Il rovescio di Vertumno

APPUNTI SU DUE TRADUZIONI DA APULEIO

di Daniele Petruccioli

1. Versioni editoriali

Quando, nel maggio 2019, è uscita una nuova traduzione di Monica Longobardi dei Metamorphoseon libri XI, ossia le Metamorfosi di Apuleio, più note sotto il nome di L’asino d’oro, la mia prima intenzione era di scriverne al più presto. L’operazione mi interessava non soltanto perché Longobardi è filologa romanza abituata a tradurre (dai trovatori agli occitani moderni passando per Petronio: Longobardi 2008, 2009, 2014 e 2019b) e a insegnare traduzione – rientrando perciò nel ruolo un po’ ibrido, raro e molto interessante (giacché destinato, secondo me, ad affermarsi sempre più in futuro) del traduttore studioso e insegnante – ma in particolare perché Longobardi ha la particolarità di coltivare un forte interesse per i giochi linguistici (Longobardi 2006 e 2011), altra zona considerata un po’ limitrofa alla traduzione e cui invece, credo, si riconoscerà un’importanza sempre più centrale in questa nostra disciplina che è prima di tutto una pratica, in questo nostro mestiere che è innanzitutto un campo di studi e di riflessione.

Il fatto che si trattasse della traduzione di un classico pure mi interessava, ma non perché io sia un latinista (non lo sono) né particolarmente amante di letterature antiche (lo sono, ma non meno che del romanzo russo ottocentesco o della poesia italiana del Duecento, per dire…), bensì perché, trattandosi di un classico, avrei avuto modo di poter confrontare la «versione di Longobardi» con più di un’altra. E per chi, come me, è interessato in modo particolare alla traduzione editoriale di opere creative, trovare più traduzioni di uno stesso «originale» non è molto facile, soprattutto quanto più ci si avvicina alla nostra contemporaneità letteraria. E infatti delle Metamorfosi, nell’ultima trentina d’anni circa, si contano almeno le versioni di Gabriella D’Anna (1995), Marina Cavalli (1998), Lara Nicolini (2005) e Alessandro Fo (2010), senza contare il saggio su Amore e Psiche di Claudio Moreschini (1994) che comprende la sua versione della favola; senza contare traduzioni letterariamente storiche come quella di Bontempelli (1928).

L’edizione Rusconi, nella collana «Classici greci e latini» diretta da Anna Giordano – con presentazione di Biagio Conte, un ampio saggio introduttivo della curatrice corredato da nutrita bibliografia e apparato di note – è la tipica edizione molto curata che va bene per l’università ma anche per il lettore appassionato desideroso di leggere una traduzione non di servizio (se mai esista una cosa del genere) nonostante il testo a fronte.

Però cincischiavo. Non so bene perché. Davo la colpa alle solite ansie personali, al lavoro arretrato, al bisogno di studiare di più. Ma non era vero. In realtà aspettavo qualcosa. Ma cosa? Non certo una nuova traduzione: come ho appena detto, ne avevo a iosa. Le traduzioni che ho citato sopra, però, sono casi editoriali tutto sommato abbastanza simili, di studiosi più o meno grandi, con intenti più o meno educativi. Le traduzioni, da Bontempelli a Fo, erano certo tutte diversissime, ma (a parte Bontempelli, che però è un caso particolare – e poi da un punto di vista cronologico non avrebbe avuto senso spingermi tanto indietro, per un tentativo comparatistico fra le due traduzioni) il tipo di operazione editoriale mica tanto. E trattandosi di un classico antico mi dispiaceva. Possibile che da Bontempelli in poi nessun traduttore in attività si cimentasse più sulle lingue morte (Bontempelli, come sapranno in molti, è stato anche traduttore, anche di lingue vive)? Siamo tutti così disperatamente contemporaneisti? Più ci pensavo, più rimandavo, e più mi rendevo conto che quello che mi mancava per accendere la miccia dell’analisi – e della scrittura – non era un’altra traduzione, ma un’altra «versione editoriale». Perché non c’era?

Ma anche: perché ne sentivo tanto il bisogno? Monica Longobardi non mi bastava? Certo che mi sarebbe bastata, per una recensione. Ma io non volevo scrivere una recensione. Del resto, l’ho già detto, sono un traduttore, non un latinista. Quel che volevo era provare ad ampliare, attraverso una lettura incrociata, i miei orizzonti a proposito di traduzione editoriale, ovverosia di traduzione pubblicata. Per due motivi. Il primo è che, quando si parla di traduzione, si tende secondo me a farlo un po’ troppo prescindendo dalla «vita» delle traduzioni: ossia dalla loro fortuna editoriale. Che senso ha, mi chiedo sempre più spesso, parlare di straniamento e addomesticamento, di target e source, di strategie, scopi e perfino responsabilità (se preferite: «etica») del traduttore, fuori dal peso culturale e dalle dinamiche anche commerciali della casa editrice che ne pubblica l’opera? Il secondo motivo, forse un corollario del primo, è che mi sembra sempre più velleitario e irreale parlare dell’opera di un traduttore come di un fatto singolo e indipendente. Se l’importanza degli editor, degli uffici stampa (e marketing) e dei revisori, infatti, è ormai un elemento abbastanza noto anche per quanto riguarda gli scrittori cosiddetti «originali», figuriamoci per le traduttrici e i traduttori, visto il molto minor prestigio di cui godono. E allora, se è così, un’analisi di traduzioni che si voglia un minimo concreta (se proprio non vogliamo dire onesta) dovrebbe tener conto non solo della diversa mano delle traduttrici, della loro diversa formazione e dei diversi campi di interesse e di intervento culturale, ma anche cercare di trovare versioni dello stesso «originale» inquadrate in diverse operazioni editoriali. Solo all’interno di grandi diversità, infatti, si può forse cercare di trovare qualche costante nelle strategie di traduzione. Sempre che ci sia.

Ma è molto difficile che tante condizioni di varietà si trovino tutte insieme. Per la mia esperienza, non succede praticamente mai. Eppure dove, se non in un classico? Un classico, forse, lo permetteva. Un classico lo meritava. L’unico «romanzo» della latinità classica, in effetti, lo pretendeva. Eppure la realtà non sembrava essere dalla mia parte. Forse dovevo cercare meglio, studiare di più. Anche se questo voleva dire rimandare ancora. Eppure, rimanda che ti rimanda, il dio della procrastinazione sa essere benevolo con chi lo venera. Poi, infatti, è arrivato gennaio.

