NICOLA PASQUALETTI E DELIA ANGIOLINI DI NUOVO ALLE PRESE CON UWE JOHNSON
di Paola Quadrelli
A distanza di quasi dieci anni dalla pubblicazione presso Feltrinelli del secondo volume degli Jahrestage di Uwe Johnson – editi originariamente da Suhrkamp in quattro parti tra il 1970 e il 1983 – esce finalmente presso la coraggiosa casa editrice romana L’Orma il terzo volume (Uwe Johnson, I giorni e gli anni, 20 dicembre 1967 – 19 aprile 1968, traduzione di Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini, Roma, L’Orma, 2014, pp. 552, €26,00). La meritoria impresa editoriale, che si concluderà nel 2015 con la pubblicazione del quarto volume, colma una vistosa lacuna dell’editoria italiana ed è motivo di soddisfazione per i cultori italiani di Johnson che lamentavano il mancato completamento da parte di Feltrinelli della traduzione di una delle opere capitali della narrativa moderna.
I traduttori sono ancora Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini, già autori della versione italiana dei primi due volumi, a cui va riconosciuto il merito di aver perseverato con costanza e passione in un’impresa traduttoria di straordinaria mole e complessità.
Protagonista del romanzo – il cui sottotitolo, assente nella presente traduzione, è Aus dem Leben von Gesine Cresspahl – è appunto la trentaquattrenne impiegata di banca Gesine Cresspahl, originaria di Jerichow nel Meclemburgo, una regione baltica della Germania, e residente a New York dal 1962 con la figlia Marie di dieci anni. La vicenda narrata negli Jahrestage – lo ricordiamo – si articola su di un duplice piano temporale: il presente, che copre un anno intero, dal 21 agosto 1967 al 20 agosto 1968, e il passato nel Meclemburgo, dagli anni trenta agli anni cinquanta del Novecento. Adottando una prospettiva «dal basso», ovvero ripercorrendo le vicende della famiglia Cresspahl e della comunità in cui essi vivono, l’autore racconta con acribia documentaristica la storia tedesca dei decenni centrali del Novecento, dalla crisi della Repubblica di Weimar alla salita al potere di Hitler, dagli anni del regime nazista alla guerra, dall’arrivo a Jerichow dapprima degli inglesi e poi dei russi all’imporsi e consolidarsi del dominio sovietico con conseguenti arresti e repressioni, dall’edificazione del socialismo alla fondazione della DDR sino all’emigrazione di Gesine, che nel 1953 abbandona la Germania Orientale in dissenso con la politica antisemita di Stalin.
La narrazione, scandita alla maniera di un diario secondo annotazioni giornaliere, comprende, dunque, tanto eventi pubblici che connotano l’attualità del biennio 1967-68 negli Stati Uniti e in Europa – la guerra nel Vietnam, l’assassinio di Robert Kennedy e di Martin Luther King, la primavera di Praga, le proteste studentesche – quanto episodi della vita newyorchese di Gesine e ricordi privati, che riaffiorano quotidianamente alla memoria della donna intessendo un sottile controcanto con gli eventi del presente. Jahrestage significa infatti, oltre che, letteralmente, «giorni dell’anno», anche «anniversari», «ricorrenze», e il titolo del romanzo, come rimarcava Uwe Johnson in una lettera alla traduttrice inglese Leila Vennewitz, vuole appunto indicare that every present day keeps, by way of memory, days or one day in the past (Fahlke 1988, 325: che ciascun giorno del presente, grazie al tramite della memoria, contiene in sé uno o più giorni del passato –traduzione mia). Compaiono dunque nella narrazione riferimenti a festività americane, quali il Memorial Day, il Thanksgiving Day o il Father’s Day, così come il ricordo di eventi che attengono alla sfera pubblica (ad esempio, la ricorrenza della sollevazione del ghetto di Varsavia nell’annotazione del 26 aprile 1968) o alla sfera privata (l’anniversario di episodi nella vita familiare di Gesine).
