutamento nel tono della casa editrice nei miei confronti. Fino a quel momento ero stato accolto come il figliol prodigo, colui che torna e per il quale viene ammazzato il vitello e vengono aperte le bottiglie del vino migliore. Da quel momento in poi ho sentito come se fosse cominciata una sorta di sorda competizione. Non capivo perché. Però intanto Lévi-Strauss era fatto. Lévi-Strauss è uscito e mi hanno dato una nuova traduzione. Me l’hanno data anche considerando il fatto che io telefono tutte le settimane alla casa editrice Einaudi e ricordo loro che se non traduco muoio di fame. Allora, telefona oggi, telefona domani… Però mentre all’inizio queste mie telefonate venivano accolte con gioia, a un certo punto ho sentito questo tono un po’ stufo, «ma tu cosa vuoi?…».

Be’, mi hanno dato una nuova traduzione. Il signore si chiama Gérard Genette, il libro è Fiction et diction. Questa è la copia che mi ha dato la Einaudi. Un libro di difficoltà mostruosa, perché tratta di argomenti per i quali non avevo nessuna competenza. Mentre nel caso di Lévi-Strauss avevo dato un esame all’università e l’avevo superato bene, nel caso della linguistica avevo tentato di studiare Roman Jakobson e… giuro! per trecentocinquanta pagine non avevo capito nulla. Quindi potete immaginare che cosa poteva significare tradurre un testo di un signore che nasce da una costola di quel pensiero. È stata un’impresa veramente smisurata, straordinaria. Quando ho consegnato la traduzione ho chiesto: «Avete qualche cosa da tradurre?», come sempre… Qualcuno, con aria ironica, mi ha detto: «Ma tu lo tradurresti Patrick Chamoiseau?». Io non sapevo assolutamente nulla di Patrick Chamoiseau. Non sapevo chi fosse. Ho chiesto: «Che libro è?». Mi hanno detto: «È un libro che si chiama Texaco, un bel romanzo». Io ho sentito romanzo. Avevo tradotto fino a quel momento saggi di storia, di filosofia, di antropologia, di linguistica, di sociologia, di psicanalisi, ma mai un romanzo; mi sono sentito sollevato, il cuore è balzato in petto e senza pensare, senza aver letto il libro e senza conoscere l’autore ho detto: «Sì!». E quelli si sono messi a ridere. E io non capivo perché… Il mondo. Ho detto: «Vabbe’…».

Traduco con grande impegno questo libro [Genette]. Con un impegno tale che siccome Genette porta dei brani tradotti da Marx e le traduzioni italiane di Marx mi sembrano penose, ho seguito un anno di corso di tedesco qui per poter tradurre quei brani di Marx dal tedesco in modo da mettere delle traduzioni nel libro di Genette che fossero attendibili. Questo per poche parole, badate, non è che fossero pagine. Ma io quelle poche parole volevo sapere esattamente che cosa significano. Consegno questa traduzione e dico: «Chamoiseau?».

«Mah, Chamoiseau non sappiamo se lo facciamo… vedremo», e ridevano.

Un po’ di tempo dopo Chamoiseau vince il premio Goncourt. Da quando avevo consegnato la traduzione [di Genette] al momento della vittoria del Goncourt di Chamoiseau fate conto che telefonavo due volte alla settimana per sapere: «Ma questo famoso libro di questo famoso scrittore (che ancora non conoscevo, non avevo ancora visto né il libro né lo scrittore) quando me lo date? Me lo date da tradurre?», «Vedremo, no, forse…». Vince il Goncourt, la mattina dopo io sento la notizia alla radio e alle dieci del mattino sono alla Einaudi. Ho detto: «Patrick Chamoiseau, quello che mi avete detto, quello di Texaco, ha vinto il premio Goncourt, ma allora lo traducete?». Erano un po’ a disagio. Cioè, questa idea che mi avevano in qualche modo promesso, sia pure scherzando, di darmi Patrick Chamoiseau, ho colto che li metteva un po’ a disagio.

Ma naturalmente badate che quando dico «ho colto», «ho sentito», «c’era, è nata, mi sembra che sia nata una competizione», sono tutte quante osservazioni mie, cioè sono io che sento, che provo, che capisco. È possibilissimo che tutto questo non esista. Può essere pura illusione o fantasia, come sapete bene che capita nella vita; capita a chicchessia, in qualunque momento, che si fa un’idea della realtà, poi quella idea non corrisponde affatto. C’era gente, prima della seconda guerra mondiale, che era convinta sulla base della propria sensibilità che cominciasse un lungo periodo di pace e di unità tra gli uomini. Quindi, la sensibilità umana può sbagliare e così tutte queste cose che dico in prima persona possono essere erronee, o manifestazioni di un mio atteggiamento sbagliato nei confronti della vita, o di una paranoia.

Allora, Chamoiseau ha vinto il Goncourt, loro sono nella condizione di avermelo promesso quando improvvisamente vengo convocato alla Einaudi e mi si dice che la traduzione di Fiction et diction, che loro avevano passato alla casa editrice Pratiche di Parma (che allora faceva parte del gruppo Einaudi) era stata rifiutata perché faceva schifo. Per me è stato un colpo micidiale. Prima di tutto perché l’avevo fatta con una applicazione severissima e credevo impossibile che ci fosse un errore. Non che facesse schifo, ma che ci fosse un solo errore. Avevo controllato tutte le parole una per una nel loro significato autentico, non era possibile che qualcuno mi dicesse: «Fa schifo». Dunque, prima reazione: furia. Seconda reazione: «Qui è una fregatura, perché Chamoiseau mai lo vedrò». Perché io il libro di Chamoiseau ancora non lo avevo visto. Era solo un’idea. Poi questo aveva vinto il Goncourt, quindi ancora di più.

Quando dall’Einaudi mi hanno dato la notizia vivevo qui a Parma, e dalla biblioteca Palatina mi sono tuffato alla casa editrice Pratiche, che è dall’altra parte del fiume, e ho chiesto: «Scusate, ma com’è questa storia che voi avete detto che…». Mi hanno detto: «In realtà ci sono nella traduzione una quantità di errori». Ho detto: «Non è possibile, devo vedere questi errori». Mi hanno detto: «Abbiamo rimandato la traduzione con la segnalazione degli errori della prima parte, perché non l’abbiamo rivista tutta, alla casa editrice Einaudi». Allora ho preso il treno, sono andato a Torino nell’archivio dove l’Einaudi conserva tutto quello che poi non si fa o si butta via (che in realtà non viene buttato ma viene messo in archivio in una serie di cartelle polverose). Tirano fuori questa cartella polverosa e sopra c’era scritto: «È uno schifo!». Grande grande.

È probabile che qualcuno di voi abbia il desiderio di diventare traduttore o il sogno o la velleità o la ferma volontà, addirittura la determinazione cosciente, qualcuno potrebbe anche. E credo che per questo qualcuno sia interessante sapere come funziona il mondo della traduzione. Non vi scoraggiate, è questo quello che voglio dire, perché tanto, comunque, capitano degli episodi incredibili, qualunque sia la vostra serietà, qualunque sia il modo in cui lavorate.

Prendo la cartella, torno col treno e intanto controllo gli errori, avevo il mio testo. E mi è venuto questo pensiero: la persona che ha controllato questo testo è delirante, scema e cretina, perché non è possibile. Non era possibile. Venivano segnate come errori delle cose che erano talmente chiare… Non è possibile, dicevo, chi ha corretto questo libro è pazzo o forse era ubriaco. Ottengo dalla casa editrice Pratiche un incontro con la persona che aveva corretto il libro. Ci incontriamo una mattina nella sede della casa editrice. Io ero furioso. Dicevo: «Ma scusi, qua… là…»; dall’altra parte la persona era convinta che io fossi del tutto imbecille e che avessi fatto un numero incalcolabile di errori. Su alcune cose era impossibile mettersi d’accordo. Perché io dicevo A, quella diceva B. Allora, nel farci vedere vicendevolmente il testo di Genette, mi sono accorto che la signora della casa editrice Pratiche aveva un altro testo. A me erano state date per la traduzione le bozze che l’autore ancora non aveva corretto, e che poi ha cambiato aggiungendoci circa settemila parole, e il controllo della casa editrice Pratiche era stato fatto sul testo definitivo.

