La mamma non è una sola

ESPERIENZE DI UNA TRADUTTRICE ROMENA-ITALIANA (O ITALO-ROMENA?) DAL ROMENO (OVVERO ELOGIO DELLA PLURALITÀ)

di Livia Claudia Bazu

Christian Schloe, digital art

Quando mi è stato chiesto questo testo un flusso di memorie e di stringhe di pensiero che avevano sempre camminato accanto a me, ai pensieri espressi in conversazioni, dibattiti o testi che avevo scritto o tradotto, e che era rimasto appena fuori sulla soglia, si è risvegliato. Un fascio di ricordi connessi e di riflessioni implicite, accantonati per il momento in cui avrebbero incontrato l’occasione di farsi dialogo, rispondendo alle sollecitazioni del mondo.

Migrai, o meglio “fui migrata” (portata nella migrazione da mio padre) a 12 anni. Il mondo nuovo si riversò copiosamente nella coscienza che sbocciava, permeabile, adolescente. Mary Shelley in Frankenstein dice che nessuna persona, nessuna esperienza rimane così profondamente impressa, legata al nostro essere, come quelle risalenti agli anni dell’adolescenza. Il nuovo mondo intorno a me (Montecatini, Italia, anni Novanta) mi inondò di cose nuove da percepire e da vivere, e allo stesso tempo si affiancò al mondo di prima (Bucarest, Romania, la “cortina di ferro” appena caduta), talvolta fondendosi con esso. E la lingua prima e i pensieri di prima desideravano travasarsi, colarsi nelle forme della lingua nuova. Così arrivò il desiderio di tradurre in italiano Mihai Eminescu, poeta vate del romanticismo romeno.

Ho ancora alcuni di quei fogli scritti a mano (quanta nostalgia della carta…): si vedono righe ordinate, fitte, da brava studentessa, ma, riguardando attentamente, sono piene di correzioni meticolosamente celate. Ricordo ancora la sensazione ispida, sdrucciola, la strada piena di buchi del tradurre: le parole non trovavano le proprie gemelle, i ritmi e le sonorità cambiavano registro, i versi salivano invece di scendere, correvano invece di camminare con agio, cadevano rialzandosi a fatica, si ingolfavano o si seccavano.  Se aggiustavo una parola, un senso si plasmava, un altro si perdeva… come una coperta troppo corta, se sistemavo il capo della poesia perdevo i piedi e viceversa. L’estate andai alla Biblioteca Sadoveanu a Bucarest: tra quelle mura rivestite di scaffali di legno, nella penombra che accompagnava il mistero di tanti libri non letti, speravo di trovare la soluzione, la versione migliore, la sorella più somigliante. C’era in effetti una traduzione in italiano, di Geo Vasile, italianista insignissimo tra gli insignissimi, e poeta. Eppure, certi versi si riempivano sì come non avrei sperato, ma altri cadevano e si slogavano, si sfilacciavano lo stesso; avevo persino la presunzione di pensare che alcuni passi li avessi azzeccati meglio io… comunque il senso di perdita e di “cosa fuori posto” non sparì. Si attenuò, si mitigò, migliorò alcune corrispondenze, trovò qualche porticina, si accontentò, ma non si placò. Rimase lì, a ricordarmi distanze impercorribili, come un memento per qualcosa ancora da imparare. Francamente, la traduzione di Eminescu, che esercita un’attrazione irresistibile su quasi qualsiasi romeno che conosca un’altra lingua (e internet pullula delle più infelici realizzazioni – e di qualcuna buona), è maledettamente difficile, anche per traduttori competentissimi, e dovrebbero vietarne i tentativi prima dei 18 anni di età e altri mille di saggezza, ma ciò che importava era l’assaggio del passaggio, l’aver conosciuto l’esperienza del tradurre.