Johnson, che aveva progettato il romanzo durante un lungo soggiorno a New York, ribadì in più occasioni che si era sempre immaginato il proprio romanzo in lingua inglese con il titolo Anniversaries e aveva addirittura pensato inizialmente al titolo Anniversarii (sic), utilizzando una delle lingue, l’italiano, conosciute dalla corrispondente in lingue estere Gesine. Alla domanda, posta da un intervistatore, se Jahrestage fosse da intendersi nel senso di «i giorni di un anno» oppure in quello di «anniversari», Johnson rispondeva che esso andava inteso prevalentemente nel secondo significato, ancorché egli aspirasse, almeno per il lettore tedesco, a una coesistenza di entrambi i significati:So daß man sagen könnte – incalza l’intervistatore –, daß für Gesine jeder dieser 365 Tage zum Jahrestag des je erinnerten Ereignisses wird? (Fahlke 1988, 264-265: Si potrebbe dunque dire che per Gesine ciascuno di questi 365 giorni diventa l’anniversario [Jahrestag] dell’evento che ella richiama alla memoria? – traduzione mia).
Una versione ridotta del primo volume del romanzo usciva dunque nel 1972 da Feltrinelli nella traduzione di Bruna Bianchi, con il titolo, appunto, di Anniversari. Pasqualetti e Angiolini hanno invece optato per un titolo diverso e hanno esposto le loro considerazioni al riguardo nello scritto Da Jahrestage a I giorni e gli anni: genesi di un titolo (Pasqualetti e Angiolini 2007), saggio meditato e documentato, che risente tuttavia dello stile criptico e contorto proprio dei due traduttori.
I giorni e gli anni è un titolo indubbiamente più suggestivo dell’anodino Anniversari, che evoca peraltro al lettore italiano festose circostanze private ed è, in tal senso, fuorviante e limitativo rispetto a ciò che Johnson intendeva veicolare con il titolo Jahrestage. Sotto altri aspetti, però, I giorni e gli anni è un titolo meno preciso di Anniversari; esso trasmette efficacemente l’immagine del tempo quale flusso inarrestabile, e in tal modo allude alla stratificazione temporale, a quello scavo nel «pozzo del passato» decisivo nella narrazione johnsoniana, ma, a differenza di «anniversari», non comunica con altrettanta efficacia l’articolarsi di una rete di corrispondenze e richiami segreti tra presente e passato e la compenetrazione e compresenza di più piani temporali che connota la psiche individuale.
La complessità del romanzo, del resto, è dovuta non solo all’alternarsi di diversi piani temporali ma anche alle differenti modalità narrative scelte dall’autore a comporre un abile montaggio. Numerose sono le strategie narrative utilizzate: estese citazioni di articoli del «New York Times», di cui la protagonista è appassionata lettrice, annotazioni diaristiche in prima persona, racconto in terza persona della vita quotidiana newyorchese di Gesine e della figlia, monologhi di Gesine in forma di registrazione su nastro, dialoghi (tra Gesine e Marie, tra Gesine e l’amico Dieter Erichson, ma anche dialoghi, riportati in corsivo, tra Gesine e persone defunte), racconto in prima o terza persona della storia della famiglia Cresspahl tra il 1930 e il 1956 e, infine, inserto di documenti originali, corredati dall’autore di indicazioni bibliografiche e copyright (nel quarto volume, ad esempio, è riportato integralmente il Manifesto delle 2000 parole, uno dei più significativi documenti della Primavera di Praga). Da un mosaico narrativo siffatto consegue una straordinaria varietà di stili e di registri lessicali: il freddo resoconto giornalistico lascia il posto a lacerti di memoria che prendono corpo nel dialetto nativo di Gesine e si articolano in maniera brachilogica, dopo descrizioni paesaggistiche raffinate e venate di lirismo si trovano sapidi dialoghi ricchi di anacoluti, passi in cui prevale la volontà documentaristica del testimone e dello storico si alternano a brani venati di ironia e pietà in una narrazione complessa e straordinariamente coinvolgente.
Né lo Hochdeutsch, cioè la lingua standard della comunicazione scritta tedesca, è l’unica lingua utilizzata dall’autore, che oltre a disseminare singole frasi o spezzoni di dialogo in inglese, in russo o in ceco, utilizza frequentemente il Niederdeutsch,lil dialetto bassotedesco meclemburghese che èlingua madre di Gesine.