E a gennaio è uscita, per Feltrinelli, non un’intera Metamorfosi, ma solo la traduzione di quel lungo brano a sé stante, quasi indipendente, che va più o meno da metà del libro IV a metà del libro VI e che tutti conosciamo più o meno informalmente come Amore e Psiche. Non solo una diversa traduzione, quindi, ma una diversa «versione editoriale», finalmente. Sempre curatissima ma più dichiaratamente commerciale (e il fatto che presenti solo una porzione dell’Asino d’oro, e non il romanzo nella sua interezza, fa parte integrante dell’operazione), con la postfazione di un latinista che è anche scrittore come Alessio Torino e con la traduzione di una latinista che è innanzitutto traduttrice. Stella Sacchini, infatti, oltre che grecista e latinista è traduttrice molto prolifica di classici moderni (Sacchini 2014a, 2016a, 2016b, 2018), nonché scrittrice di un «originale» suo (2014b). Per quanto più «commerciale», anche quest’edizione comprendeva il testo a fronte, una postfazione, un’estesa Nota alla traduzione della curatrice e apparati di note e bibliografico esaurienti. Decisi di leggerlo seduta stante. Lo feci durante il confinamento causato dal covid-19. Nel frattempo, tenevo aperti lì accanto lo stesso libro tradotto da Longobardi. È stata una lettura (anzi due) che mi ha fatto bene.

Riassumendo: adesso, per uno stesso “originale” avevo due traduttrici con formazione simile (entrambe filologhe: Longobardi romanza, Sacchini bizantina), la prima delle quali anche professoressa e appassionata di giochi linguistici, la seconda anche scrittrice e traduttrice di classici dall’inglese del XIX e del primo XX secolo; due edizioni entrambe molto curate ed entrambe d’intento piuttosto divulgativo (nel senso di non elitario) ma, diciamo così in modo rozzo, per riassumere appunto, una più «accademica» e «didattica» l’altra, appunto, più «commerciale». Insomma, ecco finalmente le mie due «versioni editoriali», oltre che traduttive. Materiale fortunatamente al contempo abbastanza omogeneo ed eterogeneo da invitare a un tentativo di analisi.

2. Intenzioni dichiarate

Compatibilmente con la diversità delle due operazioni editoriali, entrambe le traduzioni danno tuttavia voce alle autrici del testo tradotto anche al di fuori di quest’ultimo. Molto più ampio, come dicevamo (e pour cause, vista la diversità di mole del volume che, ricordiamolo, comprende tutti gli undici libri delle Metamorfosi), l’intervento di Longobardi – un’introduzione succulenta divisa in 16 capitoletti su cui torneremo in modo più diffuso –, più contenuto – la sua Nota alla traduzione che segue la postfazione è di ben due terzi più corta (che non sono molti, però, rispetto alla differenza proporzionale dei testi tradotti) – quello di Sacchini, ma in entrambi i casi fonte interessante – indispensabile per chi, come il sottoscritto, amerebbe sempre poter leggere due parole dei traduttori su quanto hanno fatto – per capire sia le intenzioni delle curatrici (per lo meno quelle dichiarate) sia per così dire le loro «priorità», o meglio quei lati, quegli aspetti del testo “originale” e di quello “tradotto” che sono sembrati loro degni di esser menzionati, quindi le hanno forse colpite di più, nel proprio e nell’altrui lavoro – o per dir meglio ancora: nel proprio lavoro sul lavoro altrui.

Questo spazio di riflessione delle traduttrici vorrei considerarlo un punto di partenza tout court, una cartina di tornasole per verificare se quanto ho letto io nelle traduzioni è lo stesso che ci hanno visto loro: adesso quanto alle intenzioni, in seguito quanto al loro lavoro visto più da vicino, come ricreazione di lingue e di culture.

Mi sia permesso però di spezzare subito una lancia in favore delle introduzioni, postfazioni, note che dir si voglia. Al di là della loro innegabile rilevanza critica e didattica, una breve pagina dei traduttori a me sembra dovrebbe essere richiesta per contratto. In fondo parliamo di testi «manipolati» (per dirla con Lefevere 1998, tradotto da Silvia Campanini). E se è pur vero che la traduzione è un lavoro creativo e non è detto sia per forza dovere dell’artista spiegare la sua opera (per quanto mi piacerebbe sempre sapere che ne pensa), personalmente sono convinto con Haroldo de Campos (2006, 35 e 46-47) che la traduzione di testi creativi comporti un’operazione tanto di critica quanto di (ri)creazione, e da questo punto di vista secondo me sarebbe bene che nessun traduttore si sottraesse a un minimo di spiegazioni almeno quanto al primo punto. Ma ritorniamo alle intenzioni dichiarate dalle traduttrici.

Significativamente Longobardi intitola la sua introduzione Il voto a Vertumno (dio etrusco del cambio di stagione che i Romani, adottandolo, fecero derivare da vertere facendolo presiedere definitivamente e per antonomasia a ogni metamorfosi) e dichiara subito, già richiamando la sua traduzione del Satyricon, che il suo «lavoro è centrato sull’obbiettivo di fornire una traduzione quanto più adeguata [al testo fonte] ma anche volta a ricrearne gli effetti stilistici nella lingua d’arrivo» (2019a, XV), per poi, dopo aver ricordato la giocosità per così dire plurisemica e la ricchezza stilistica caratteristiche di Apuleio, dichiarare francamente, citando il Calvino della traduzione delle Fleurs bleues di Queneau, di non voler resistere alla «traduzione inventiva o reinventiva» (2019a, XX-XXI) e di essersi cimentata perciò nel «ricreare quelli che sembrano “gli incurabili” della traduzione: paretimologie, paronomasie, figure di suono […], sia dov’esse si attestano distinte già nell’originale, che altre ricreate per intento di compensazione» (2019a, XXX).

Fermiamoci un attimo, perché qui c’è un’apparente contraddizione. Se infatti seguiamo la lettura che Bruno Osimo dà dei concetti di «adeguatezza» e «accettabilità» coniati da Gideon Toury (Osimo 2011, 107), un metatesto letterario difficilmente sarà adeguato (cioè «incentrato sulla cultura emittente»: Osimo 2011, 260), bensì, proprio in quanto comporta una «creazione», sarà «più probabile che la strategia sia improntata all’accettabilità» (Osimo 2011, 107) ovvero a quella «concezione del processo traduttivo orientata alla cultura ricevente» (Osimo 2011, 260).