Nel frattempo andavo al liceo. L’unico 10 che ho mai preso fu per una versione di latino. Non ricordo il testo, ma ricordo un frammento del processo di traduzione. La prima frase. Conteneva una struttura latina di grande potenza sintetica, che nei primi tentativi di traduzione in italiano sembrava dover richiedere molte parole in più, e un giro forzato della frase come ne trovavo molti nelle traduzioni, anche accreditate, proposte nei manuali, traduzioni che parlavano un italiano strano, costretto, perdendo forza, immagine, ritmo e naturalezza. E invece poi arrivarono, come un ospite improvviso, quel sintagma, quelle parole – specchio della pulizia, della concisione e vivezza della frase originale, in un italiano bello, agile, vero. Ricordo la sensazione di salto perfetto, come in ginnastica alla fine dell’esercizio sulla sbarra: da quella linea stretta di equilibrio, lo slancio perfetto nella sospensione e l’atterraggio senza piegature, dritto come un germoglio che cerchi il sole, e niente era più “fuori posto”. Una traduzione felice.

Tra questi due estremi ha continuato ad oscillare il mio rapporto con la traduzione, accanto al e separatamente dal rapporto con le lingue, con la scrittura, con la didattica, con la letteratura, con la ricerca sul plurilinguismo, dimensioni diverse, accademiche, personali, sociali, ognuna riflettendo in maniera diversa le lingue nel farsi e i loro scambi. Tra questi, certamente la traduzione è quella che più abita lo spazio della differenza, “il salto”, nel tempo, nello spazio, nei sedimenti di storia e cultura tra le due lingue, e nelle modalità articolatorie, a tutti i livelli. Al di là della competenza in ciascuna delle lingue usate per produrre testi “in originale”, c’è la competenza “acrobatica” di mediarne le diversità.

Quando traduco poesie mie “baro” (quasi) sempre: le prime parole nella lingua altra ne richiamano altre, e si fondono in una nuova alchimia, anche rinunciando a un verso, cambiando l’ordine ad altri due, accelerando o rallentando il ritmo. Il nucleo centrale dell’impulso poetico rimane lo stesso, e io lo riconosco più vero, più aderente all’impulso dell’anima che aveva germogliato il testo, di quanto lo sarebbe stata una traduzione “fedele”. L’anno scorso ho consegnato le versioni in italiano e in romeno di alcune poesie per un piccolo libretto a corredo di una lettura bilingue e sono stata scoperta! L’editore mi ha inizialmente invitato a rivedere la traduzione, ma poi, spiegando il processo, i testi sono stati accettati così come li avevo concepiti, e so che ci sono altri autori che, avendone le competenze, riscrivono o riscriverebbero i propri testi in questo modo in un’altra lingua. Perché le lingue hanno un loro tessuto, di suoni, di accenti, di tracce del futuro ancora da dire, strade più brevi o più lunghe, più larghe o più strette per arrivare allo stesso senso. Lo spazio della differenza. In cui l’autore si muove come gli pare e che spesso contiene il serbatoio di intuizioni e frammenti di vaticini sulla condizione umana e le soluzioni di ritmo e vocalizzazione che sembrano più efficaci all’orecchio cresciuto in quella determinata tradizione linguistica, attirando dunque spontaneamente, terribilmente, i poeti, i filosofi, e i comici, che infatti sono i più difficili da tradurre. Il traduttore deve invece attraversare quello spazio cercando di non far vedere il minimo movimento “fuori posto”, come se giocasse “un, due, tre, stella!, e dovesse tornare indietro ogni volta che un suo passo è stato scoperto. Eppure quei passi li deve fare, anche rimanendo invisibile li deve fare, altrimenti non porterà il testo in un’altra lingua. Quello è il suo spazio di lavoro, non tanto o non solo le singole lingue in sé.

Torno al liceo. Quel 10 arrivava poco tempo dopo aver studiato la quinta declinazione latina, in cui le desinenze dei casi obliqui sono uguali a quelle della prima declinazione classica romena. E allora accadde questo: d’un tratto non solo sapevo che planitiei è un genitivo, ma lo sentivo tale, come nelle parole romene, che usavo tutti i giorni. La forma era direttamente senso, non per effetto di un’analisi, ma per riflesso acquisito: sentii gli odori dei campi di 2000 anni fa, e la lingua fu per un attimo mia. La sensazione che provai fu di intimità – la prima confidenza d’anima in un’amicizia che da allora è diventata profonda,  fu come entrare dentro casa dopo molto tempo d’assenza. E forse la traduzione felice arrivò perché c’era stato quel momento di intimità con quella mia lingua nonna (per metafora transitiva in quanto madre delle mie due lingue madri).