Il dialetto è connaturato all’attività mnestica di Gesine; è la voce attraverso cui parlano l’Io profondo della donna e le istanze prelogiche che vi abitano. Ricorrendo a una metafora suggerita da Luigi Meneghello in Libera nos a Malo, anche per lo Johnson degli Jahrestage il dialetto rappresenta il «nòcciolo di materia primordiale» di cui è fatto l’Io individuale; per coloro, come Gesine, che sono sradicati dalla comunità di origine, esso giace sepolto ma indistruttibile sotto le stratificazioni culturali sopraggiunte nel corso dell’esistenza, sempre pronto a riattivarsi, destando memorie sopite o suscitando emozioni lancinanti e struggenti nostalgie.
Accanto a questa preponderante funzione identitaria (il dialetto è per Gesine la lingua della patria perduta) il Niederdeutsch assolve pure altre funzioni negli Jahrestage. Esso, infatti, conferisce vividezza e pregnanza a dialoghi e situazioni, assecondando dunque l’ambizione di realismo insita nel progetto narrativo johnsoniano e in quanto lingua del popolo si rivela ingrediente imprescindibile per la modalità interpretativa adottata dall’autore, che intende leggere la Storia attraverso gli occhi della gente comune. Da non dimenticare, infine, che il sottotono scherzoso e bonario, proprio del dialetto, ben si presta a corroborare il registro ironico tipico del nostro autore.
La traduzione del dialetto costituisce una questione assai dibattuta nei translation studies. Per essa, come accade del resto per tutti i problemi di traduzione, non esistono regole prescrittive e assolute, quanto, piuttosto, soluzioni diverse, frutto di negoziazioni e singole valutazioni.
Il traduttore ha a disposizione diverse strade, riassumibili grosso modo nell’elenco seguente: 1) totale rinuncia alla traduzione del dialetto (è la scelta operata da Bruna Bianchi e dai traduttori dell’edizione francese e americana di Jahrestage); 2) traduzione delle parti dialettali nella lingua standard ma in carattere corsivo, sottolineando in tal modo, almeno a livello grafico, la diversità di tali passi rispetto al resto (scelta difficilmente praticabile negli Jahrestage, dato che già molti dialoghi sono nel testo originale in carattere corsivo); 3) traduzione del dialetto in un dialetto della lingua d’arrivo (è la strada intrapresa da Pasqualetti e Angiolini); 4) rinuncia alla traduzione del dialetto, ma introduzione di colloquialismi e scelte morfosintattiche e grammaticali devianti, “altre” rispetto all’italiano standard, per rimarcare il registro vernacolare (ad esempio, anacoluti, ellissi, concordanze mancate, errori di pronuncia). I sostenitori di quest’ultima opzione (Morini 2007; Briguglia 2009) ritengono, infatti, che il traduttore debba preoccuparsi di rendere nella sua lingua «non il dialetto in sé, ma la funzione che esso svolge nel testo di partenza» (Morini 2007, 209), questione invero non facile da dipanare vista la pluralità di funzioni che il Niederdeutsch assume nel romanzo di Johnson (vedi l’ampio studio di Scheuermann 1998).
Va detto, peraltro, che nella traduttologia moderna la scelta di tradurre il dialetto con un dialetto della lingua d’arrivo è fortemente sconsigliata in quanto foriera di esiti farseschi (e come tale concessa solamente in contesti comici, come nel caso del doppiaggio della sitcom I Simpson).
Ricordiamo al riguardo il recente commento di Franca Cavagnoli, che citando Antoine Berman 2003, esprime la propria contrarietà rispetto a questa scelta «addomesticante» ed «etnocentrica»:
I dialetti come ogni varietà locale, sono profondamente radicati nella loro terra d’origine: oppongono una strenua resistenza e si rifiutano di essere tradotti in un altro dialetto. La traduzione può avvenire solo fra lingue colte e non è possibile trasformare lo Straniero che viene da fuori nello Straniero di casa propria. Così facendo si rischia di coprirlo di ridicolo e di banalizzare il testo che si sta traducendo (Cavagnoli 2012, 91-92).