Sulle definizioni siamo ovviamente tutti d’accordo, però non nascondiamoci dietro un dito: questa di adeguatezza e accettabilità è una delle forme con cui si dispiega, rinnova e perpetua la ormai bimillenaria polemica tra cosiddetti «letteralisti» e… «liber(al)isti»? «cultur(al)isti»? «addomesticatori»? «adattatori»? «sensisti…»…? Insomma, la ormai bimillenaria, guerrafondaia dicotomia tra sensus e verbum, dei cui vari partigiani il tacere è bello – non perché non fossero o non siano persone e pensatori intelligenti, ma perché mi sembra che con questa guerra (peraltro di solito portata avanti più che altro dagli epigoni) sia ormai davvero giunto il momento di farla finita. Forse non serve, ma ricordo lo stesso che – secondo la vulgata – la lettera è vessillo di teorici e studiosi, il senso di traduttori più o meno militanti, più o meno professionisti. Mi sembra quindi degno di nota che una studiosa accomuni creazione e adeguatezza, addirittura spingendosi fino al limite dell’indecenza traduzionale (per così dire) col dichiarare di voler ricorrere «alla memoria poetica della posterità del testo» intessendo la sua «scrittura con le versioni apuleiane fatte nel tempo dagli autori che tradussero o rielaborarono Apuleio e che più abbiamo amato» (2019a, XXIX-XXX). Un uso della tradizione d’arrivo, dunque, per di più dichiaratamente soggettivo, che scandalizzerebbe, sempre secondo la vulgata, qualsiasi letteralista.

È invece intenzione di questo letteralista inadeguato (nel senso che secondo me non si può non partire dagli «incurabili della traduzione», cioè dal corpo vero e proprio della lettera del testo fonte, ma – se gli si vuol tributare il rispetto che meritano – proprio allo scopo di rilavorare il corpo del testo d’arrivo nel modo più vicino possibile a come è stato lavorato il corpo del testo fonte) innanzitutto andare a vedere se e come è stato dato seguito a questa dichiarazione di intenti. La seconda cosa da verificare è se non sia inadeguato (o quanto meno riduttivo) adottare qui il concetto di compensazione, definito ancora da Osimo come quel «principio traduttivo in base al quale il residuo […] è compensato, per approssimazione, in base a considerazioni soggettive, […] in altra zona» (Osimo 2011, 270; corsivo mio).

La cosa mi sembra tanto più interessante in quanto Longobardi, tra le sue dichiarazioni di intenti, non omette quella didattica, anzi la esplicita e non solo in ambito universitario ma ricordandone la valenza fecondissima anche per le superiori. L’autrice della traduzione ha insegnato in questo tipo di scuola e fa veramente piacere vedere una docente universitaria valorizzare questa sua esperienza pregressa (2019a, CII-CV). Significa che, secondo questa traduttrice che ricerca e insegna, una pratica traduttiva creativa vale la pena di essere insegnata come «adeguata». Un’affermazione decisamente eretica, secondo appunto la vulgata guerreggiante e guerrafondaia tra partigiani della «lettera» e del «senso», che merita di andare a verificare. Ma vediamo prima se gli intenti dichiarati dell’altra traduzione, così diversa almeno dal punto di vista dell’operazione editoriale, si avvicina a queste dichiarazioni o se ne distacca, e di quanto.

La Nota alla traduzione di Stella Sacchini, che – coerentemente con l’operazione editoriale in cui è inserita – si trova in fondo (così da far entrare subito i lettori in medias res anche dal punto di vista editoriale, oltre che testuale), ha come titolo Il rovescio dell’arazzo, citando subito, nelle parole di Vittorio Bodini (1994, II, 1102), il Cervantes deprecatore delle traduzioni, in un’apparente excusatio non petita che sembrerebbe dover preludere ai soliti lai del traduttore inadeguato in procinto di giustificarsi per non essere stato all’altezza e chiedere pietà al lettore in vario modo. Invece no. Tutto il contrario.

Tanto per cominciare, Sacchini passa le prime due o tre pagine a parlarci di bellezza, sotto diversi aspetti, per sostenere, con Alessandro Fo (2014), che la bellezza è il cuore, oltre che il sostrato, di questa favola al cuore del romanzo apuleiano. Partendo dall’aggettivo latino usato da Apuleio (o meglio dalla narratrice della cui voce l’autore si serve in questo caso per parlare) per descrivere la storia di Amore e Psiche subito dopo aver finito di raccontarla (bella fabella), passando per i diversi aspetti lessicali e semantici del termine nella linguacultura fonte, Sacchini arriva là dove Longobardi era partita, ovvero allo stile precipuo di questo autore – ed è una intertestualità a sua volta bellissima e tutta interna alle due autrici delle traduzioni che Sacchini usi, per descriverlo, parole della Longobardi stessa: «l’autore che più si inerpica su giochi di parole acrobatici, sofisticati, e di conseguenza molto elusivi» (Longobardi 2013, 97, citato in Sacchini 2020, 145).

Tutto ciò per dirci che – al contrario di quanto quell’arazzo al rovescio di cui al titolo poteva farci sospettare – la traduttrice non cerca di nasconderci il suo intervento né di sottrarsi neanche un minimo alle sue responsabilità. Chi si trova a tradurre un libro del genere, se vuole restituire «una scheggia di tutto questo» deve, per Sacchini, «lasciarsi alle spalle il fantasma della fedeltà e correre molti rischi, sporcarsi le mani, fallire sempre meglio […]. Porsi sotto l’insegna di Vertumno […] ed esercitare la più metamorfica delle arti, quella della traduzione» (2020, 146, corsivo mio). Ma c’è di più.

Il traduttore sa che non potrà mai esserci un accordo perfetto tra il testo di partenza e quello di arrivo, che il primo ci perderà sempre qualcosa e il secondo, di conseguenza, dovrà sempre metterci del suo. È questo il caso: quando il testo di partenza ce ne dà l’occasione, dobbiamo osare e ri-creare in quel punto del testo qualcosa che è andato perso altrove, sicuri di non far torto all’autore, visto che è stato proprio lui a mostrarci la strada, a insegnarci come si fa. (Sacchini 2020, 149-150; corsivi miei)

E l’intera nota finisce con un consiglio (ai lettori, ai traduttori, a chiunque, per dirla con Sacchini, vada incoraggiato «a intraprendere comunque il viaggio»): noli timere (Sacchini 2020, 161: non aver paura).

Eccone quindi un’altra che sostiene, seppure forse in modo meno esplicito, che per essere adeguati (all’insegnamento dell’autore, per lo meno, che mi sembra tutto sommato meno «soggettivo» di qualsiasi idea possiamo esserci fatti su di lui) è necessario «metterci del nostro» e «ricreare» «qualcosa che è andato perso altrove» (cosa che mi sembra un buon punto di partenza, e anche piuttosto adeguato, per ridefinire la «compensazione»).