Per quel che riguarda l’italiano, non mi ero accorta dell’arrivo di questo momento, che in realtà arrivò a poco a poco. Suoni, parole, morfemi, volavano intorno a me sin dai miei primi giorni in Italia, insieme a impressioni di Occidente e di Mediterraneo, a crescite improvvise, strattonate, danzate, dense, di adolescenza (persone, relazioni, stupori, domande, orizzonti rovesciati, nebulose familiari che esplodevano nella migrazione), e come foglie e semi cadenti, e poi fiocchi di neve, a mano a mano avevano posato uno strato di vita e di parole sotto il quale crescevano germogli: la sensazione d’intimità arrivò mano a mano che arrivarono i rapporti intimi con amici, compagni, modelli, che fecero la mia vita di adolescente, in Italia, in italiano. E, allo stesso modo, quella sensazione arrivò mano a mano che scrivevo, traducevo, componevo le prime poesie (piccole, più spesso in italiano che in romeno – la prima in assoluto  in italiano). Il mondo di carne e i mondi di parole si fornivano energia e concime l’un l’altro, e ciò accadeva senza che ci fosse il pensiero di ciò che stava accadendo, era un processo immerso nel ciclo naturale della vita e in travagli di (ri)nascita. Sensazione di intimità e competenza “tecnica” crebbero dunque insieme: l’intimità infatti è anche conoscenza materiale – della casa, di ogni piccola crepa nell’intonaco, della posizione di ogni piccolo neo sul corpo che ami, del modo di chinare le palpebre quando tua madre è scettica, del modo di suonare il campanello di tuo fratello. Ossitocina. Ormone dell’amore, che rilassa e concentra i sensi per distinguere ogni dettaglio, ricordarlo e sentire benessere nell’atto stesso in cui si identifica l’oggetto d’amore. Perciò ogni parola che ho tradotto mi è cara, e allo stesso tempo interessante, e per lo sviluppo dell’intimità sono importanti i brevi episodi e i lunghi tempi in cui una lingua si ri-maglia in noi, e altrettanto vale per l’intimità con lo spazio dello scarto, della differenza, e i movimenti che compiamo in esso, i travagli del tradurre.

Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana, premio Nobel 1991, in un celebre articolo sul «New York Times» del 1964 scrive: Once that you master a language, it is yours (Gordimer 1964, 492: Una volta che padroneggi una lingua, essa è tua – traduzione mia), rivendicando con ciò il diritto degli scrittori postcoloniali e la loro piena capacità di scrivere nella lingua coloniale, colonizzandola di ritorno. Il problema della scelta della lingua in cui scrivere, e delle questioni sociali e identitarie associate alle letterature postcoloniali, migranti, minoritarie, transnazionali, hanno interrogato la questione della competenza e dell’appartenenza della/alla lingua, e molte sono le prospettive, gli studi, le storie degli scrittori e dei testi di queste letterature. A cascata, questo problema ricade sui traduttori (che a volte sono anche scrittori, e viceversa), ma le storie e i vissuti dei traduttori in quanto traduttori sono assai meno indagati di quelli degli scrittori, che è, mi sembra, la ragion d’essere di questa rubrica. Non si chiede, se non forse in circoli molto stretti di super-addetti ai lavori, «Perché ha scelto di tradurre da questa lingua a quest’altra?» – agli scrittori si concede molto più facilmente di scegliere, ai traduttori molto di meno. Oppure: «Quale rapporto ha con la L1, 2, 3…?». Eppure sono domande che sarebbero, a volte, molto più sensate se rivolte ai traduttori piuttosto che agli scrittori, ai quali, francamente, spesso non interessa più discutere la questione della lingua molti anni dopo che hanno fatto le loro scelte (anche se non lo dicono). I profili geolinguistici e culturali dei traduttori sono infatti altrettanto complessi e plurali di quelli degli scrittori, poiché agiscono nello stesso mondo globale, plurale, post-coloniale, post-guerra fredda, post-migratorio, transnazionale, ecc, e i destini di traduttori ed autori sono spesso intrecciati nei flussi direzionali storico-linguistici e letterari delle loro epoche. Prima di essere individuale, la questione della direzionalità è un fatto collettivo, fatto sociale totale – secondo la definizione di Marcel Mauss (Mauss 2002) –, in cui traspare la dinamica delle società coinvolte. Se la traduzione avviene tra lingue di diverso prestigio, diffusione e dominanza nel quadro linguistico mondiale, un “madrelingua” e “madrecultura” (sic!) nella lingua di minoranza, confine, marginalità (sempre in senso relativo rispetto all’altra lingua con cui avviene lo scambio), per ovvie dinamiche storiche, possiederà un capitale immaginativo della lingua e cultura dominante che, come categoria sociale, lo renderebbe più adatto alla traduzione in entrambi i sensi. E difatti è quello che spesso accade: lo scambio tra letterature “maggiori” e “minori” (per numero di parlanti la lingua, egemonia delle nazioni in cui viene pubblicato il testo ecc.) è molto spesso mediato, in entrambi i sensi, da chi viene dal margine. E l’intimità con la lingua? Quello sì è un fatto individuale, contenuto però nei fatti collettivi e globali. Ci ritorneremo.