Debbo dire che sul momento ho pensato che fosse un trucco, una trappola tesami dall’editore Einaudi per non darmi da tradurre Patrick Chamoiseau. Naturalmente, ripensandoci, una voce interiore mi ha detto: «Guarda che sono tutte fesserie, cosa vuoi che gliene freghi a quelli là di Chamoiseau? Non lo volevano nemmeno pubblicare». Fatto è che la signora Susanna Boschi, direttore editoriale dell’editrice Pratiche, rendendosi conto della realtà, dopo questo incontro mi ha detto: «Pubblichiamo la tua traduzione, ma dovresti tradurre le altre settemila parole. Però noi abbiamo già pagato moltissimi soldi per la tua traduzione all’Einaudi». Ho scoperto che l’Einaudi ha, come dire, lucrato o tentato di lucrare sulla mia traduzione, chiedendo qualche lira in più di quella che a me era stata pagata. La casa editrice Pratiche è molto piccola, molto povera, aveva già pagato questa traduzione a prezzi infinitamente più alti di quelli che di solito paga, per cui abbiamo fatto un accordo: io avrei tradotto le belle parole mancanti e in cambio la casa editrice mi avrebbe dato tutti i libri che pubblicava per un numero incalcolabile di anni a venire. Il che accade. Perché la signora Susanna Boschi è una signora di parola, molto simpatica e onesta, e ogni volta che vado, io prendo i nuovi libri di Pratiche. Non tutti, sceglie lei quelli più belli e me li dà. Io sono felice di questo rapporto. Dopo questa soluzione, con Pratiche che acquistava la traduzione e spariva dall’archivio Einaudi quell’orrenda cartella, non avevano più motivi per non darmi Texaco che, nel frattempo, cominciava a diventare un libro famoso, perché in Francia vendeva molte copie, e diventava sempre più difficile non tradurlo.

Sono stato convocato alla Einaudi e mi hanno detto: «Noi abbiamo piena fiducia in te, hai fatto delle belle traduzioni finora, però sono tutte traduzioni di tipo saggistico, filosofico, storico, non hai mai tradotto narrativa, e per di più non hai mai tradotto dal creolo». E io chiedo: «Scusate, che c’entra il creolo?», «Mah, sai, c’è qualche parola… Ed essendoci invece numerosi traduttori esperti dal creolo…». La cosa mi lasciava perplesso: per me creola era la parola di una canzone, Creola dalla bruna aureola, che cantava mia mamma. Ero molto sorpreso. Però, siccome sono irresponsabile, quando mi hanno detto: «Tutti voi che volete fare la traduzione di Texaco farete una prova, daremo a tutti lo stesso capitolo da tradurre e il comitato editoriale della casa editrice sceglierà il traduttore migliore», ho accettato. C’era una settimana per fare la prova. Dopo la prima lettura del capitolo mi rendo conto che ci sono almeno cinquanta parole delle quali non troverò traccia nei dizionari. Lo so. Me lo sento. Le vedo lì e capisco che è una trappola ulteriore e che non supererò mai la prova. Come fare?

Quand’ero al liceo ho avuto un professore di greco e latino che è il mio maestro di traduzioni, era un uomo spietato. Cominciava all’inizio dell’anno dandoci delle traduzioni di difficoltà mostruosa, nettamente superiore alle nostre capacità e potenzialità. Dopo di che tornava coi compiti corretti e leggeva il voto a voce alta. Era: uno meno meno meno meno. «Tu hai cinque “meno”. Al di sotto di cinque meno sotto uno non si può andare. È come se fosse zero. Però zero non mi piace scriverlo». E ci dava i compiti. Quello bravo aveva preso uno e mezzo. Era il migliore. Così per tutta la prima parte dell’anno. Poi, verso la metà dell’anno, dava traduzioni più plausibili, più accettabili, e salivamo tutti verso il quattro, quattro e mezzo. Alla fine dell’anno ci dava traduzioni più facili e diventavamo una classe di traduttori straordinari, tutti nove. Era una sua tecnica. Ci temprava con le difficoltà e io credo che soprattutto si divertisse come un pazzo, quando ci dava compiti difficili, a vedere cosa ne tiravamo fuori. E infatti leggeva, ogni volta. Diceva: «Tu, leggi il tuo. Quanto hai preso?», «Uno meno meno», «Leggi il tuo compito». E questo poveraccio doveva leggere il compito tra le risate di una classe che si sganasciava. Una volta, proprio all’inizio dell’anno, porta i compiti, con la solita scena: uno meno meno, uno meno, uno più, bravo! Così li legge tutti e poi dice: «Ad Atzeni – che sono io – ho dato cinque». Io, devo dire, se non sono morto quel giorno… Sono impallidito, ricordo perfettamente, mi è venuto un colpo al cuore, lo stomaco che mi si… non credevo affatto di aver fatto una bella traduzione. L’avevo controllata dopo, con tutti i miei compagni, era una schifezza, tutta sbagliata. L’ho guardato, avevo paura che fosse uno scherzo. E lui ha detto: «Cinque, non per il merito della traduzione, ma perché si è inventato una storia; questa è una storia del tutto inventata, ma funziona dall’inizio alla fine, ha una sua coerenza grammaticale e sintattica». L’ha letta, avevamo già visto il testo in greco sulla lavagna e la traduzione, quindi sapevamo che si trattava di guerre e non di donne che andavano al mercato con i bambini e le scimmie sulla spalla.

Allora, ricordando questi episodi di giovinezza, mi sono detto: «Anche se non capisco le parole, la prova la faccio e là dove non conosco il senso della parola me lo invento». Così ho fatto. Ho consegnato la mia prova e non avevo francamente nessuna speranza di superarla. Sono stato chiamato il mese dopo e mi è stato detto: «Hai superato la prova. Sei l’unico che è riuscito a tradurre Chamoiseau». Lì c’erano due possibilità. Una, che il Signore nella sua immensa bontà quando inventavo mi avesse fatto inventare le parole giuste. Mesi dopo ho scoperto che questo non era vero. Ciò che avevo tradotto, inventato, era plausibile dal punto di vista della lingua italiana, ma era completamente falso. Secondo me loro lo sapevano, e ho cominciato a tormentarmi con la domanda: «Avendo fatto una prova così penosa, perché mi hanno dato da tradurre il libro?». La risposta l’ho cominciata ad avere nei mesi successivi, quando ogni mese mi mandavano telegrammi a Sant’Ilario d’Enza scrivendo: «A che punto sei con la traduzione? Vorremmo avere tue notizie». E io, intanto, leggevo il libro. Rendendomi conto di quali erano i problemi ho ordinato nella Guadalupa un dizionario, che poi utilizzeremo per la correzione [Ludwig, Montbrant, Poullet, Telchid 1990 – Nota della curarice]. È un dizionario del creolo francese, molto ricco; contiene anche una grammatica e studiare una grammatica prima di fare una traduzione non è male.

