di Franco Nasi
A proposito di Il manuale del traduttore di Giacomo Leopardi, a cura di Bruno Osimo e Federica Bartesaghi, Hoepli, Milano, 2014 (solo versione elettronica), € 4,99
Che Il manuale del traduttore non sia un inedito leopardiano, scoperto in qualche misteriosa biblioteca sfuggita ai numerosissimi e agguerriti studiosi italiani del poeta, è dichiarato sin dalle prime righe della Premessa al libro. Si tratta semplicemente di una nuova antologia di passi sul tradurre ripresi dallo Zibaldone, raccolti, riordinati e commentati dai due curatori, Bruno Osimo e Federica Bertesaghi. Anche solo “sfogliando” il manuale (se così si può dire perché è pubblicato dalla Hoepli, per ora almeno, solo in formato elettronico) si nota che ciascun passo di Leopardi, facilmente riconoscibile perché riprodotto con caratteri minori, è introdotto e seguito dal commento dei due curatori stampati in corpo normale. Il ponderoso paratesto sembra scritto apposta in caratteri più grandi per prendere, con autorevolezza, per mano il lettore e condurlo all’interno del pensiero articolato e originalissimo di Leopardi sul tradurre.
Di primo acchito, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a uno di quei commenti medievali della filosofia di Aristotele, in cui l’ampiezza delle glosse supera di gran lunga il testo. Operazione questa certo meritoria e didatticamente utile, ma che, anche a una prima lettura, solleva alcune domande, simili a quelle che si presentano quando si legge la Metafisica di Aristotele con i commenti di Avicenna o di Tommaso. E una domanda, che maschera in questo caso anche una perplessità, è la seguente: leggo Avicenna e Tommaso per comprendere meglio Aristotele, o leggo le interpretazioni dei due commentatori per comprendere meglio la filosofia medievale araba e cristiana attraverso la loro lettura di Aristotele? Così, questa scelta commentata di Osimo e Bartesaghi mi offre una visione più comprensiva del pensiero di Leopardi, oppure è la loro lettura di Leopardi a rendermi più consapevole di un modo attuale (in questo caso, semiotico) di intendere l’atto traduttivo?
La scelta e l’interpretazione che Osimo e Bartesaghi fanno di alcune delle pagine dello Zibaldone dedicate alla traduzione è certo interessante e permette di vedere quante delle intuizioni critiche di Leopardi siano state preveggenti di sviluppi, epistemologici ed ermeneutici, oggi sistematizzati scientificamente, almeno secondo gli autori, dalle più avvedute teorie semiotiche della traduzione. D’altronde i curatori dichiarano onestamente il loro intento in apertura, e giustificano, con una sorta di excusatio non petita, la loro prospettiva interpretativa:
Le recenti teorie semiotiche affermano che il testo è un processo che si svolge tra la mente dell’autore e la mente del lettore e quindi noi, in qualità di lettori, ci sentiamo autorizzati a scegliere nel materiale dello Zibaldone frasi che parlano di argomenti secondo noi legati alla problematica traduttiva, riordinarle secondo categorie nostre o comunque successive di gran lunga all’arco temporale di Giacomo Leopardi, riattualizzarle e commentarle (p. 7)
Il libro, che si caratterizza per una chiarezza espositiva lodevole, si concentra su tre aspetti. In primo luogo la riflessione di Leopardi sul tradurre come modo di mettere in relazione non solo lingue diverse, ma culture, poetiche, gusti, tradizioni che vivono e si manifestano in tempi e luoghi diversi, attraverso “parole” e non “termini”, attraverso cioè un linguaggio che scaturisce da un rapporto diretto e complesso tra cose e simboli verbali, che si caricano di valenze altre, e che non si possono ricondurre a semplici “termini” razionali e privi di storia, di vita, di emozioni. Questo modo complesso di intendere il linguaggio porta Leopardi a un atteggiamento scettico nei confronti dell’ipotesi che possa esistere una lingua universale che sia razionale, algebrica e manifestazione univoca di una struttura profonda del linguaggio e del pensiero. Il secondo capitolo considera il ruolo della mente nel processo traduttivo, il contributo creativo che il traduttore necessariamente dà nel passaggio da un testo a un altro. Secondo i curatori, per Leopardi l’atto traduttivo non è un’operazione che possa mai produrre una mera copia di un originale; sarà sempre un’interpretazione, o per dirla con Leopardi stesso, una imitazione, che inevitabilmente manipola e trasforma il testo di partenza. Così, come non esiste per Leopardi una lingua universale, alle stesso modo non può esistere una traduzione perfetta. Nella terza parte del libro si ripropongono e commentano i passi in cui Leopardi si sofferma sulle strutture delle tre “lingue sorelle” (francese, tedesco, italiano) e sull’analisi che il poeta recanatese fa dei diversi modi in cui queste tre lingue, per la loro struttura sintattica ma anche per la loro storia, si prestano in gradi differenti (dall’impermeabile francese all’accogliente italiano), ad essere lingue di traduzione, cioè ad ospitare in una traduzione un’opera scritta in una lingua diversa senza completamente annullarne le specificità stilistiche e culturali.