Adesso vorrei andare altrove, in un altro punto della mia esperienza tra le lingue. Un altro mondo in cui il requisito del madrelinguismo è perno e criterio di selezione fondamentale è la didattica delle lingue, e il suo significato viene considerato self-evident nel mondo delle scuole e delle scuole di lingua, a voler dire la/una lingua appresa nella prima infanzia, apprendendo a parlare. Io però fui accettata senza alcun problema nella scuola pubblica italiana in cui ho insegnato per cinque anni – cattedra di lettere. Nessuno si pose il problema del mio madrelinguismo, affidandomi l’incarico di insegnare italiano agli italiani. Eppure alunni, genitori e dirigenza mi identificavano come romena, poiché mi conoscevano già per le attività di mediazione, ricerca e progetti di educazione al plurilinguismo che avevo fatto nelle scuole della zona. La mia appartenenza alla comunità linguistica era accettata sul campo, sulla base delle interazioni linguistiche pregresse.

Qualche anno dopo, partecipando ad alcuni bandi di selezione per l’insegnamento della lingua italiana L2 in ambito universitario, lessi ovviamente i requisiti richiesti. Il madrelinguismo è inevitabilmente, invariabilmente, presente in questi bandi, ma il Miur definisce di madrelingua «coloro che per derivazione familiare o vissuto linguistico (corsivo mio) abbiano le competenze linguistiche ricettive e produttive tali da garantire la piena padronanza della lingua» (cfr. Circolare del Ministero della Pubblica Istruzione n. 5494 del 29 dicembre 1982). Vissuto linguistico. Vissuto, presto detto, così, in una parola, tutto quanto! Ogni parola, ogni frase, ogni pensiero, ogni lettera, ogni storia… ogni verso di Eminescu che mi ha fatto penare, ogni libro di Calvino che mi ha fatto volare, ogni confidenza con le amiche di notte raggomitolate sulle sedie in cucina, ogni tema scritto (e poi fatto scrivere) a scuola, ogni frammento bilingue nel diario, ogni esame passato all’università, ogni scherzo con il papà di mio figlio, ogni perla romanesca della sua famiglia, ogni verso di Dante, ogni formula di cortesia al lavoro, l’intera tesi di dottorato, un paio di racconti e tutte le dimenticate parole di ogni giorno… L’indeterminatezza e la vastità del vissuto è travolgente, eppure è considerata formulazione sufficiente per dirimere un fatto giuridicamente rilevante come il possesso di un requisito per la partecipazione a una procedura di selezione pubblica. Chi determina, allora, nel vissuto il significato del vissuto? In un testo rimasto un caposaldo della linguistica italiana ed europea, Tullio De Mauro (De Mauro 1980) dice che i sensi si ancorano (si definiscono, si chiariscono) sempre localmente, ed è quindi l’interazione linguistica che ha luogo nel momento della selezione a non lasciare dubbi sul possesso del requisito, soggetto al suggello e all’accettazione della comunità linguistica (e accademica, in questo caso) on the field, sul campo. L’indeterminatezza del linguaggio si risolve sempre nella situazione nel vissuto, appunto. E l’indeterminatezza ci consente di innovare, di spostare i confini nei ritagli della materia segnica, ogni volta di quel poco quasi impercettibile, ché la parola è sempre la stessa ma è già nuova, e madrelingua così può cominciare a voler dire qualcosa di nuovo.