Io avevo i miei quadernini nei quali segnavo le parole incomprensibili, e ho cominciato a fare delle crocette a fianco alle parole trovate nel dizionario, di cui quindi si conosce il vero significato. Mancavano però ancora una quantità di parole. Nonostante io avessi il dizionario di creolo, c’erano delle parole introvabili. Alcune parole, per esempio mornes, [incomprensibile], marron, si trovano nel Trésor, che dice: Marron: «negro fuggiasco, latitante, nelle isole ecc. ecc.»; Mornes: «alture delle isole» ecc. ecc. Ma c’erano parole misteriosissime. Intanto, andavo avanti nella traduzione, scoprivo una parte del materiale, mi rendevo conto che una parte del libro era ancora per me incomprensibile e si moltiplicavano le richieste della casa editrice Einaudi, tramite telefonate e telegrammi, di sapere che cosa stessi combinando, se la traduzione stava andando avanti. Addirittura arriva una lettera dalla Francia, dalla Gallimard, che vuole una prova per vedere se la traduzione sta andando avanti bene o se è il caso di togliermela, data la difficoltà. Io lì mi sono convinto che avessero accettato la prova sbagliata per farmi poi cadere con la faccia in terra, nel fango, diciamo così, in modo metaforico. Naturalmente è possibile che anche questo sia del tutto sbagliato, che nessuno di loro si sia accorto che c’era un errore, perché non mi sembra che sia così diffusa la conoscenza del creolo.

Io rispondevo continuamente ai telegrammi, alle telefonate e alla fine alla lettera dalla Francia, dicendo che non avrei avuto nessuna difficoltà a fare un saggio di traduzione di una parte del volume, ma prima avevo bisogno di avere degli incontri con Patrick Chamoiseau. In quel momento mi arriva da Torino un glossario di Patrick Chamoiseau fatto circolare per i traduttori del suo libro, che la Einaudi aveva da prima di darmi il libro. E non me l’aveva mai dato. Anche lì ho pensato: l’hanno fatto apposta. Poi una voce interiore mi ha detto: «No, semplicemente, come capita in tutti i luoghi dove c’è burocrazia, si mette da una parte e si dimentica». Quando mi è arrivato ho potuto togliere altre crocette. Altre parole il cui significato si chiariva. Pur avendo un dizionario di creolo e un glossario fatto di proprio pugno da Patrick Chamoiseau, restavano ancora una quantità di parole misteriose, una quantità di frasi dal senso equivoco e una quantità di punti oscuri. Allora ho cominciato a telefonare a Patrick Chamoiseau.

E ho scoperto un uomo straordinario. È probabile che sia uno degli uomini più intelligenti che ho incontrato in vita mia, come complesso di personalità, cioè unendo all’intelligenza la sapienza in quanto conoscenza in generale di tutto ciò che attiene all’uomo e al mondo, e in più un’altra sapienza specifica che è il saper vivere. Unendo queste tre qualità insieme, io non ho mai incontrato nessuno che sia grande come Patrick Chamoiseau. Per me è stato un incontro straordinario e per certi versi rivelatore, perché è stato come se avessi incontrato un maestro.

Avete probabilmente un’idea di quelle saghe orientali in cui c’è sempre un giovane allievo vagabondo che gira tutto il mondo finché non trova un maestro che gli mostra la via della conoscenza. Io credo che per me incontrare Chamoiseau abbia rappresentato qualcosa di questo genere. E credo anche che mi abbia mostrato la via della conoscenza; la quale, purtroppo, io non sono in grado di perseguire a causa dei miei limiti, ma tuttavia c’è, e lui l’ha mostrata. Ho avuto la possibilità di incontrare, di parlare con Chamoiseau e tutti i problemi che erano irrisolti, non pochi, sono stati risolti grazie alla sua gentilezza e generosità. Devo dire che, siccome io capisco male il francese parlato e lo parlo malissimo, a volte lui parlava e mi spiegava e io non capivo. Lui me lo leggeva negli occhi che non capivo, allora disegnava l’oggetto del quale parlavamo, affinché io potessi superare il limite che derivava dalla mia ignoranza del francese. Con tanti piccoli disegni mi ha spiegato una quantità di particolari che io non riuscivo a capire.

A questo punto, dopo aver letto tutto il libro, dopo averlo tradotto, dopo aver esaminato tutte le parole misteriose, ho consegnato la traduzione. L’ho finita, l’ho consegnata, è stata pubblicata, ho avuto la gioia di ricevere i complimenti di Chamoiseau e addirittura la recensione di una famosa professoressa universitaria, che si presuma conosca e sappia quel che scrive, che ha giudicato impeccabile la mia traduzione [Saracino 1994]. Mi sono sentito al settimo cielo e ho cominciato a telefonare alla Einaudi tutte le settimane: «Quando mi date un altro libro come quello di Chamoiseau?», e non è detto che me lo diano. Non credo che vogliano continuare a pubblicare Chamoiseau perché il suo mercato in Italia è molto limitato e l’editore per primo non ha speso una lira di pubblicità, mentre vengono spesi milioni e milioni per pubblicizzare libri di cui non faccio il titolo perché non vorrei sembrare impietoso.

Hanno speso per autori molto inferiori a Chamoiseau, li hanno spinti, hanno premuto presso i recensori affinché i libri fossero recensit… Sono libri magari anche “bellini”, ma c’è la differenza che passa tra una grande descrizione, un grande affresco del mondo e della storia come Texaco e i giochini di intellettuali di medio calibro italiani che devono fare vedere quanto sono intelligenti. Siamo veramente su pianeti diversi. Non hanno fatto nulla per Chamoiseau. È un augurio che non ha molto senso nell’Italia di oggi, ma io mi auguro sempre che ci siano dei lettori che scoprono autonomamente, casualmente, il libro, lo leggono, se ne innamorano e lo fanno conoscere agli amici. Mi auguro che grazie ai lettori il tentativo di affossare Chamoiseau, tradotto quasi casualmente, gli si ritorca contro, trasformandosi in un successo dello scrittore che li costringa a tradurre tutti i suoi libri, anche se non li danno a me.

Prima della seconda parte io avevo promesso alla vostra professoressa, Elena Pessini, che vi avrei detto qualcosa sulle lingue creole. Una volta che mi sono trovato col libro, di fronte a tutte queste parole misteriose e complesse, ho cominciato a chiedere a tutti i miei amici che ne sapevano qualcosa. Fra i tanti amici una professoressa della università di Warwick, Noemi Messora, mi ha spedito un piccolo saggio di Derek Bickerton sulle lingue creole. Il punto di vista di Bickerton è il creolo inglese, ma dà una serie di informazioni su come sono nate le lingue creole, da quali radici, quali sono gli innesti e che forma di sviluppo hanno, qual è la distribuzione geografica, fin dove arriva il creolo… La diffusione del creolo è larghissima, lingue creole ce ne sono tante. Il saggio mi è stato utile per capire qual era l’ambito linguistico col quale mi sarei dovuto misurare.

Questo saggio l’ho portato e ve lo regalo. Chiunque di voi abbia interesse a leggerlo, lo potrà consultare. Dice parecchie cose interessanti. Parte da Erodoto… Questo capita spesso agli studiosi. L’importante è che poi dà esempi diversi, fa capire come le lingue africane si siano inserite nelle culture europee modificandole, riporta diverse varianti di una stessa frase… È interessante meditarci, lavorarci sopra, vi fa ragionare sulle forme verbali.

La seconda parte del mio intervento è una caccia all’errore da compiersi nella mia traduzione. Io avrei bisogno di due persone di buona volontà, una delle quali tenga per qualche minuto il dizionario del creolo e a mia richiesta legga la definizione di una parola, e un’altra che tenga questo mucchietto di fogli autografi di Chamoiseau, perché ugualmente su mia richiesta legga la definizione di una parola.

Il capitolo è Le Noutéka des mornes.

[Il capitolo Le Noutéka des mornes è alle pp. 140-149 di Texaco, Gallimard, Paris 1992; quanto segue si riferisce alla prima parte del capitolo (pp. 140-143). Nella traduzione italiana, pubblicata da Einaudi nel 1994, lo stesso capitolo, dal titolo Il Noutéka delle colline, compare alle pp. 127-136].