Ricapitolando: abbiamo due operazioni editoriali diversissime, con due autrici delle traduzioni diverse in parte per formazione e moltissimo per interessi e area di specializzazione, che però, almeno a quanto sembra, fanno la stessa dichiarazione di intenti: non aver paura di esser soggettive, né di essere creative, perché è questa l’essenza stessa di questa letteratura che vanno traducendo.

Secondo Terrinoni, «l’arbitro dell’interpretazione» (Terrinoni 2019, 141) coincide alla fin fine forse con un paradosso: una sorta, per così dire, di soggettività aumentata, un processo che è giustificato non da regole precostituite ma da quanto riesce a suscitare, a far nascere oltre il suo confine, che è forse proprio quello che lui chiama il «letterario» (2019, 11-52 e passim). Ecco, mi sembra che queste due «tradautrici», come le chiamerebbe Terrinoni (2019, 134), per la prima volta – a quanto mi consta – in modo molto esplicito e con parecchia cognizione di causa compiano entrambe, nonostante la fondamentale diversità delle operazioni editoriali in cui si iscrivono le loro rispettive opere di traduzione (e vale la pena insistere su questo fatto, perché renderebbe, se riuscirò a dimostrarla, ancora più interessante questa identità), un tentativo inusuale: scardinare la solita dicotomia lettera-senso per dire, innanzitutto, che non c’è senso senza lettera e che, di conseguenza, bisogna ridare senso alla lettera, al corpo del testo cosiddetto «di arrivo», non solo da un punto di vista esegetico – cioè di tutti quei tipi di apparato di cui pure le due si servono abbondantemente –, che da solo semplicemente non ha senso (di nuovo, scusate il bisticcio: a quanto pare non se esce, parlando di traduzione si finisce pun-iti per forza), ma anche (anche qui non solo, ma certo non meno) da un punto di vista creativo. Le due cose – ci dicono le traduttrici inserendosi così decisamente nella linea di pensiero di Haroldo de Campos –, se si vuole essere onesti quanto al tradurre, semplicemente non sono scindibili.

Almeno nelle intenzioni. Andiamo a vedere nella pratica.

3. Proponimenti praticati

3.1. Addomesticamenti strani, domestici straniamenti

Cominciamo dall’inizio. Anche se l’inizio della favola non è l’inizio del romanzo, né l’inizio del libro (il IV) in cui comincia, né tanto meno l’inizio di un’avventura, visto che anzi la spezza. Siamo al centro di una storia che sta al centro di un libro che sta al centro del racconto. Al centro del centro del centro. Dico questo perché, nella traduzione di Longobardi di tutto L’asino, ci arriviamo a metà pagina, con un semplice cambio di capoverso (il 28°), mentre per quanto riguarda La favola di Amore e Psiche di Sacchini ci entriamo subito, ad apertura di pagina dopo il frontespizio, con il solo titoletto LIBRO IV e il segno grafico «[…]» per dirci o ricordarci che (filologicamente) non cominciamo proprio dall’inizio. Ma tipograficamente sì, mentre nel primo caso no. E c’è differenza, per il lettore.

Senza dimenticare questa differenza, ma per il momento al di là di essa, proviamo a mettere a confronto i due, anzi i tre «incipit». Eccoli.

«“C’era una volta, in una città della terra, un re e una regina. Costoro avevano tre figlie e tutte e tre una bellezza.» (Longobardi 2019a, 165).

«In una città vivevano un re e una regina. Avevano tre figlie che non passavano certo inosservate […]» (Sacchini 2020, 9).

“Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias forma conspicuas habere. […]” (Apuleio, VI, 28)

Siamo di nuovo al centro della bellezza, anzi, con la bellezza al centro, anche da un punto di vista semantico, come ci diceva (anzi ci dirà: arriva alla fine del libro, come è bene ricordare) Sacchini all’inizio della sua «nota»: conspicuus, «vistoso» secondo il Dizionario Latino Olivetti online, o, per dirla con l’Oxford Latin Dictionary, striking [in appearance] (Sacchini 2020, 139).

Ma prima della bellezza, c’è l’attacco del racconto. Longobardi comincia in modo che più classico non si può, come tutte le fiabe almeno da Basile in poi, come si potrebbe dire che fa anche Apuleio (erant) ma come tutto sommato è tipico della tradizione italiana, più che latina. Una sorta di addomesticamento diacronico, se vogliamo, la solita captatio benevolentiae del lettore che – secondo tutta la tradizione straniante – sarebbe uno dei peggiori tradimenti. Molto più onesta – e letterale – Sacchini, che traduce quello che c’è scritto senza vellicarci comodità tradizionali. Ma è proprio così? Non è forse strano quel «C’era una volta» così, a metà pagina, di Longobardi? E quel «in una città della terra» che in Longobardi traduce quadam, non è forse più straniante del semplice «in una città» di Sacchini?

Allora chi è più straniante, chi più addomesticante? Ma le contraddizioni apparenti non finiscono qui. Torniamo alla bellezza, o, se si preferisce, alle «forme cospicue».

Su questo punto, ancora una volta e ancora a prima vista, sembra Sacchini la più «letterale», con il suo «che non passavano […] inosservate», sebbene alcuni puristi della lettera troverebbero probabilmente intollerabile quel «certo» che ho infatti pietosamente (o)messo tra quadre. Longobardi, al contrario, con la sua metonimia per di più non concordata (se non forse a senso, con il collettivo «tutte e tre»), si sposterebbe intollerabilmente (sempre per i puristi del letterario) verso un colloquialismo molto orale. E tuttavia Sacchini, con il dodecasillabo che chiude la sua seconda frase – la quale risulta così composta da un settenario più un doppio senario – si mostra molto più «scorrevole» in lettura, mentre peraltro Longobardi, con quel «costoro» in attacco, sembra volerci allontanare dal nostro parlato quotidiano.

E allora, di nuovo? Di nuovo, chi ha ragione? Quale delle due traduttrici è caduta (più volte) in contraddizione, quale ha sbagliato, nel senso che ha tradito, o si è tradita? Dipende dal pregiudizio che ci muove. Se vogliamo decidere da prima come una traduttrice si comporta, o come dovrebbe comportarsi, sarà facile coglierla in contraddizione. Meno lo è, forse, cercare di districarsi nell’apparente contraddittorietà (ma preferirei dire «molteplicità») di ogni testo creativo (“tradotto” o “originale”) per tirare almeno parte delle fila, della trama e dell’ordito (il rovescio, ancora, dell’arazzo – che è forse quanto ci interessa di più), di ciò che chi l’ha scritto ha fatto di quel testo.