Il problema della parola madrelingua è il richiamo alla madre. E la madre (biologica) è certamente una sola, archetipo di forza inscalfibile, radicato nella legge della vita. Ma chiunque può essere una madre adottiva, madre dell’anima. E, viceversa, le nostre lingue sono tanto nostre figlie quanto nostre madri. Ciascun parlante infatti ri-crea la lingua mentre la impara, da bambino o da adulto, prova a fare costruzioni che sono più o meno sensate, accettate o rifiutate on the field dagli altri parlanti (cfr. De Mauro 1980). Nessuno parla per frasi fatte, ma va facendo, improvvisando volta per volta il discorso, ri-costruendo la lingua, facendola propria, adottandola ed adattandola come strumento del proprio pensiero, dell’espressione di sé e del rapporto con gli altri e sviluppando gradualmente senso di appartenenza, padronanza, intimità – a poco a poco, foglia per foglia, fiocco di neve per fiocco di neve, germoglio per germoglio.

Amin Maalouf in Una sfida salutare (Maalouf 2008), documento sollecitato dalla Commissione europea come stimolo per la promozione di politiche linguistiche volte al pluralismo, parla di lingua di adozione, come lingua scelta per affinità personale, e coltivata come parte della propria identità, appunto scegliendola, dopo averne apprese altre nella prima infanzia. Maalouf intende che la persona adotti la lingua e non viceversa, considerando quindi implicitamente la lingua piuttosto figlia che madre. Adottiamo tuttavia anche la nostra prima/le nostre prime lingue. Non esistono infatti parlanti “nativi”, poiché non nasciamo sapendo parlare (e in questo senso la definizione “parlante nativo” è ancora più fuorviante). Tuttavia, l’adozione è un atto terribilmente complesso, e lungo, e con tanta vita dentro, cui non facciamo caso nell’infanzia: i bambini compiono quotidianamente imprese che gli adulti non potrebbero mai eguagliare, eppure gli uni e gli altri le considerano naturali. L’adozione in età (più) adulta può essere più lunga, più sofferta, più consapevole, come nel caso effettivo dell’adozione di un bambino già grande, ma per questo sarà per forza sempre meno efficace? Soltanto con la madre di carne si può avere l’intimità, la conoscenza e condivisione dei segreti, dei più fini movimenti di corpo, di suono e di pensiero? Soltanto con la prima figlia?

E poi, conosciamo nostra madre, nostra figlia, più del nostro sposo o del nostro migliore amico, di coloro che scegliamo? E questa conoscenza rimane immutata durante la vita? Ed è continua, senza interruzioni, distacchi, ritorni? Forse Mary Shelley si sbagliava. L’adolescenza è periodo di formazione dell’essere, momento di aperture fondanti, ma non è l’unico: prima lo è l’infanzia, e dopo lo è l’innamoramento, ad ogni età, il matrimonio, il diventare genitore, ma anche lo sviluppo di una passione professionale, politica o di azione sociale, o ideale, o di studio/conoscenza quando si riveli davvero radicata in noi, ragione di vita dedicata, o la migrazione – per alcuni, quando abbracciata come decisione di slancio dell’anima, trasmigrazione dell’anima vivente. Sono queste alcune forme di intimità, di legame profondo con un aspetto della vita (inteso in senso wittgensteiniano), ed è attraverso queste porte che può entrare una lingua che diventa nostra, strumento di pensiero, di formazione, di identità ed espressione personale, madre, e figlia. Chi abbia attraversato il processo dell’adozione, dell’acquisizione dell’intimità, attraverso il vissuto linguistico, soddisfa i requisiti del Miur, e soddisfa il bisogno dei testi di essere ascoltati in tutte le loro sfumature, e quello delle lingue di essere dispiegate in tutte le loro potenzialità. Il “possesso del requisito” del vissuto può essere certificato solo on the field, attraverso l’accettazione della comunità, quindi in questo caso di editori, traduttori, scrittori.