Ci sono già due problemi nel titolo, e sono noutéka e mornes. Per quanto riguarda invece l’articolo e le preposizioni, sono francesi, ma il resto francese non è, non ha nulla a che fare. Per fortuna, di noutéka abbiamo una definizione data dallo stesso Chamoiseau qualche riga prima. Dice: Si bien que pour me divulguer cette odyssée voilée, mon Esternome utilisa souvent le terme de noutéka, noutéka, noutéka. C’était une sorte de nous magique. A son sens, il chargeait un destin d’à-plusieurs dessinant ce nous-mêmes qui le bourrelait sur ses années dernières (p. 139).

Che tradotto in italiano suona così: «Sicché per comunicarmi quell’odissea velata il mio Esternome usò spesso il termine notéka, noutéka, noutéka. Era una sorta di noi magico»(p. 127). È come se uno dicesse “noi, ma non siamo soltanto noi, siamo noi che siamo animati da una comune magia che ci muove”. In questo la parola è intraducibile, perché non è possibile, per ogni noutéka, tradurre come “noi animati da una comune magia che ci muove”: bisognava lasciare noutéka.

Il secondo problema è mornes. Nelle isole, mi è parso di capire da quel poco che ho potuto, tutto quello che si vede dal suolo è morne. Una collina di duecentocinquanta metri, una montagna di milleottocento metri, una scogliera a picco, tutto quello che va in alto è morne. Sulla base di questa definizione vaghissima, ho cercato di capire volta per volta dal resto della descrizione che cosa significasse veramente: montagna (nel caso della Pelée è una montagna) oppure collina, elevazione, altura. Nel glossario che ho messo alla fine del volume ho indicato altura, perché altura indica qualcosa del genere. In questo caso: «le colline», perché là dove loro andavano era uno strano territorio, a metà tra la scogliera e il colle, ma dove costruivano era il colle, dove c’era la terra morbida sulla quale lavorare.

Badate bene, noi stiamo andando in cerca di errori. Se qualcuno di voi ha letto il testo e la traduzione e ha trovato errori, o in questo momento non è d’accordo su qualcosa che dico, lo dica, perché altrimenti una ricerca di errori non ha alcun senso.

Così, Le Noutéka des mornes comincia con una parola, noutéka e qui c’era poco da tradurre. Nous avions l’impression d’avancer contre les vents. Ce dernier gardiennait son domaine (p. 140). Già questo ce dernier se ci badate è strano, è strano sintatticamente, perché la frase precedente dice nous avions l’impression d’avancer contre les vents. Les vents. Ce dernier gardiennait son domain. Però, con una traduzione quasi letterale, qualunque cosa sia, diventa: «Avevamo l’impressione di avanzare contro i venti. Questo sorvegliava il suo dominio». Il resto della frase spiega chi è questo.

A chaque débouche au-dessus d’une ravine, il nous cueillait avant le paysage. Plus pur. Plus sauvage. Sans pièce odeur que celle des cannes à eau. Mais surtout bien plus froid….

Le anomalie sintattiche derivano dal fatto che l’uomo che sta parlando, il padre di Marie-Sophie Laborieux, è un uomo che ha una grande conoscenza della lingua francese, ma la manipola a modo suo, mescolandola a termini che non sono francesi. Io ho cercato di rispettare nella traduzione anche le anomali sintattiche, non ho cercato affatto di correggere e di rendere l’italiano più inoffensivo. Ho lasciate intatte le difficoltà.

Ora vi pregherei di guardare, sempre in questo paragrafo, la penultima frase: «Sans pièce odeur que celle des cannes à eau». Io ho tradotto: «Senza altro odore oltre quello delle canne d’acqua» (p. 127). Vi risulta, secondo la vostra esperienza, di avere mai incontrato un simile uso del termine pièce? L’avete mai incontrato in qualche testo, il termine pièce della lingua francese, usato nell’accezione in cui ho tradotto: sans pièce odeur, «senza altro odore»? Per me è stato un problema, perché ho controllato la parola pièce in tutti i dizionari della lingua francese, compreso il Grand Robert, compreso Le Trésor, quello grande in tanti volumi; ho telefonato anche a Parigi, ad amici francesi, e nessuno conosceva l’uso della parola pièce in questa accezione. La persona che ha il dizionario di creolo potrebbe cercare la parola pyès, che si legge esattamente come pièce.

Prima studentessa : Pyés: champ, plantation. Ci sono due parole, con accento diverso. Anzi, ce ne sono molte.Pyès: enorme, fort, immense. E poi, sotto: Aucun. Pièce d’habitation. Pièce de monnaie. Une pièce (mécanique).

Atzeni: Avete scritto la prima e la seconda definizione? Leggi la prima e la seconda definizione.

Prima studentessa: Enorme, fort, immense. La seconda: Aucun.

Loro usano il termine pyès – se lei vi leggesse tutte le definizioni sarebbe una bella lista – in una quantità di frasi, con una quantità di significati. In questo caso è come se fosse aucun. E abbiamo un termine creolo. Pensate però al lettore francese: non ha alcuna competenza di creolo, si trova di fronte a una parola che è scritta in francese preciso ma che non ha il significato che ha di solito. Come fa a sapere che non ha il significato che ha in francese? Ulteriore domanda: perché Chamoiseau fa questo scherzo ai lettori francesi? Io non lo so, gliel’ho chiesto in forma scritta e mi auguro che mi risponda.

Leggiamo il paragrafo successivo: Silence. Aucun oiseau ombré sous la broussaille ou battant l’aile sous l’alizé léger, n’osait mener désordre. (illisible)». Anche qui, vi rendete conto, c’è un insieme di stranezze sintattiche, ma nessuna difficoltà vera di comprensione del significato, né parole mascherate. Il successivo:

<blockquote>Nous allions. Les mornes n’étaient pas si vides que ça. Partout, de ci, de là, mais de plus en plus rares à mesure des montées, l’antique vie surgissait. Ruines d’anciennes Grand-cases. Solages de chapelles. Canaux de pierres mortes. Os d’une roue au-dessus d’une rivière. Pieds-cacos momifiés sur l’ombre d’une plantation. Et-caetera de pieds-café, de pieds-tabac… ici, plus d’un colon avait perdu sa part: c’était lisible.</blockquote>

Qui ci sono una quantità di problemi. E adesso avrò la gioia di potervi mostrare un errore di questo malefico traduttore che chiaramente ha lavorato non così… Per quanto riguarda solages de chapelles, a vederlo oggi mi sembra chiarissimo, mentre traducevo il libro non mi sembrava affatto così chiaro, al punto che l’ho chiesto anche a Chamoiseau due o tre volte per telefono. Chissà perché, avevo paura che ci fosse dentro una strana trappola, una frase che sembrava facilissima e invece nascondeva un significato completamente diverso.

[Interruzione del nastro: si perde qualche minuto di parlato] perché non ha significato. Mi è sembrato di capire, dopo lunghe conversazioni con Patrick Chamoiseau, per quel poco che capisco di francese, che questa frase [c’est ça l’histoire du père Grègoire] sia come una litania, un verso di un ritornello, un elemento puramente ritmico e decorativo dentro la prosa, e tipico del parlare dei vecchi, i quali spesso mescolano alle parole che hanno un senso, delle parole che magari hanno rimandi di tipo proverbiale, ma non perfettamente adeguate a ciò che si sta raccontando, generiche, molto lontane dal significato vero e proprio. E quando Chamoiseau mi ha detto questo, io l’ho tradotto liberamente. Tutta la traduzione di c’est ça l’histoire du père Grégoire(p. 141) diventa «questa è la storia di suora Memoria» (p. 128). Perché, mentre in francese histoire fa rima con Grégoire, in italiano storia non fa rima con Gregorio, e bisognava trovare una parola che rispettasse anche il senso ritmico. Se Chamoiseau ha messo questa frase per dare un senso ritmico e ha usato a bella posta la rima, io non posso non mettere la rima nello stesso punto e nello stesso modo, o altrimenti elimino la frase. Per cui la traduzione è diventata: «questa è la storia di suora Memoria». Quando l’ha letta Chamoiseau ha riso molto, non so perché.