In questo breve incipit oso ipotizzare, per esempio, che Sacchini, proprio grazie a quel «certo», da me così incautamente omesso, con cui costruisce quel doppio senario così musicale («che non passavano / certo inosservate»), abbia voluto costruirci un artificio («compensazione»?) che ci restituisce, guarda caso, parte di un «incurabile» traduttivo, per usare le parole di Longobardi: nel nostro caso l’allitterazione forte in F ed S filias formas conspicuas. Longobardi, per converso (o per coerenza), accostando la metonimia «colloquialista» al suo «costoro», costruisce coi nostri pregiudizi un perfetto chiasmo: «c’era una volta»-«città della terra» // «costoro»-«una bellezza» (addomesticamento-straniamento // straniamento-addomesticamento). È molto semplice, in realtà: per farla breve, entrambe le traduttrici giocano. Con il testo, con i testi, con la pratica e con le teorie della traduzione.

Ma non voglio nascondermi nemmeno io. Certo, lo so bene, mi si potrebbe accusare di un’analisi così ravvicinata da rischiare di risultare pretestuosa. Se si scompone una frase in tal misura, si rischia di poter dire tutto e il contrario di tutto. Ma in questo caso, lo confesso, le traduttrici mi hanno molto aiutato (ed è il motivo per cui tanto caldeggio un paratesto – per quanto breve – in ogni traduzione: un’introduzione, una postfazioncina, una NdT che dica, almeno in parte, quel che il traduttore sa di ciò che ha fatto). Nella loro introduzione e nota, infatti, rispettivamente, Longobardi e Stacchini ci avevano avvertito, senza nessuna scusa. «Questa mia [versione] dell’Asino d’oro tende ad essere fraseologica […]. […] il lessico di Apuleio è qua e là colorato di regionalismi, in quota nel sermo cotidianus / familiaris» (Longobardi 2019a, XXVII). «Apuleio […] sembra volerci ricordare che il primo, più immediato livello di fruizione […] è quello del puro piacere dell’ascolto» (Sacchini 2020, 138).

Cioè, sempre se leggo bene: la capacità di mettere comodo il lettore – vuoi per mezzo dell’imitazione di un’oralità, vuoi attraverso l’imitazione di una tradizione comune – non serve ad «addomesticare» proprio niente, ma anzi a preparare o a ultimare, a seconda, le diverse “scomodità” (straniamenti?), o insomma le novità creativamente letterarie di cui l’autrice di volta in volta dissemina il testo. Nello specifico: l’incipit diacronicamente «posteriore» di Longobardi, schiaffato lì a metà pagina e a metà testo, da una parte “scomoda” il lettore facendogli riconoscere una tradizione da cui proviene ma nel posto sbagliato, e però dall’altra lo aiuta, anticipandolo, a meglio godersi l’andamento per così dire da comari con cui chiude la frase; per converso (anzi, meglio: con altri mezzi ma allo stesso scopo, o quanto meno con lo stesso effetto), l’incipit più «letterale» di Sacchini serve da una parte ad anticipare la traduzione etimologica di quel conspicuus che però, dall’altra, va a inserirsi in una costruzione del personaggio (le sorelle) già denigratoria.

La cosa affascinante non è tanto che lo fanno entrambe con mezzi eminentemente retorici (what else?, per riecheggiare una pubblicità ormai storica: in fondo, parliamo di letteratura…), né che entrambe lo annuncino nei loro paratesti; ma che entrambe, con mezzi tanto diversi, per non dire speculari, dipingano una temperie «da cortile» che tanta fortuna avrà nella tradizione dei rifacimenti di Apuleio e che trova il suo rappresentante forse per antonomasia in La Fontaine (di cui infatti proprio qui Longobardi – 2019a, 588 – cita ampiamente in nota il brano che ricalca l’incipit della fabella apuleiana).

Cos’altro è, tutto ciò, se non un lavoro di trama e ordito nel campo, appunto, della bellezza? Nessuna contraddizione, dunque, ma costruzione che intesse insieme, nel testo, creatività ed esegesi. Non è forse questa l’utopia traduttiva di De Campos? E non è questo, forse, il «letterario» di cui parla Terrinoni?

3.2. Traduzioni di tradizioni

Concentriamoci un momento su Longobardi, che più apertamente si sofferma sulla (apparente) contraddizione tra adeguatezza e creatività. Non solo dal punto di vista del suono, dei giochi segnici e semici, di idiotismi, idiomatismi e “famigliarismi” – che sono un po’ lo specifico di questa traduttrice – ma addirittura da quello delle tradizioni incrociate (o del «culturalismo»?) che, per riprendere l’immagine cervantesiana cara a Sacchini, si intrecciano e così intessono la trama di questa traduzione.

Tipicamente, e storicamente, l’«equivalenza culturale», forse ancor prima e ancor più che semantica, è fumo negli occhi per i partigiani dell’«altro», che andrebbe ricalcato pari pari, naturalmente con tutte le spiegazioni del caso nei vari paratesti. Esegesi, dunque, senza creazione. E invece.

Invece, sostiene Longobardi, o almeno così mi sembra, non c’è adeguatezza se non si parte da sé. Tant’è che dedica ben due capitoletti della sua introduzione a quella bestiola tanto controversa che frequentiamo sotto il nome di «intertestualità». Rifacendosi a Franco Buffoni (2016), Longobardi dice subito di abbracciare già da diverso tempo «la convinzione […] che anche la traduzione non sia che una lunga citazione e che quella letteraria si alimenti dalla letteratura come sistema». E non fa mistero di quali saranno le sue intertestualità, quelle da cui ha attinto le sue «parole rubate»: Pascoli, naturalmente, non solo per i suoi Poemi di Psiche ma anche in quanto «poeta del fonosimbolismo»; ma senza dimenticare Dante, e Basile, e D’Annunzio, e Pirandello, e Gozzano, e Proust (Longobardi 2019a, LXX e LXXIV-LXXVIII). E senza dimenticare una tradizione già cara ad Apuleio, per esempio Catullo. Ma non basta, perché Longobardi sa, e dichiara che, pasolinianamente (o, se si preferisce, oggi: ernauxianamente), le intermittenze del cuore sono a volte anche più forti se suscitate da richiami di cultura popolare, per cui la traduttrice non si perita di arrivare a risonanze alla Tim Burton e addirittura a Pietro Trombetta interpretato da Buscaglione e a Domenico Modugno (Longobardi 2019a, LXX), fino a un vertiginoso gioco di specchi sulla pagina che ci rimbalza da Pascoli a Paolo Conte.