Sintetizzando in modo forse riduttivo, si può dire che Osimo e Bartesaghi tendono a privilegiare quei passi dello Zibaldone in cui Leopardi affronta il processo traduttivo dal punto di vista culturale, ermeneutico/interpretativo, psicologico e linguistico. Sono passi sempre sollecitanti e sorprendentemente attuali, come quelli in cui Leopardi dichiara l’impossibilità di una «traduzione perfetta», dando voce a quello che i curatori definiscono «pessimismo traduttivo», pessimismo che tuttavia non distoglie certo Leopardi dal tradurre. Così, altrettanto illuminanti sono i passi in cui Leopardi sottolinea come (e cito il commento) «la traduzione non ha a che fare solo con atti linguistici, ma anche (e soprattutto) con la realtà culturale, sia esterna sia mentale» (p. 11) del traduttore, al punto che questi «deve fare i conti con il “canone”» condiviso, decidendo, sulla base di una sua scelta di poetica, se assumere un atteggiamento più o meno accomodante nei confronti del gusto comune.
Entrambi questi punti (lo scetticismo nei confronti di una “traduzione perfetta” e l’importanza della “poetica del traduttore”) sono rilevanti, come è noto, nella riflessione di Leopardi, e sono condivisi da gran parte di coloro che si occupano o si sono occupati di traduzione, e non solo negli ultimi anni o nelle scuole che fanno riferimento a un modo particolare di affrontare il linguaggio. Che la traduzione sia soprattutto un fatto culturale e non strettamente linguistico lo teorizzava molto lucidamente negli anni cinquanta, ad esempio, il linguista Benvenuto Terracini nel suo splendido Conflitti di lingue e di cultura (1957); che la traduzione non potesse essere una copia, ma tutt’al più un’approssimazione è stato detto a chiare lettere da Benedetto Croce, la cui complessa e feconda riflessione sul tradurre non si può ridurre all’unico passo sempre citato dell’Estetica; che la traduzione poi sia un incontro di poetiche è l’assunto di tutta la riflessione sul tradurre che da Anceschi (e Quasimodo), a Mattioli e Buffoni ha caratterizzato una serie di studi e di pratiche del tradurre a partire almeno dagli anni quaranta del secolo scorso. Sorprende pertanto leggere a commento di certi passi, certo lungimiranti, di Leopardi frasi come le seguenti:
Poetica del traduttore. […] (Alcuni negano che il traduttore abbia una sua poetica. Fortunatamente Lûdskanov 2008 mostra in modo scientifico il contrario.) Il traduttore decide come porsi nei confronti del proprio pubblico, e questo, nel contesto culturale, può assumere valenze conformiste (canoniche) o anticonformiste (anticanoniche) (p. 15)
Oppure, a proposito dell’impossibilità di una “traduzione perfetta”: «Se Leopardi aveva già compreso l’impossibilità di un tale processo, il primo a teorizzare questa idea in maniera chiara ed esaustiva è stato, due secoli dopo, il semiotico estone Peeter Torop (1995)» (p. 68).