Il paragrafo che segue: Ces vieux-blancs nous faisaient accélérer le pas. Leur présence disait que nous n’étions pas assez loin. Ni surtout assez haut (p. 141). Qui c’è una parola, ces vieux-blancs. Questi vecchi bianchi? Nella traduzione è «Questi bianchi disgraziati ci facevano accelerare il passo» (p. 128). Ora, come è possibile che da vecchio, vieux-blancs, il traduttore sia arrivato a disgraziati, «questi bianchi disgraziati»? Io pregherei la seconda delle mie collaboratrici di leggere la definizione che ci dà Patrick Chamoiseau per l’uso creolo della parola vieux.

Seconda studentessa : Vieux: Idée de laideur, disgrâce.

Atzeni: Vieux: Idée de laideur, disgrâce. Questo è l’uso creolo della parola vieux. E questo è il motivo per cui vieux-blancs secondo il traduttore diventa «bianchi disgraziati».

Noutéka…// Nous rencontrâmes des négresses à békés. Tôt, elles avaient reçu un flanc de mornes, une crête de terre. Et elles vivaient là-dessus avec leur tralée de mulâtres, leur rafale de chabins, hors du monde, hors du temps. Penchées sur la terre comme au-dessus de leur propre destin qu’elles tentaient de déchiffrer dans les racines crochues qui leur donnaient manger (p.141).

Qui, la frase è complessa nella struttura, nell’andamento, nel modo di presentarsi, ma non comporta grandi difficoltà linguistiche, eccetto una parola, tralée. Se cercate questa parola nei dizionari francesi, probabilmente non la trovate. Vorrei che Antonella, che ha il dizionario [creolo], ci leggesse la definizione di tralé.

Prima studentessa: Tralé. Ce ne sono due: beaucoup, un grand nombre. Oppure: trainé(e).

Atzeni: Il primo. Io ho tradotto, mi pare, con «sfilze di mulatti» (p. 128). Beaucoup, grand nombre, «sfilze di mulatti». Avevano una infinità di bambini che gli circolavano attorno. Tralé è una parola tipica del creolo e non esiste in francese. Qui non si tratta di una parola che è fintamente francese, ma nel proprio creola, bensì di una parola che è apertamente creola. Mentre nel caso di una parola che sembra francese ma è creola il lettore francese viene tratto in inganno e deve lavorare per comprendere che senso ha quella frase strana, nella quale apparentemente la parola non ha senso, nel caso di parola palesemente creola, e non presente nei dizionari francesi, il lettore semplicemente non capisce. Non ha alcuna possibilità di capire. È bene che lo sappiate.

Leggere un libro di Chamoiseau per il lettore francese è come saltellare sui carboni ardenti, se veramente vuole capire, perché il libro presenta per lui una serie di trappole. Io credo che Chamoiseau abbia delle motivazioni, perché non è uomo che agisce in maniera sconsiderata. Di mestiere è giudice del tribunale dei minori, ha nella sua isola il compito specifico di orientare i percorsi di recupero dei giovani deviati, è un uomo di grande esperienza e saggezza, l’ho detto in origine. Allora, quando un uomo del genere fa un’operazione del genere ha dei motivi, e mi piacerebbe se me li dicesse.

Andiamo avanti.

En passant nous leur criions que Liberté était venue. Leurs fils, des êtres à cheveux jaunes dérangés par le vent, gardaient la bouche fermée et n’y comprenaient hak. Seule la vieille maman troublait sa solitude d’un débat de paupières. L’antique, réveillée d’une mort séculaire, nous adressait trois petits signes de main. Mais signes de quoi au plus exact? Signes sans bonjour et sans adieu (p.141).

Qui ci sono alcuni problemi. Il primo problema è la parola hak. Io l’ho cercata diventando pazzo, comunque si trova solo nei fogli di Chamoiseau, non si trova neppure nei dizionari. È in uso soltanto a Fort-de-France, non fa parte del creolo, come dire, riconosciuto, istituzionalizzato, è quasi un creolo dialettale, nuovo ed emergente.

Prima studentessa: Significa rien.

Altra studentessa: Come ha tradotto, scusi?

Atzeni: «Passando gli gridavano che Libertà era arrivata. I loro figli, esseri dai capelli gialli scarmigliati dal vento, tenevano la bocca chiusa e non ne capivano nulla» (p. 128).

Altro studente: Si potrebbe dire: «non ne capivano un’acca»?

Atzeni: Mah, forse sì, forse sì. Avrebbe dato un che di popolaresco che però in questo caso non sarebbe andato male. Mi sembra che il vostro collega, sulla base di una comunanza di suoni, abbia trovato un’ipotesi buona. Bravo. Andiamo avanti. Oh, prendetelo a esempio, dimostrate la vostra intelligenza traduttrice.

D’autres fois, la négresse à béké s’enfuyait, refusant de nous voir exister, refusant d’exister autrement qu’au fil à plomb de son désir: mère de mulâtres qui se mariant entre eux finiraient bien par devenir tout blancs et posséder la vie… (p. 141). Questa è bellissima. Per dire l’anima delle vecchie negre da béké. Negre da béké vuol dire che queste signore erano probabilmente particolarmente belle. Il béké, l’uomo bianco, il padrone della casa grande, il padrone della terra, le aveva scelte come compagne di alcova. A quel tempo non esistevano i preservativi e questa compagna di alcova si trasformava in figli, che poi abbiamo visto erano tralé, cioè in grandi numeri, sfilze di bambini. E queste donne, vedendo i loro figli che erano di pelle un po’ più bianca della loro, immaginavano che se i figli si fossero accoppiati tra loro, i nipoti sarebbero stati ancora più bianchi, finché, alla fine del ciclo, sarebbero diventati bianchissimi. Allora, per fare imbiancare la propria prole, queste donne si ritiravano nelle colline, in qualche pezzo di morne donato dal béké, il quale, dopo aver usufruito di una donna per dieci anni, ne prendeva un’altra giovane. E la donna se ne andava coi suoi figli in un luogo dove sperava che lentamente, di generazione in generazione, i discendenti diventassero bianchi. E che significa essere bianco? Possedere la vita. È molto bella la riflessione di questa donna, anche se del tutto delirante, perché ci dice molto sulla loro condizione di vita autentica. Qui non ci sono parole particolarmente trabocchetto.

Nous rencontrâmes des nègres marrons. Leurs ajoupas se mêlaient aux fougères (p. 141). Una parola su ajoupa, che ho riportato nel glossario alla fine del volume, perché torna spesso: indica un tipo di costruzione specifica di quella zona, ed era del tutto inutile tentare di tradurlo con capanna, baracca, le quali non rendono che cosa è una ajoupa. Invece, la ajoupa è il modo di costruzione autonoma che per molto tempo hanno usato questi uomini, queste donne, e allora ho preferito riportare la parola anche in italiano.

Ceux-là étaient sombres, absents du monde aussi, différents. Ils étaient, le temps passant, demeurés en esprit dans le pays d’avant. Les voir surgir était une étrangeté. Ils charriaient des pagnes, des lances, des arcs. Ils exhibaient des espèces de bracelets sculptés dans le bambou, des plumes de malfinis, des anneaux à l’oreille, des doigts de cendres sur le visage. Ils surgissaient non pas pour le bonjou, mais pour nous signaler que tel lieu était pris, qu’il fallait battre plus loin (pp.141-142).

Nell’ultimo bonjou non è un errore, che manchi la erre. È proprio il modo come loro lo dicono, laerre è stata abolita e la parola è diventata bonjou, e lì si chiude. Risalendo nel capoverso trovate un termine, malfinis, che non esiste in francese. Chiederei di cercare malfini nel dizionario di creolo.

Prima studentessa: Malfini, mansfenil: aigle des Antilles.

Atzeni: Aquila delle Antille. E ora sentite invece come Chamoiseau chiede ai traduttori di tradurre questa parola. O come concede ai traduttori di poter tradurre questa parola.

Seconda studentessa: Oiseau rapace.

Atzeni: Mentre il dizionario di creolo specifica anche il nome latino dell’aquila delle Antille, che loro chiamano malfini, Chamoiseau, rivolgendosi ai traduttori di tutto il pianeta, si accontenta che capiscano che è un uccello rapace. Concede questo. Il lettore francese non sa che cosa sia il malfini, mentre i lettori degli altri paesi possono sapere che è un uccello rapace. Ci vuole molta curiosità per arrivare a capire esattamente di quale specie si tratti. Ed è l’aquila delle Antille. Risalendo, sempre in questo paragrafo, troviamo un verbo che esiste in francese, ils charriaient. E io credo che siamo di nuovo in un caso come quello di pièce: un verbo francese che ha un suo significato in francese e ha un uso creolo.

Prima studentessa: Chayé: porter, emporter, charrier. Oppure: enlever une femme avec son consentement. Mettre sur la tête. Oppure: démenagér.

Atzeni: Tutti significati di verbi di spostamento nei quali ci sia un qualcuno che porta, sposta o ha con sé qualche cosa. La parola chayé non significa caricare o portare con i carri, in creolo, ma significa qualunque forma del portare da una parte all’altra.

Altro studente: Come to carry in inglese, che si usa per “portare con sé”?

Atzeni: Non conoscendo l’inglese non posso vedere il paragone, ma loro lo usano per tutti i significati di “avere con sé qualche cosa e portarselo dietro”, e a questo significato mi sono riferito nella traduzione. Nel paragrafo successivo c’è un’intera frase in creolo:

A eux aussi nous disions: Liberté là, Liberté là. Ils nous regardaient sans pièce curiosité et disparaissaient flap. C’était nous dire: Cette liberté est une bien vieille affaire. Chez ces rebelles des premiers temps, il n’y avait pour nous, pas le moindre sentiment. Pas une lueur amicale. Pas de quoi espérer autre chose qu’un mépris. Alors plus d’un d’entre nous s’écriaient en pleine rage: Yo pa ba nou’y fout’! Sé nou ki pran’y. Ils ne nous l’ont pas donnée, nous l’avons prise… Merci-Bondié: nous possédions cette histoire-là… (p. 142).

La traduzione della frase di creolo la trovate nella frase successiva. E’ uno di quei casi fortunati in cui Chamoiseau, pensando che il lettore francese non avrebbe capito un accidenti, ha pensato di tradurre la frase anche in francese. Allora, Yo pa ba nou’y fout’! = Ils ne nous l’ont pas donnée. Sé nou ki pran’y = nous l’avons prise. È la traduzione parola per parola, c’è prima la frase in creolo, poi sotto la traduzione parola per parola in francese. Ma questo capoverso presenta alcune curiosità. Intanto, abbiamo ritrovato l’uso di pièce nel senso di aucun. E poi c’è la parola, flap, che è molto divertente. Non esiste in francese: non è quel creolo nascosto dentro il francese, è esplicito.

Prima studentessa: Flap o fap: onomatopée pour traduire la rapidité d’un geste. I lévé flap: Il s’est levé d’un coup.

Atzeni : Significa: «di colpo, d’improvviso, in un batter di ciglia, in un batter d’ali»; tutte le espressioni che potete immaginare di velocità assoluta che ci dà la nostra lingua rientrano in questa espressione, flap. C’è poi cette liberté est une bien vieille affaire. Voi ricordate, prima, quando abbiamo letto la parola vieux-blancs. Questo è uno di quei casi in cui il traduttore ha avuto dei problemi, perché vieux in creolo ha vari significati. Spesso Chamoiseau usa il termine vieux con il significato di poveraccio, disgraziato, mendicante, uomo da nulla. Però non sempre. Talvolta la parola vieux è presente nel testo nel significato francese.

Il traduttore ogni volta deve capire se la parola è presente nel significato francese o nel significato creolo e per capire questo ha due soli strumenti: o il contesto o la parola di Patrick Chamoiseau. In questo caso il contesto ci aiuta molto, perché gli uomini di cui si parla, con i quali loro parlano, ai quali ricordano la libertà di qua, la libertà di là, sono uomini che la libertà ce l’hanno già. È per quello che per loro è vieille, cioè è una vecchia faccenda. Perché sono andati via trenta, vent’anni prima, hanno ammazzato il béké, sono fuggiti in montagna, girano con il fucile, vivono di bestie selvatiche e ogni tanto derubano il béké. Se avete letto il libro, a un certo punto lo stesso béké di Esternome verrà ferito mortalmente in un agguato da parte di alcuni negri marroni, cioè che se ne sono andati via, che sono liberi. Per loro la libertà è un vecchio affare. Non è un cattivo affare, un affare disgraziato, come se la parola avesse il suo significato creolo, ma è una vecchia storia. In questo caso il termine vieux ha il suo significato francese. Ancora: Nous croisâmes ces jardins de mulâtres. Ils en cultivaient dans les hauts par l’entremise d’esclaves gardiens. Ces derniers ne se savaient pas encore libres. Ils allaient sur la terre de leurs maîtres comme chiens à corde courte (p.142).

Questo chiens à corde courte è molto bello, si capisce il senso istintivamente, come in moltissime delle immagini di Chamoiseau. Qui c’è l’altro aspetto: è vero che per certi versi Chamoiseau un po’ nasconde il testo in francese, però è anche vero che per altri versi rivela e dà delle immagini che possono arricchire anche il modo di ragionare, di pensare. Jamais ils ne voulaient nous suivre, comme pris dans l’habitude d’être mort avant leur enterrement (p.142). Qui è tutto comprensibile ed è molto bello in sé, sono frasi bellissime. Anche l’abitudine di essere morti prima della sepoltura ha un senso abbastanza forte, ma non difficoltà di comprensione. Qualche difficoltà invece c’è nel capoverso successivo.

Quand le jour couchant colorait des menaces, et le jour levant, son gloria vaillant, là-haut, c’était bon de se taire. La nuit portait rumeur (cabribwa, grounouye, kriket) – sono tre parole che non esistono in francese – affaiblie vers quatre heures du matin. Puis les faljaunes – altra parola che non esiste in francese – sonnaient du bec jusqu’au silence d’église saucé dans les heures chaudes (pp. 142-143).

Qui c’è un saucé che è comprensibile, ma è un uso veramente strano e particolare della parola. Non ho tradotto «fino al silenzio di chiesa insalsato (o salsato) nelle ore calde», l’ho tradotto con «intinto» (p.130). Non mi piaceva riportare anche l’area semantica, in questo caso, perché in italiano sarebbe suonata, a mio parere, malissimo. È una scelta arbitraria. Ho trovato una parola che avesse lo stesso senso, ma che in italiano non suonasse così astrusa. Le altre parole, cabribwa

Prima studentessa: È scritto Kabrit-bwa.

Atzeni: Questa è la parola creola che qui è scritta cabribwa.

Prima studentessa: Dice: cricri, grillon.

Atzeni: Avete capito tutti, cricri, grounouye… se pensate alla pronuncia ci arrivate da soli, perché grounouye è come dire grenouille, è appena modificato, ma ha lo stesso gioco di suoni. L’ultima kriket

Prima studentessa : Criquet, grillon.

È una bestiolina. Ho chiesto poi a Patrick Chamoiseu cosa fosse questo faljaune. Avevo capito che era un uccellino e sapevo che fal in creolo vuol dire petto. Come diciamo pettirosso, per loro è falrouge. Volevo capire che cosa fosse questo faljaune e lui mi ha spiegato che è un uccellino di proporzioni minuscole, piccolo piccolo piccolo piccolo, col petto giallissimo squillante, che si vede da lontano sugli alberi, anche se è piccolissimo, perché ha un colore brillantissimo. Io ho tradotto con «colibrì dal petto giallo» o qualcosa del genere, perché non conosco altri uccelli così piccoli come lui li descrive, a parte il colibrì. Ma potrebbe essere anche un errore.