Messa così sembra uno scempio, vero? Eppure. Eppure, se non ci limitiamo al paratesto ma ci spingiamo a leggere il testo, anzi di più: se facciamo l’esperimento di leggere la traduzione di Longobardi prima dei paratesti, prima delle note, delle esegesi, delle spiegazioni (che pure sono molto necessarie, e infatti non mancano), ci troveremo a leggere cose così:

«[…] cercherò di svagarti con una bella novella di quelle che sanno “le vecchie pe trattenemiento de piccerille”.» (Longobardi 2019a, 165: […] ego te narrationibus lepidis anilibus que fabulis protino avocabo, in Apuleio, IV, 27);

«Quanta tristezza, lacrime e lamenti […]! Ma dura lex sed lex: urgono i preparativi per il tetro evento […]» (Longobardi 2019a, 173: Meretur, fletur, lamentatur […]. sed dirae sortis iam urget taeter effectus, in Apuleio, IV, 33)

«[…] serrarono le porte della loro magione, per consegnarsi alle tenebre e per loro “nox est perpetua una dormienda” […]» (Longobardi 2019a, 177: […] clausae domu abstrusi tenebris, perpetuae nocti sese dedidere, in Apuleio, IV, 35)

«Ed ecco che questo popolo esapode si riversa là, onda su onda […]» (Longobardi 2019a: 235: Ruunt aliae superque aliae sepedum populorum undae […], in Apuleio, VI, 10)

«[…] racqueta di Cerbero le bramose canne; […] così riuscirai a riveder le stelle […]» (Longobardi 2019a, 247: […] canis saevitiam […] redime; […] ad istum caelestium siderum redies […], in Apuleio, VI, 19)

Solo pochi esempi, per dare l’idea del tipo di effetto che può dare chi sa giocare con le intertestualità (nell’uno e nell’altro senso). E ho volutamente omesso la copia di citazioni «alla memoria poetica della posterità del testo» (Longobardi 2019a, XXIX), per cui la scrittura di Longobardi si va intessendo di brevi brani dalle altre versioni apuleiane, sempre tra «quelle che più abbiamo amato» (Longobardi 2019a, XXX), cioè sempre partendo da sé, inserendosi così in quella scuola traduttiva – la cui pioniera credo sia Susanna Basso – che «[tiene] conto del lavoro di una collega e “adott[a]” le sue parole che sent[e] di non volere diverse» (Basso 2010, 128).

Avrete già notato tre cose.

Primo: non c’è alcuna «corrispondenza» con gli «originali»: si tratta di pura inventio, tutta interna al testo tradotto. Qualcuno dirà: «Eh, ma l’originale dice un’altra cosa». Linguisticamente, certo. Ma questi «cambiamenti» restituiscono anzi ricreano, a mio parere, la forma e il contenuto della lingua di Apuleio presa in toto, come un insieme retorico. Sarà pur vero che non c’è corrispondenza, ma ci sono – finalmente – le correspondances care a Baudelaire.

Secondo: il gioco è tanto scoperto che i corsivi sono tutti nel testo. Motivo che conferma quanto dicevo prima: il gioco intertestuale non soltanto è voluto. È segnalato.

Terzo: l’altalena di citazioni è davvero nell’uno e nell’altro senso, per cui se ci son Dante e Buscaglione c’è anche Catullo in originale, per cui dura lex sed lex traduce, o meglio intensifica la traduzione, di urget.

È tradimento? Certo, da un punto di vista storico e linguistico. C’è dentro Apuleio, coi suoi giochi intertestuali? Indubitabilmente. Ma soprattutto, è bello? Ci convince? È «letterario» (nel senso proposto da Terrinoni)? Siano i lettori a giudicare. Io mi fermo qui.

Sacchini su questo punto è più reticente e tendenzialmente si limita a evidenziare un’intertestualità per così dire pregressa. Nella Nota fa riferimento soprattutto al Fedro di Platone (Sacchini 2020, 128, 143), e nelle note al testo cita Lucrezio, Ovidio, ancora Platone, Virgilio, Apollonio Rodio… (2020, 111-120). Eppure il suo testo ci dà del tu non meno di quello di Longobardi. Soltanto che la tecnica è diversa.

Nella versione di Sacchini, a dire il vero, l’intertestualità non manca – un solo esempio: «questi occhi che ti amano tanto» (Sacchini 2020, 59: non c’è bisogno di dire che è un verso appena appena rimaneggiato da Lontano lontano di Luigi Tenco, vero?), che traduce istos amatores tuos oculos (Apuleio, VI, 24). Ma è un gioco sottotraccia, che lavora più sull’inconscio del lettore. La sua strategia più scoperta, dichiarata, è, secondo me, quella dei registri. Sacchini vuole scaraventare il lettore italiano dentro la gigioneria apuleiana dell’uso. Qualche esempio.

«[…] spengono in loro ogni barlume di speranza, riaprendo la dolorosa ferita» (Sacchini 2020, 39: […] redulcerato prorsum dolore raptim deterrentes, in Apuleio, V, 11)

«[…] che il clamore suscitato da quello spettacolo straordinario riuniva lì a frotte adoranti» (Sacchini 2020, 9: […] eximii spectaculi rumor studiosa celebritate congregabat, in Apuleio, IV, 28)

«Compiuti nello sconforto più totale i preparativi solenni per quel talamo ferale» (Sacchini 2020, 17: Perfectis igitur feralis thalami cum summo maerore solemnibus, in Apuleio, IV, 34)

«[…] incapace di contenere lo sdegno, borboglia fra sé e scuote il capo» (Sacchini 2020, 11: […] impatiens indignationis capite quassanti fremens altius sic secum disserit, in Apuleio, IV, 29)

Nel primo caso riscontriamo la coppia «barlume di speranza // dolorosa ferita» (che traduce, peraltro, il raro termine specialistico d’ambito medico redulcerato, per cui potremmo anche ravvisare una corrispondenza con lo stesso punto dell’“originale”. Ma, come dicevo prima, non è questo il punto: non siamo qui per riscontrare puntuali corrispondenze linguistiche, ma per ravvisare corrispondenze d’amorosi sensi tra testi: sono due cose diverse. Nel secondo, ecco la mescolanza di registro «clamore suscitato // spettacolo straordinario-frotte adoranti». Quanto al resto, i contrasti sono talmente conclamati che lascio il divertimento all’occhio del lettore.