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Recentemente ho ricevuto da una casa editrice di Milano che pubblica sia letteratura migrante che traduzioni di testi non ancora diffusi in italiano, alcuni libri, tra cui anche un libricino in arancione scurito, di legno al tramonto. Dopo averne letto il titolo, I Principi della Corte Antica, avvertii un momento di collisione nei ricordi, un cortocircuito nell’area di Brocke. Craii de Curtea Veche è un testo che nella letteratura romena dei primi del Novecento occupa un posto speciale, e nella mia storia famigliare, anche. Il titolo non è “adattato”, e non vi sono “errori” di traduzione, eppure mi ci sono voluti alcuni secondi per riconoscerlo. La Corte Antica è Curtea Veche, l’antico palazzo reale di Bucarest (assai in rovina), ma è anche il quartiere del centro storico in cui il palazzo si trova, dove si intrecciano i vicoli più affollati della vita notturna. E poi, i Principi: non solo sono innanzitutto i Crai dei piccoli principati d’oriente e non dei grandi regni d’occidente, ma la parola significa allo stesso tempo viveur, o dongiovanni (che in questo caso dissipa la vita nei postriboli del centro storico). La differenza è uno scarto di percezione, d’atmosfera e di sapore, delle correnti di immagini e storie e luoghi evocate.

Tuttavia, leggendo il libro, lo ritrovo. Ma allo stesso tempo lo leggo come fosse un libro nuovo, lo paragono alle atmosfere del Gattopardo, e forse ad alcune di Dumas, Stendhal, o forse D’Annunzio; comunque il libro entra in contatto con storie nuove, con l’altrove, e significa altro, pur rimanendo sé stesso. E mi ricordo di un’amica, traduttrice anche lei, con la quale leggemmo a turno, per puro caso – a me serviva per estrarne un paio di citazioni per la tesi di laurea, che aveva a che fare con la letteratura post-coloniale – la traduzione in italiano di un altro grande romanzo della letteratura romena, Maitreyi di Mircea Eliade (Eliade 1989). Tra le prime impressioni, la mia amica mi disse: «Adesso, leggendolo in italiano, lo vedo, lo sento europeo». Si riferiva al rapporto con l’India, in cui è ambientato il romanzo, d’ispirazione autobiografica, che racconta la storia d’amore tra un inglese, Allan, dietro il quale si camuffa l’autore, e una ragazza indiana della casta bramanica, il cui nome, vero, dà il titolo al romanzo. Le storie si sdoppiano e si dislocano in traduzione, rivelano aspetti nascosti, e ne nascondono altri. Leggere le due storie, quella originale e sua figlia, che, migrata altrove, acquisisce nuove identità, è abitare lo spazio della differenza, quello del traduttore-traghettatore di storie. Leggere, materialmente, frequentare originali e traduzioni, più volte, di più storie, è “cosa da traduttori”, è la lingua (il serbatoio di sensi) senza parole sonanti della traduzione stessa. Oltre alle lingue fatte di parole, il traduttore adotta e si fa adottare anche da questa lingua, e questa adozione è la più fondante, quella che lo trasforma in un essere un po’ mitologico, chimerico, con due paia d’occhi e d’orecchi, e almeno due madri e altrettante figlie. Questo è il processo a cui sono generalmente più vicini coloro che provengono da comunità (linguistiche) più marginali, poiché una parte di questo processo di raddoppio dei sensi possibili e di comparazione e negoziazione è già vissuto nella quotidianità della loro formazione, personale e linguistica, sono insomma madrelingua della lingua della traduzione.