Nell’avallare il ricorso a «un patois modellato su forme toscane» Pasqualetti e Angiolini (2002, 15) si sono richiamati alla traduzione di Mutmassungen über Jakob in cui Enrico Filippini (1961) aveva reso le parti in dialetto con un dialetto lombardo-veneto. La traduzione di Filippini, però, risale a un’epoca in cui la gente non viaggiava, non guardava la televisione, non conosceva i paesi stranieri e le lingue straniere, era infinitamente più provinciale di oggi e utilizzava ancora, un po’ ovunque, il dialetto per la comunicazione quotidiana. Il contesto attuale è fortemente cambiato e un lettore del 2014 prova ilarità nel trovare in un romanzo dei ciabattini del Meclemburgo o dei guidatori di autobus dello Holstein che parlano come certi comici toscani, a suon di «un crederete mi’a», «se pole», «’ollo vedi». Ne scaturisce, oltretutto, una sensazione di inverosimiglianza che contrasta con la pretesa di realismo implicita nella scelta del dialetto da parte di Johnson.
Nella densa Nota dei traduttori che introduce il primo volume de I giorni e gli anni, Pasqualetti e Angiolini avanzano la tesi secondo cui il dialetto svolgerebbe un ruolo pervasivo all’interno del romanzo:
e rudezze dialettali non rimangono circoscritte ai paragrafi in corsivo, ma permeano da sotto tutto quanto il testo. La sintassi spezzata e un uso deviante dell’interpunzione corrispondono più efficacemente al disordine con il quale i ricordi si ammonticchiano nel deposito della memoria e vengono poi ripescati […]. Costruzioni a senso, brachilogia, anacoluto, paratassi, icasticità da dialogo all’osteria ne sono la conseguenza. Anche nel testo tradotto. La scelta di leggibilità del livello «vernacolare» comporta, ineludibile, il rischio della sua radicalizzazione. Evitare il problema normalizzando la forma eliminerebbe gran parte della precisione che è di Gesine nell’udire le «voci» [cioè la voce del padre morto e di altri personaggi defunti, appartenenti al mondo familiare della donna] e sarebbe un passo in direzione di una chiarezza narrativa che il testo originale non si prefigge affatto (Pasqualetti e Angiolini 2002, 16).
I traduttori mostrano nel passo citato di aver riconosciuto con attenzione e sensibilità le specificità della lingua di Johnson, che si collocano prevalentemente sul piano della sintassi e dell’interpunzione, e rivendicano a buon diritto soluzioni stilistiche ardite, ma dimostrano al contempo di ignorare le tendenze predominanti della traduttologia moderna in quanto non approfondiscono, né si curano, dei rischi insiti nella scelta obsoleta da essi adottata, ovvero la trasposizione del dialetto straniero in un dialetto nostrano. Inoltre, la «radicalizzazione del livello vernacolare» di cui essi parlano nella premessa teorica è spesso degenerata a livello pratico in veri e propri arbitri.
L’inventività linguistica dei traduttori è tracimata, infatti, oltre che a livello sintattico, anche a livello lessicale, cosicché toscanismi ed espressioni vernacolari o gergali abbondano e debordano anche laddove Johnson utilizza parole comunissime dello Hochdeutsch. Qualche esempio: Schädel(Johnson 2000, 958), che è «testa», è reso con «chiorba»; geschickt, che nel contesto di Pasqualetti e Angiolini 2014a, 51, vale «ingegnoso», è tradotto con «ganzo»; sonderbar unbeschädigt («straordinariamente intatta, integra», riferito alla giacca di un’uniforme in Johnson 2000, 944) diventa «linda e pinta» (Pasqualetti e Angiolini 2014a, 175); e aggettivi quali gekränkt(Johnson 2000, 1192), beleidigt (1125: entrambi significano «offeso») o böse (1124: «arrabbiato») vengono tradotti con l’aggettivo «guasto» (Pasqualetti e Angiolini 2014a, 254 e 331), che in italiano non si utilizza normalmente per indicare lo stato d’animo di una persona.