Questo è uno di quei punti dove non so la specie specifica, della bestia, perché non sono potuto andare in Martinica a vedere sulle colline, con un manuale di ornitologia, come sarebbe stato necessario. Ma credo che «colibrì dal petto giallo», nonostante l’imprecisione, possa andar bene. E questi colibrì cantavano fino al silenzio di chiesa intinto nelle ore calde. Questa è la traduzione, forse contestabile.

Noutéka…// Nous trouvâmes des nègres affranchis: ils n’avaient pas rejoint les bourgs proches au l’En-ville (p. 143). L’En-ville è uno dei problemi della traduzione. En-ville vuol dire “in città”. Però vuol dire anche “città”. L’en-ville è quella che noi diciamo la città. Ma loro usano sempre en, è difficilissimo che usino l’espressione la ville, usano sempre l’en-ville. Io ho tradotto letteralmente «Incittà», anche se ho ricevuto diversi consigli, mentre lavoravo, di persone che mi dicevano: «Ma guarda che in italiano dire l’Incittà è brutto». Però non c’era modo, o non vedevo modo, di rendere questo moto a luogo (perché per loro ogni volta che parlano della città è un moto a luogo, un andare verso) con una parola italiana che avesse qualche cosa a che fare con la città. E l’ho tradotto letteralmente.

Ceux-là nous accueillaient, nous désignaient les places. Parmi eux, parfois, des blancs naufragés qui parlaient une langue polonaise ou autre verbe sans manman (p. 143). Questo sans manman è un’espressione che viene dalla parlata creola e significa ogni genere di cosa non buona, disgraziata, come tutto quello che è senza mamma.

Nous trouvâmes des mulâtres de goyave, d’obscurs békés venus au bord du ciel pour accorder le monde avec leur fol amour d’une troublante négresse (p. 143). Mulâtres de goyave è stata una delle espressioni che fino alla fine sono rimaste incomprensibili, perché letteralmente vuol dire «mulatto di guayava». Ma che cosa significa, che cosa può significare per un lettore italiano una parola come «mulatto di guayava»? Mi dicevo: mettiamo anche che faccia una traduzione letterale della frase, cioè che non la modifichi, che traduca «mulatti di guayava», che cosa può capire un italiano dal termine «mulatti di guayava»? È una cosa senza nessun senso, neanche immaginario. Non c’è l’espressione nei dizionari di creolo e non c’è neanche nei fogli di Chamoiseau, per cui gliel’ho chiesta. Fa parte del famoso quaderno che poi lui ha disegnato per farmi capire. I «mulatti di guayava» sono quelli poveri in canna. È un’espressione dei quartieri popolari di Fort-de-France. Vuol dire che non hanno nessuna ricchezza, che non hanno niente, sono dei guayava, cioè sono proprio zero, zero, zero. Perché ci sono invece dei mulatti che si sono arricchiti e che formano, come spiega lui stesso, se avete letto il romanzo, una sorta di borghesia urbana, delle professioni, si arricchiscono anche abbastanza, si danno ai mercati. Mentre c’è un’altra specie di mulatti che, pur essendo mulatti, non sono più ricchi dei neri. Sono rimasti come i neri e sono i «mulatti di guayava», i mulatti poveri.

In questo paragrafo troviamo ancora: Dans la tourmente de cette terre nuageuse, tous avaient déployé les Traces. Ils avaient creusé d’étroits sentiers de crêtes, dessiné du talon au gré de leur errance, la géographie d’un autre pays. Nos quartiers allaient nicher-pile aux en-croissées de ces Traces premières (p. 143).

Questo nicher-pile non è facile, perché ci sono diverse possibilità. Tutte in creolo.

Prima studentessa: Pil: tas, pile, oppure lampe de poche. Invece Pilé: marcher sur, écraser. Piler, écraser au pilon. Féconder.

È un’espressione che si prestava a una quantità di significati e anche al loro contrario. Pil vuol dire in creolo anche mucchi, tas, cioè molta roba accumulata; pilé vuol dire anche fecondare, niché vuol dire fare il nido. Io ho messo «annidarsi», unendo nell’annidarsi l’idea del fare il nido vero e proprio, ma anche l’idea dello stabilirsi, dell’entrare, del fermarsi, perché annidarsi è qualcosa di più per noi che non fare il nido. Anche se credo che manchi una sfumatura che c’è nel significato del testo, quella della fecondità, perché in realtà è un annidarsi fecondo. Non ho tradotto così perché mi veniva molto male, avrei dovuto tradurlo con un avverbio tipo “fecondamente”, “annidarsi fecondamente agli incroci di quelle prime tracce”. Mi sembrava che «annidarsi» bastasse.

Questa è una delle situazioni per le quali nella prefazione dico: «Ci sono casi in cui la traduzione perde una quota, un’ombra, una percentuale del significato creolo». A volte è molto difficile: per salvare interamente il significato creolo devi magari distruggere la frase e spaccare la musicalità del testo, adattarlo, rovinarlo con avverbi, ristrutturando la frase in una maniera macchinosa e troppo laboriosa che per il testo non va bene.

Altro studente: Come ha tradotto la frase?

Atzeni: «Trovammo dei negri affrancati. Non avevano raggiunto i borghi vicini o l’Incittà. Loro ci accoglievano. Ci indicavano i luoghi. C’erano talvolta tra loro dei bianchi naufragati che parlavano una lingua polacca o qualche altra parlata infernale» – sans manman: tutto quello che è sans manman è brutto e cattivo, in questo caso infernale – «Trovammo dei mulatti poveri, di oscuri béké giunti ai confini col cielo per accordare il mondo al loro amore folle per una negra conturbante» (p. 130). Avevano cioè abbandonato la loro ricchezza, le terre, ed erano fuggiti in montagna con una negra bellissima, non pensando più a niente altro che a quella negra. Da quelle coppie nascono questi mulatti che loro incontrano salendo. «Nella tormenta di quella terra nuvolosa tutti avevano lasciato le tracce». Questo è tradotto letteralmente, e la spiegazione di che cosa siano le tracce viene data lungo tutto il capitolo. «Avevano scavato stretti sentieri di cresta» – se qualcuno di voi è andato in montagna sa che cos’è un sentiero di cresta, è quello che si arrampica lungo il fianco della montagna, là dove la roccia emerge e forma una sorta di cresta. Tutte le montagne hanno delle creste e tutte le montagne hanno dei sentieri di cresta, che sono spesso i più semplici per arrivare in cima. Anzi, quasi sempre sono i più semplici – «disegnato col tallone secondo la loro erranza la geografia di un altro paese. I nostri quartieri si sarebbero annidati proprio agli incroci di quelle prime Tracce» (p. 130).

In questa pagina avete ancora la possibilità di una intera frase in creolo. Il libro offre diverse di queste possibilità:

<blockquote>Lè fin-bout la jounen téka bay koulè goj, lè jou téka lévé gloria toudouvan, an môn falé ou té pé la. Lannuit téka chayé an latrilé bruitaj (kabribwa, grounouy, Kritjèt) tonbé kanyan koté ka tred maten. Epi, fal jôn té ka sonnen bek yo, jis lè pa té rété piès bri, kontel an fon légliz lè soley la ka bat (p.143, nota 1).</blockquote>

Io non riesco a renderlo, ma se la leggete a casa, fate un po’ di esercizio, vi rendete conto che ha un ritmo africano, di parlata africana, non di lingua europea. La traduzione è la frase che abbiamo letto prima. In poche pagine abbiamo visto che [Chamoiseau] prepara una serie di trappole al lettore francese, però poi, per il lettore curioso, permette anche di capire che cosa siano delle frasi creole. La frase riportata in nota è la traduzione creola della frase francese, ovverosia, la frase francese è la traduzione di questa frase creola. La frase è: Quand le jour couchant colorait des menaces, et le jour levant, son gloria vaillant, là-haut, c’était bon de se taire; per cui voi potete benissimo fare un confronto tra il francese e il creolo e potete tradurvi la frase da una lingua all’altra. Eccettuate naturalmente le parole che anche nella traduzione francese Chamoiseau lascia in creolo, come caribwa, kriket, faljaune, ecc., ché quelle non le traduce. Ma le altre le traduce, così il lettore francese si può avvicinare, sia pure lentamente, al significato, al senso della frase.