Intendiamoci. Non che Longobardi non usi anche la strategia della mescolanza di registri (eccome!, lo vedremo tra poco), proprio come Sacchini sa usare anche lei (lo abbiamo visto poco fa) il gioco intertestuale più sfacciato. Ma in questo momento ci interessano le strategie scoperte, le più apertamente dichiarate, come dicevo prima. Questo ci ricorda, incidentalmente ma neanche troppo, che la creatività di ogni traduttore si esprime, evidentemente, in punti diversi del testo tradotto. Ecco perché, per me, non ha molto senso comparare le rispettive rese delle singole frasi una per una. Non che voglia sottrarmene: lo abbiamo fatto insieme all’inizio di questa analisi, ma non è la cosa più importante. Sono una curiosità divertente e senz’altro sempre utile, ma non ci dicono molto dal punto di vista che mi preme. Quello che mi interessa è trovare i punti dove le traduzioni si parlano, si corrispondono a vicenda. E questi non si trovano nelle traduzioni di una stessa frase dell’“originale”, ma nelle stesse strategie di traduzione, riscontrabili appunto in brani anche molto distanti (seppur non sempre) dei testi “d’arrivo”. Per cercare di metterla nel modo più chiaro e sintetico possibile: quest’analisi non si vuole linguistica, bensì retorica.

3.3. Lingua nostra, lingua altrui, lingue di tutti

Qui siamo al centro del laboratorio, sia di Apuleio sia delle nostre due «tradautrici», e mi scuso fin d’ora se, nella messe veramente copiosissima di esempi possibili, andrò a proporne alcuni pochi, sempre troppo pochi. Entrambe le traduttrici, sia per indole che per intenzioni dichiarate, lo abbiamo visto, si sono cimentate in profondità con i giochi linguistici, o forse sarebbe più giusto dire che hanno praticato a fondo il gioco con le lingue, e coi linguaggi. Visto che ci siamo appena lasciati con Longobardi, ricominciamo da Sacchini.

Parlando del lessico giuridico in Apuleio, Sacchini avverte che se «[…] la commistione stilistica ed espressiva […] sembrerebbe […] risolversi nel piacere puro della creazione linguistica», tuttavia «[…] il continuo sovrapporsi di prospettive e di paradigmi conoscitivi […] sembra suggerire al lettore che non esiste un’univoca chiave di lettura della realtà» (Sacchini 2020, 159-160). Anche Longobardi richiama la nostra attenzione sui «giochi di suono e di senso» (Sacchini 2019a, LVI, corsivo mio).

Con piglio estremamente sicuro, nessuna delle due autrici delle traduzioni prese in esame sembra mai considerare un gioco linguistico come un fatto formale. Al contrario, prendono il gioco come un segnale serissimo dal punto di vista espressivo, e sembrano considerare la sua ri-creazione parte integrante del loro lavoro, addirittura una questione etica: se fossimo in un contesto un po’ più protestante e non avessi paura di suonare savonaroliano, direi addirittura un dovere. Un dovere nei confronti del loro mestiere, del nostro mestiere, che consiste forse soprattutto nella responsabilità sottile d’intendere (ciascuno a modo suo, ça va sans dire) e poi di riprodurre (ancora critica, ancora esegesi, ma al servizio dell’atto creativo) le giunture, i punti critici, i modi e i moti più vibratili, il fulcro, insomma, dell’espressività dell’autore che si traduce.

4. Esempi di gioco linguistico

Sia per Longobardi sia per Sacchini, quanto ad Apuleio, non c’è dubbio che il gioco linguistico, «di suono e di senso», sia al cuore dell’espressività di questo autore. Tutte e due, perciò (non prime e non da sole, certo: entrambe riconoscono ampiamente di entrare in un solco aperto da Alessandro Fo), si cimentano, si divertono, studiano e sudano per ricreare proprio questi aspetti. Vediamone alcuni.

4.1. Allitterazioni, paretimologie, giochi semantici, onomatopee

«[…] mira e rimira le armi del marito» (Sacchini 2020, 57: […] rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma, in Apuleio, V, 1);

«[…] le fruttò sul velluto una refurtiva di fulva lanugine d’oro» (Longobardi 2019a, 237: […] furatrina facili flavens auri mollitie, in Apuleio, VI, 13);

«I pavimenti, poi, sono in pietra preziosa tagliuzzata» (Sacchini 2020, 23: Enimvero pavimenta ipsa lapide pretioso caesim, in Apuleio, V, 1);

«[…] facendo la guardia all’atro antro […] custodisce senza tregua i vani vani» (Longobardi 2019a, 247: […] et atria atra […] excubans servat vacuam […] domum, in Apuleio, VI, 19);

«[…] divampò […] la fiamma del desiderio per il dio che il desiderio ce l’ha scritto nel nome» (Sacchini 2020, 57: […] magis magisque cupidine flagrans Cupidini, in Apuleio, V, 23);

«[…] questa seconda prova non le assecondò i favori» (Longobardi 2019a, 239: Nec tamen […] secundi laboris periculum secundum testimonium meruti, in Apuleio, VI, 13);

«Così ciangottava l’uccello ciarliero e curioso […] – ciirp ciirp ciirp» (Sacchini 2020, 67: Haec illa verbosa et satis curiosa avis […] ganniebat, in Apuleio, V, 27);

«[…] un fiore di figliola con i controfiocchi» (Longobardi 2019a, 251), […] puella praepollet pulchritudine, in Apuleio, VI, 22).

4.2. Idiotismi, colloquialismi, mescolanze linguistiche e di registro

«[…] gemente nel lettone di mammà» (Longobardi 2019a, 215: […] thalamo matris iacens ingemebat, in Apuleio, V, 28);

«[…] figlio alato e un po’ pazzerello, che […] se ne frega della morale pubblica» (Sacchini 2020, 13: […] puerum […] pinnatum illum et satis temerarium, qui […] contempta disciplina publica, in Apuleio, IV, 31);

«[…] in pieno sbocco di bile» (Longobardi 2019a, 189): […] gliscentis infidiae felle, in Apuleio, V, 9);

«[…] la notizia si era allargata a macchia d’olio» (Sacchini 2020, 27: […] latiusque porrecta fama […] cuncta, in Apuleio, V, 4);

«[…] e il marito, malgré lui, si lasciò vincere» (Longobardi 2019a, 187: […] invitus succubuit maritus, in Apuleio, V, 6);

«Brutto schifoso! Che ti credi, eh […]» (Sacchini 2020, 69: Sed utique praesumis, nugo et corruptor et inamabilis […], in Apuleio, V-29);

«[…] questa non è farina del tuo sacco, brutta incapace» (Longobardi 2019a, 235: […] nec tuarum manuum istud opus, in Apuleio, VI, 11).