Naturalmente ai due studiosi citati (Lûdskanov e Torop) va tutta la nostra ammirazione, ma forse si può vedere l’importanza della riflessione di Leopardi sul tradurre anche con altre lenti. È più di un’ipotesi pensare che se autori influenti nella teoria della traduzione come Terracini o Mattioli o Fortini o Prete (solo per citarne alcuni) hanno scritto pagine di rilievo su questo argomento, Leopardi sia stato per loro non solo qualcuno che ha scritto cose in anticipo, ma piuttosto un autore che ha avuto una funzione formativa. Basterà richiamare le pagine illuminanti che Mattioli dedica ai passi in cui Leopardi riflette sulle strategie traduttive da applicare a una parola come άντανδρον (contrappersona) nel Dialogo dei morti di Luciano (Mattioli 1983, p. 91) o a quelle altrettanto preziose di Prete rivolte alla interpretazione della «Camera oscura» leopardiana (Prete 1998, pp. 145, 147): passi centrali dello Zibaldone per la riflessione sul tradurre, d’altronde opportunamente riportati, con ampiezza, da Osimo e Bartesaghi.
Un altro aspetto che mi pare caratterizzi la riflessione sul tradurre di Leopardi non come teoria chiusa, univoca e definitiva, ma piuttosto come pensiero intenzionalmente asistematico e in continuo aggiornamento e revisione (e che la proposta di Osimo e Bartesaghi non sembra considerare, per una intenzionale scelta metodologica), è la stretta relazione fra le pagine più teoriche dello Zibaldone con quelle dettate dalla sua prolifica e incessante attività di “critico” di traduzioni (numerosi sono gli scritti di Leopardi intorno a traduzioni sue o di altri, con stesure di recensioni, prefazioni, commenti a traduzioni). A queste vanno aggiunte le esperienze dirette di traduzione che riguardano il suo “apprendistato poetico” (dai primi tentativi con Saffo alle traduzioni dell’Eneide con i lucidissimi confronti con le versioni di Annibal Caro, alla emblematica Imitazione dalla lirica La feuille di Arnault), e le finte traduzioni dietro le quali, ironicamente, Leopardi si nascondeva come con una maschera (e si pensi agli pseudo versi di Simonide nell’ode All’Italia o alle Odae adespotae). Insomma, un altro aspetto certo preveggente del modo di intendere la traduzione, quello di essere esperienza vitale, in movimento, in cui la pratica del tradurre si lega alla riflessione. Alla luce di tutti questi diversi aspetti di un’esperienza viva e inquieta – e la bibliografia su questo sarebbe lunghissima, da Bigi (1967) a Fasano (1985), Dolfi, Mitescu (1990), Nasi (2010), Randino (2002) – la teoria della traduzione leopardiana si fa sempre più movimentata e aperta, a volte contraddittoria, ma non per questo meno sollecitante e attuale.
In un manuale “ipotetico” sul tradurre, e in particolare in uno “dedicato” a Leopardi, non sarebbe male riservare un posto, non secondario, anche alle esperienze vive di critico, di traduttore, di imitatore, perché una teoria che non sappia considerare l’esperienza diretta, che non coniughi esperienza e riflessione in una coscienza disposta a tornare continuamente sulle proprie acquisizioni, è destinata, forse, a parlare solo a sé stessa, in un monologo per sua natura avverso a quel dialogo continuo che è la traduzione.
Riferimenti bibliografici
Bigi 1967: Emilio Bigi, La genesi del “Canto notturno” e altri studi sul Leopardi, Palermo, Manfredi
Dolfi, Mitescu 1990: Anna Dolfi – Adriana Mitescu (a cura di), La corrispondenza imperfetta: Leopardi tradotto e traduttore, Roma, Bulzoni
Fasano 1985: Pino Fasano, L’entusiasmo della ragione. Il romantico e l’antico nell’esperienza leopardiana, Roma, Bulzoni
Mattioli 1983: Emilio Mattioli, Leopardi e Luciano, in Id., Studi di poetica e retorica, Modena, Mucchi, pp. 81-112
Nasi 2010: Franco Nasi, Le maschere di Leopardi, in Id., Specchi comunicanti, Milano, Medusa, pp. 127-153
Prete 1998: Antonio Prete, Finitudine e infinito, Milano, Feltrinelli
Randino 2002: Simonetta Randino, Leopardi e la teoria del tradurre, in «Lettere italiane», 54/4, pp. 616-37.
Terracini 1957: Benvenuto Terracini, Conflitti di lingua e di cultura, Venezia, Neri Pozza