Io mi fermerei qua.. Ci sono ancora parole come chacha, tibwa, ma arrivare fin là sarebbe abbastanza lungo.

[Qualcuno fa una domanda incomprensibile sul nastro]

Atzeni: Patrick Chamoiseau fa un libro di 432 pagine nel quale le trappole come quelle che abbiamo appena visto, di parole apparentemente francesi che hanno un significato creolo, sono migliaia, mentre le parole puramente creole sono centinaia. Il muro, o quello che tu chiami «la faglia», per un lettore è possente.

Quando abbiamo parlato della mia traduzione siamo arrivati alla conclusione che lui avrebbe fatto licenza al lettore italiano, nel senso che, non soltanto avrebbe permesso che una quota di queste parole venissero interpretate e tradotte in italiano, bensì avrebbe anche permesso che venisse mantenuto un certo numero di parole creole e che per queste venisse fornito alla fine del volume un glossario. Cosa che ha rifiutato recisamente di fare per l’edizione francese. Perché ha scelto questo? Io credo che da un lato si sia commosso per il tentativo di capire ogni singola parola avvenuto da parte del traduttore. Credo anche che dall’altro ci sia un rapporto diverso tra Patrick Chamoiseau e i francesi e Patrick Chamoiseau e gli italiani.

Terzo elemento: c’è stata la comune decisione di lasciare una quantità di oscurità; e questo testo, infatti, non perde tutte le oscurità. Se voi ci badate, ci sono una quantità di modi di dire, di frasi che vengono dal creolo, che sono tradotte in italiano, ma che non per questo acquistano immediatamente significato. Anzi, talvolta costringono il lettore a lunghi e perplessi giri prima di comprenderne il senso. Ne cito una nella breve introduzione che ho fatto alla traduzione: un intero capitolo si intitola «Tempo che fa tempo», la quale frase in italiano non ha nessun senso. È un proverbio creolo preso e tradotto letteralmente in italiano senza nessuna parola che aiuti a spiegare che cosa significa. Il lettore che veramente voglia capire può fare un suo sentiero di conoscenza, perché si deve leggere tutto il capitolo per intuire che cosa significa quella frase. Quindi non è che la difficoltà venga tolta del tutto al lettore italiano. Certo è che il lettore italiano ha, rispetto al lettore francese, un compito un po’ più semplificato.

Ma va anche considerato che, sulla base di considerazioni come quelle fatte per grounouye, grenouille, cioè sulla base della comunanza di suoni, il lettore francese intelligente può comunque arrivare a una parte di comprensione, mentre il lettore italiano sarebbe stato in enorme svantaggio. Mentre il lettore francese può arrivare da grounouye a grenouille, c’è sempre lo stesso suono, la parola che si avvolge su se stessa, quasi, per il lettore italiano, se lasci la parola grounouye, non c’è nessun rapporto con la rana. E allora diventa assolutamente incomprensibile. Non è più uno stimolo all’apprendimento, bensì è un muro di chiusura. È puro mistero senza soluzione. Ne abbiamo parlato a lungo e io ho chiesto molto a Chamoiseau di poter fare il glossario. Lui è convinto fermamente che i lettori sono veloci. Ne sono convinto anch’io, so come funziona la lettura di un libro: il lettore è veloce e quando trova la parola che non ha senso, per lui, la salta. C’è quasi un meccanismo mentale che gli fa fare il salto della parola, lo porta a un’altra parola. Alla fine il lettore ha letto tutto il libro, ha assunto il significato di quel libro, l’ha compreso, ma ha lasciato una quantità di nomi o di parole senza sapere che cosa esattamente significhino. La sua comprensione del libro è limitata di una bella percentuale, però si può leggere tranquillamente anche così.

Chamoiseau sostiene che non è importante che il lettore capisca tutto. Cioè, è bene che ci sia del mistero, è bene che ci siano delle difficoltà da superare, è bene che il libro provochi dei dubbi e delle incomprensioni. Ma il lettore italiano sarebbe stato, se avessimo mantenuto lo stesso criterio dell’edizione francese, molto più svantaggiato del lettore francese, il quale, a causa del suo [intuito] e grazie alle molte frasi creole che Chamoiseau mette nel libro e che facendo finta di nulla traduce nella pagina precedente, due pagine dopo, si impadronisce di un lessico creolo, ne comprende il significato e può poi, allargandosi verso tutto il libro, tradursene una parte, perché l’autore gli dà gli strumenti. Glieli dà in modo nascosto, ma glieli dà.

Questo per il lettore italiano era impossibile. La strada maestra per il lettore francese è il suono e quel suono non corrisponde alle parole italiane, ma soltanto alle parole francesi. È stato necessario fare un lavoro differente per mantenere anche un livello di comprensione che non fosse inferiore a quello francese. È probabile che sia lievemente superiore, ma ci sono comunque problemi. Il problema principale è la costruzione stessa del romanzo, che non è fatta per il lettore facile. È una costruzione fatta sulla base delle difficoltà, anche ritmiche, anche di struttura della narrazione. Non credo che Chamoiseau ami i lettori che leggono un libro in due ore e lo buttano via. Non è un giallista. Chamoiseau ha un discorso da fare, che per lui è importantissimo, che ha centralità nella sua vita, nel suo mondo, e vuole un lettore che sia capace di fermarsi anche per settimane a meditare sul suo libro, perché sta dicendo qualcosa. Non è uno scrittore che sta raccontando una storia che è stata già raccontata venti volte prima di lui…

La maggior parte dei romanzi gialli, anche i migliori, seguono dei ritmi, hanno delle strutture precise dentro le quali si muovono le vicende, e ogni scrittore aggiunge di suo. Per esempio Simenon fa passare nel poliziesco tutto il mondo della provincia francese, delle città, gli angoli, i popoli, quelli del Nord, quelli del Sud e la vita del paese, la vita del quartiere… Però poi la struttura è sempre quella. Ecco, Chamoiseau fa molto di più. Chamoiseau in un libro vuol dare un mondo, vuole permettere a chi in quel mondo non è mai stato di sapere che cosa è quel mondo [interruzione del nastro].

Riferimenti bibliografici

(a cura di Gigliola Sulis)

Offriamo di seguito le indicazioni complete dei libri citati da Atzeni durante il seminario. Per i riferimenti alle sue traduzioni, se ne veda l’elenco in calce all’articolo Il pastore della Molteplicità di Gianfranco Petrillo, in questo stesso numero.

Bickerton: Non è stato possibile rintracciare i dati esatti del saggio citato. Dal momento che lo scrittore non parlava l’inglese, il riferimento potrebbe essere all’articolo Lingue creole, in «Le Scienze» n. 181, settembre 1983 (traduzione italiana di Creole Languages, in «Scientific America», luglio 1983), in cui Bickerton propone un sunto del suo Roots of Language, Karoma Publishers, Ann Arbor 1981. Dello stesso autore, si veda anche il precedente Dynamics of a Creole System, Cambridge University Press, London 1975.Ludwig, Montbrant, Poullet, Techid 1990 : Ralph Ludwig, Danèle Montbrant, Hector Poullet, Sylviane Telchid, Dictionnaire créol-français, Servedit – Jasor, Paris

Saracino 1994: Maria Antonietta Saracino, Lingua bastarda, in «la talpalibri/il manifesto», 27 ottobre

Trésor: Trésor de la langue française, 16 volumi, ATILF, Nancy 1971-1994