Talora si assiste anche a una virata verso un registro volgare, forse compatibile con l’estrazione socio-culturale dei parlanti e con una certa rozzezza del contesto, ma che non trova riscontro nelle scelte lessicali originali, tanto più che la lingua tedesca presenta una minore propensione al linguaggio triviale rispetto all’italiano. Si veda, dunque, in tal senso: mit dem schwer bewegten Busen (Johnson 2000, 926) reso con «che dava pesanti escursioni di zinne» (Pasqualetti e Angiolini 2014a, 31); zum unheiligen Andenken an den Putsch von Kapp (1049), che diventa «alla porca memoria del putsch di Kapp»(169): «unheilig» era traducibile qui con «sciagurata», «disgraziata»); Pontij und Jerichow verlangten etwas Männliches(1050), tradotto con «avevano bisogno di uno con le palle» (169): la frase è oggettivamente di difficile traduzione, ma «con le palle» è espressione forzatamente volgare.
Molti altri passi si potrebbero citare in cui è stata operata una forzatura verso un registro colloquiale e gergale. Se è ancora perdonabile il trito «senza se e senza ma» per il semplice avverbio unweigerlich (immancabilmente, in Johnson 2000, 1189), alquanto discutibile è invece l’uso del brutto, anacronistico e romanesco «ci sta» usato nel significato moderno di «va bene», «è comprensibile», mentre decisamente fuori posto sono i «ci azzecca» di dipietresca memoria, nel senso di «c’entra», «ha a che fare». Si veda ad esempio il passo in cui Gesine racconta della lezione di galateo linguistico ricevuta a suo tempo da Alma Witte che nell’originale suona così: Überdies erzog sie mich in den bürgerlichen Feinheiten einer Unterhaltung, Antworten in vollen Sätzen […] Andeutungen an der passenden Stelle, voller Wahrheit an der gehörigen(1199-1200) nella traduzione di Pasqualetti e Angiolini 2014a diventa «Oltre a ciò mi tenne una lezione sulle finezze di una conversazione nelle forme borghesi: risposte che fossero frasi compiute, […] accennare alle cose dove è giusto accennare ed esporre la piana verità dove davvero ci azzecca»; e, sempre nella stessa annotazione di diario (12 giugno 1968 in Pasqualetti e Angiolini 2014a, 336): «[le rivolgeva sguardi] con un’espressione chiaramente depressa che non ci azzeccava col presidente di circondario che in pectore era», traduzione prolissa e fantasiosa di: mit schwermütig betonter Miene, als sei er nicht der künftige Landrat (cioè: con un’espressione visibilmente malinconica, quasi che egli non fosse il futuro presidente di circondario –traduzione mia).
Il gusto dei traduttori per l’espressione stravagante e bizzarra si spinge pure all’invenzione di espressioni e modi dire o a un utilizzo improprio dei vocaboli. Si vedano: «cruscante» (Pasqualetti e Angiolini 2014a, 191: «improperi cruscanti» per mit zischenden Beschimpfungen(Johnson 2000, 1069; zischend significa propriamente «sibilante»), il participio «attristata» usato come aggettivo (p. 333: «una lettera attristata» per einen traurigen Brief di Johnson 2000, 1193) o la singolare espressione «per il gatto», di uso forse toscano ma certo ignota al comune lettore italiano e che ricalca alla lettera il modo di dire tedesco für die Katz’, ovvero «fatica sprecata»: Damit sind drei Wochen Agitation zerstört(Johnson 2000, 1229) viene reso «E con questo tre settimane di propaganda sono per il gatto» (Pasqualetti e Angelini 2014a, 374).
Per contro – e si ha quasi l’impressione che i traduttori abbiano scambiato Uwe Johnson per Carlo Emilio Gadda – si registrano vocaboli arcaici e di registro aulico («irremeabilmente», «fiso», «girazione», «apprensione» nel senso di «apprendimento»), preziosi latinismi («redimito»), frequente posposizione dell’aggettivo possessivo («le figliole sue») e ricercate locuzioni di sapore dantesco («a torvo sguardo e co’ capelli ritti»; «torvo d’aggrottate ciglia guatando») riconducibili solamente alla volontà di torsione espressionistica dei traduttori e che non trovano riscontro nelle scelte lessicali operate da Johnson. «Irremeabilmente» (p. 212), ad esempio, traduce il comune avverbio unwiderruflich (irrevocabilmente); «redimita», proprio nell’attacco del romanzo, rende l’usuale verbo umschlingen (avvolgere, cingere, orlare); «torvo d’aggrottate ciglia guatando» (p. 193) traduce una frase che nell’originale non ha nulla di letterario e di arcaico: blickte finster […] mit zusammengezogenen Brauen (che in Johnson 2000, 1071, significa semplicemente: guardava torvo con le ciglia aggrottate).