Ho letto anche la biografia dell’autore dei Crai di Curtea Veche, Mateiu Caragiale, pubblicata insieme al libro (cfr. Caragiale 2014). Mi ha colpito il fatto che, pur essendo nominato (inevitabilmente) in alcuni eventi della vita dell’autore, suo padre, Luca, grande scrittore della seconda metà dell’Ottocento, tra gli spiriti fondatori della letteratura romena moderna (e gran rogna per qualsiasi traduttore, anche più di Eminescu stesso…), nulla in quella biografia ricordava per l’appunto il suo ruolo nella letteratura romena. Che fosse semplicemente sottinteso, dal momento che forse la biografia era la traduzione di quella pubblicata in prefazione del libro originale, e per i lettori romeni la figura del padre è monumento culturale da tutti riconosciuto? Oppure c’era la precisa intenzione di emancipare il figlio, e la sua opera, molto diversa, da quella del padre? Intenzione o meno, l’effetto rimaneva. Il lettore italiano che leggesse libro e biografia non avrebbe gli elementi per scorgere la (scomoda, imponente, radicante) ombra del padre. La traduzione emancipa dalla tradizione. Come la migrazione, sradica, ma libera anche, dalle restrizioni familiari. Se da una parte il lessico familiare e millenni di sensi impliciti e condivisi svaniscono, dall’altra si libera la relazione con il mondo. Il testo si emancipa, dalla (lingua)madre e dalla patria. E il traduttore, che lo deve saper condurre nel processo di emancipazione, deve essere egli stesso emancipato, attraverso la frequentazione di molteplici traduzioni e dislocamenti successivi, che si posano come le parole delle lingue fino a formare uno strato di coscienza, un punto di osservazione esterno a entrambe le tradizioni ma che entrambe le contiene, appunto quella lingua e cultura della traduzione, con cui il traduttore acquisisce intimità nell’esperienza, nel vissuto del tradurre.

Se ci si spoglia del falso mito dell’unica lingua madre quale riflesso della madre biologica, tutto rimane alla reale lettura dei testi, e al riconoscimento dell’intimità e dell’appartenenza linguistica di ciascun traduttore nell’interazione on the field, con il testo, con gli editori, con scrittori e altri traduttori. Credo che questo fosse più facile qualche decennio fa, e lo sarà nuovamente tra qualche decennio, quando avremo pagato lo scotto dello shock della globalizzazione, del meticciato, e pur tra arresti e indietreggiamenti, senso scientifico e senso comune avranno acquisito pienamente, pacificamente, la pluralità come punto di partenza e come occasione. Allo stesso tempo avremo acquisito l’indeterminatezza, da risolvere sempre nel vissuto, come presupposto di base dell’identità, del pensiero, del linguaggio, delle lingue e delle competenze linguistiche.

Riferimenti bibliografici

Caragiale 2014: Mateiu I. Caragiale, I Principi della Corte Antic, Milano, Rediviva Edizioni, traduzione italiana a cura di Mauro Barindi da Craii de Curtea-Veche, 1929

De Mauro 1980: Tullio De Mauro, Minisemantica, Torino, Einaudi

Eliade 1989: Mircea Eliade, Maitreyi. Incontro bengalese, traduzione italiana a cura di Iuliana Batali Ciarletta, Milano, Jaca Book (da Maitreyi, 1933)

Gordimer 1964: Nadine Gordimer, Notes of an expropriator, in «Times Literary Supplement», 4 June 1964

Maalouf 2008: Amin Maalouf, Una sfida salutare. Come la molteplicità delle lingue potrebbe rafforzare l’Europa, relazione del Gruppo degli intellettuali per il dialogo interculturale della Commissione Europea presieduto da Amin Maalouf, consultabile all’indirizzo: http://www-old.accademiadellacrusca.it/img_usr/Rapporto%20Maalouf%20IT.pdf

Mauss 2002: Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino, Einaudi (traduzione di Franco Zannino da Essai sur le don, Paris, Presses Universitaires de France, 1950)