Mi fermo, ma gli esempi potrebbero riempire molte pagine.

Direi che, così a naso, Sacchini preferisce i colloquialismi e le mescolanze di registro, mentre Longobardi è più amante di un vertiginoso gioco citazionale, di idiotismi e ibridazioni linguistiche. Ma è solo una sensazione, che andrebbe corroborata da uno studio più approfondito. Ciò su cui non mi sembra invece sussistere alcun dubbio è la sostanziale identità di impegno nell’intessere il testo di mutamenti linguistici e semantici (ancora l’arazzo, ancora Vertumno). Come se la mutazione stessa fosse il cuore dell’atto traduttivo. E come dar loro torto? In fondo, traducendo, non cambiamo forse tutte le parole…?

Tanto è così, che la compensazione non è più tale, ma diventa occasione di spostamento semantico, come in questo caso già citato sopra:

[…] rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma (Apuleio, V, 23), diventa:

«[…] mira e rimira le armi del marito» (Sacchini 2020, 57), e «[…] si mangia con gli occhi e palpa le armi del suo sposo» (Longobardi 2019a, 209).

In questo brandello di frase si vede benissimo cosa leggono, o meglio cosa vogliono far risaltare, del latino, rispettivamente le due traduttrici: per Sacchini è l’erotismo della lingua, per Longobardi la lingua dell’erotismo. Devo proprio sceglierne una? O peggio: davvero devo scegliere quale è più «fedele», o «letterale», rispetto al testo di Apuleio? Non ci sono, forse, nel latino di Apuleio, nella sua semantica e nella sua fonologia, entrambe le cose? E non sono le due traduzioni a confronto, entrambe, con le loro rispettive scelte (o, se preferite: «infedeltà»), a distillarcene il succo più puro e dolce (entrambi aggettivi fondamentali, se con De Campos non vogliamo rinunciare né alla critica né alla creatività)?

Ecco che allora la compensazione, la mescolanza linguistica, il gioco, soprattutto il gioco, diventano non intollerabili «libertà», non tradimenti, ma vera esegesi agita, critica in atto: l’atto di creazione. Per quanto io provi a capire le ragioni del letteralismo della lingua con la creatività spiegata in nota, continuo a non saper trovare modo migliore per descrivere il più profondo e onesto gesto traduttivo degli esempi che ho elencato sopra. Ma se traduzione di testi creativi deve essere, secondo me non c’è molto da discutere. Si fa così.

Per tornare alla verifica di un’identità di atteggiamento ipotizzata in partenza, dopo quanto abbiamo visto si può forse dire che in queste due operazioni editoriali così diverse, e al di là delle differenze tra le due traduttrici, la loro posizione nei confronti della lingua (di “partenza” e di “arrivo”), dei linguaggi, dell’intertestualità, dei giochi linguistici, degli spostamenti semantici e culturali, si può dire, insomma, che la loro «strategia» sia pressoché la stessa? La mia risposta è sì. È quanto le due «tradautrici» mi sembrava avessero detto di voler fare nei loro paratesti, ed è quanto mi è sembrato di trovare – con le dovute differenze «soggettive» – anche nei testi.

Questo significa qualcosa? E se sì, che cosa significa? Non so, forse è presto per dirlo. O forse invece è un segnale importante, un segno, anzi, che ci porta a intravedere che, al di là delle differenze personali e editoriali (non meno importanti, non dimentichiamolo) comincia a esistere, forse, in Italia, una pratica della traduzione che sembra andare oltre le teorizzazioni che si fanno al di fuori della pratica traduttiva, perché tenta di superare la dicotomia “lettera/senso” con cognizione di causa e sicurezza di pratica. Che non si nasconde dal dirlo e non ha paura di farlo. E che, soprattutto, consegue risultati davvero molto efficaci. Non è per niente poco.

5. Al posto di una conclusione

Più che di conclusioni, credo che qui si tratti più onestamente di ammettere che questa è una proposta di avvio. Propongo di cominciare a riconoscere che non si può parlare di traduzione di testi creativi (e non scrivo «letterari» solo perché non sono sicuro che chiunque accetterebbe di inserire sotto questa etichetta anche gli scritti di Freud, Auerbach, Lévi-Strauss, Jankélévitch, Barthes…) senza intendere un’operazione critica e creativa al contempo. Questo significa fare delle scelte a monte e verificarle in corso d’opera, inserendole all’interno del testo tradotto. Non significa non essere anche estremamente letteralisti, purché non sia un letteralismo rinunciatario (come esiste una traduzione molto rinunciataria anche “a senso”), anzi; è appunto una questione di scelte. Né vuol dire rinunciare a paratesti di alcun tipo (introduzione, postfazione, note…): abbiamo visto che le due traduzioni prese in esame con tanto entusiasmo da parte mia ne fanno ampio uso; si tratta, diciamolo ancora, di non demandare ai paratesti le nostre rinunce. Per questo propongo, se non di obbligare, almeno di offrire sempre alle traduttrici e ai traduttori un luogo, un luogo paratestuale, dove spiegare non quel che il testo è per loro (o non soltanto, non soprattutto), ma innanzitutto quel che del testo hanno fatto o avrebbero voluto fare, quale punto di partenza critico per il fare creativo che sarà il testo, ai loro e – si spera – ai nostri occhi. Per lo stesso motivo propongo anche di smetterla di distinguere gli autori dai traduttori, di togliere le virgolette dalle parole tradautore e tradautrice e di cominciare a metterle alle parole “originale” e “traduzione”, non perché non si debbano distinguere le due figure e le due tipologie di testo, ma per cominciare a distinguerle da un punto di vista diverso, non gerarchico linguisticamente e cronologicamente, ma, linguisticamente e cronologicamente, monodico (o “primo” nel senso matematico del termine) e anteriore l’“originale”, polifonica (o “al quadrato”) e posteriore la “traduzione”.

Propongo, infine, almeno di provare a cercare di uscire dalla dicotomia “lettera/senso” per cominciare finalmente a considerare questi due aspetti due facce della stessa medaglia, cioè due modalità di un gesto che è identico: non «strategie» contrapposte ma strade convergenti, che si completano a vicenda.

Molto utopistico, dite? Forse. Eppure normale, come abbiamo appena visto, quando si tratta di un “classic”» nel senso più propriamente storico del termine. Perché non sempre, allora? Davvero, perché no?

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