Oltre a tradire il dettato originale, tali soluzioni rendono faticosa la lettura e talora ostacolano sensibilmente la comprensione del testo; è dunque auspicabile che nella traduzione del quarto volume i due traduttori, che nei testi teorici si dimostrano studiosi sensibili e avvertiti dell’opera di Johnson, si attengano con maggiore umiltà al testo originario, coadiuvati in ciò da un attento redattore editoriale. La maggiore precisione ed eleganza stilistica che connotavano i due primi volumi feltrinelliani de I giorni e gli anni è infatti da ricondursi, verosimilmente, a una puntuale opera di revisione editoriale e a un più accurato lavoro di limatura.
Bibliografia
Berman 2003: Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, a cura di Gino Giometti, Macerata, Quodlibet 2003 (traduzione da Antoine Berman, La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, Paris, Seuil, 1995)
Bruna Bianchi 1972: Uwe Johnson, Anniversari, Milano, Feltrinelli 1972 (traduzione e riduzione di Bruna Bianchi da Johnson 1970)
Briguglia 2009: Caterina Briguglia, Riflessioni attorno alla traduzione del dialetto in letteratura. Interpretare e rendere le funzioni del linguaggio di Andrea Camilleri in spagnolo e in catalano, in« inTralinea»
Cavagnoli 2012: Franca Cavagnoli, Tradurre la letteratura: fra negoziazione e compromesso, in «Letteratura e Letterature», n. 6, pp. 85-94
Fahlke 1988: Eberhard Fahlke (hrsg), Ich überlege mir die Geschichte. Uwe Johnson im Gespräch, Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1988
Filippini 1961: Congetture su Jakob, Milano, Feltrinelli (traduzione da Uwe Johnson, Mutmassungen über Jakob, Frankfurt am Main, 1959)
Johnson 1970, 1971, 1973, 1983: Uwe Johnson, Jahrestage. Aus dem Leben von Gesine Cresspahl, Frankurt am Main, Suhrkamp, 4 Bände
– 2000: Jahrestage. Aus dem Leben von Gesine Cresspahl, Frankurt am Main, Suhrkamp, 1 Band
Morini 2007: Massimiliano Morini, La traduzione. Teorie, strumenti, pratiche, Milano, Sironi 2007
Pasqualetti e Angiolini 2002a e 2005: I giorni e gli anni. Dalla vita di Gesine Cresspahl, voll. I e II, Feltrinelli, Milano (traduzione di Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini da Johnson 1970 e 1971)
– 2002b: Nicola Pasqualetti, Delia Angiolini, Nota dei traduttori, in Pasqualetti e Angiolini 2002, 15-20
– 2007: Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini, Da Jahrestage a I giorni e gli anni: genesi di un titolo, in Dello scrivere e del tradurre. Per Michele Ranchetti, a cura di Camilla Miglio, Valentina di Rosa e Giovanni La Guardia, Napoli, Il Torcoliere, pp. 69-83 (reperibile anche on line all’indirizzo http://www.germanistica.net/2012/01/26/da-jahrestage-a-i-giorni-e-gli-anni-genesi-di-un-titolo/)
– 2014a: I giorni e gli anni. 20 aprile 1968 – 19 giugno 1968, L’Orma, Roma (traduzione di Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini da Johnson 1973)
– 2014b: Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini, intervista con Davide Orecchio sul blog «Nazione indiana», marzo 2014 (https://www.nazioneindiana.com/2014/03/25/bentornato-uwe-johnson-la-parola-ai-traduttori-delia-angiolini-e-nicola-pasqualetti/)
Scheuermann 1998: Barbara Scheuermann, Zur Funktion des Niederdeutschen im Werk Uwe Johnsons, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht