La recensione / 1 – «Non mai si legge così scrupolosamente un’opera, quanto nel doverla tradurre»

di Frédéric Ieva

A proposito di: Vittorio Alfieri, Frammenti di traduzioni, volume I, Frammenti dal latino, da Pope e versificazione della ‘Mandragola’ di Machiavelli, edizione critica a cura di Patrizia Pellizzari, Edizione nazionale delle opere di Vittorio Alfieri, Alessandria, Dell’Orso, 2017, pp. CXXXVI-248, € 35,00

Valéry Larbaud, nel vivace articolo dal titolo Emilio Bertana et Vittorio Alfieri (in Id., Sous l’invocation de Saint Jérome, Paris, Gallimard, 1946, pp. 275-284), criticava lo spirito pedante con cui Emilio Bertana si era avvicinato alla Vita dell’Alfieri, tentando, invano, di sminuirne il valore letterario. Così facendo, proseguiva Larbaud, Bertana aveva perso di vista i tratti essenziali della vita di Alfieri, riassunti da Larbaud nei punti seguenti: i viaggi, le opere e il “degno amore”, vale a dire la sua liaison con Louise di Stolberg, contessa di Albany. Larbaud spendeva parole di elogio per l’opera di Alfieri, ma non faceva quasi alcun cenno alla sua attività traduttoria, se non uno in chiave negativa, facendo propria l’accusa di Bertana ad Alfieri di aver plagiato e tradotto Voltaire durante la stesura di una sua tragedia.

Eppure è noto che, nel corso della propria vita, Alfieri trascorse alcune stagioni segnate da un’intensa attività di studio e di traduzione dalle lingue classiche e dall’inglese, realizzando pure traduzioni intralinguistiche come nel caso di alcune scene della Mandragola pubblicate nel volume oggetto di queste righe.

Ma procediamo con ordine. Nel 1937 ad Asti venne istituito il Centro nazionale di studi alfieriani. Uno dei suoi obiettivi primari consisteva nel presiedere alla realizzazione dell’edizione nazionale delle opere di Vittorio Alfieri. Il primo volume vide la luce solo nel 1951 (La Vita curata da Luigi Fassò). Nei decenni successivi, le pubblicazioni si susseguirono con un ritmo regolare e nel 1989 l’edizione poteva considerarsi quasi giunta al suo compimento. Un notevole spazio era stato dato anche alle traduzioni eseguite dal poeta astigiano. Dei 42 volumi previsti, infatti, sei sono dedicati alle traduzioni. Nel 2004 Patrizia Pellizzari curava l’edizione in due tomi delle sue traduzioni da Sallustio (Vittorio Alfieri, Sallustio, Asti, Casa d’Alfieri), e ora, alla medesima studiosa si deve l’edizione del primo volume dei Frammenti di traduzioni dal latino e dall’inglese, e con l’uscita, che si spera imminente, dei frammenti di traduzioni dal greco, l’Edizione nazionale potrà considerarsi conclusa.

Tutte le traduzioni di Vittorio Alfieri rimasero inedite e una larga parte di esse vennero pubblicate, postume, nel 1806-1807 nell’edizione delle opere alfieriane uscita presso i tipi dell’editore fiorentino Piatti in tredici volumi. Nel corso del tempo, inoltre, altri studiosi otto-novecenteschi, da Emilio Teza a Vittore Branca, si sono occupati delle traduzioni alfieriane pubblicandole in varie sedi. Questi studi e edizioni hanno fatto sì che dei testi pubblicati da Patrizia Pellizzari nessuno possa essere considerato inedito, ma la novità precipua consiste nell’averli riuniti tutti (con alcune significative eccezioni segnalate dalla curatrice stessa) in un unico volume e di averne compiuto una pregevole edizione critica. Un’operazione non facile se si pensa alla dispersione subita dalla biblioteca parigina di Alfieri, sottoposta a sequestro nel 1792 negli anni turbinosi della Rivoluzione francese. Dal 1793 Alfieri si stabilì a Firenze e da allora una delle sue preoccupazioni fu quella di ricostituire la sua biblioteca parigina effettuando acquisti massicci di volumi, soprattutto classici latini e greci.

I volumi riuniti a Parigi da Alfieri risultano dispersi in alcune biblioteche parigine (quali la Bibliothèque de l’Institut e la Mazarine), in altre francesi (in quella civica di Cahors per esempio), per non parlare dei libri finiti sul mercato antiquario e di quelli di cui si sono perdute le tracce. La ricostituita biblioteca fiorentina è stata depositata nell’attuale Médiathèque Centrale «Emile Zola» di Montpellier, biblioteca che provvide alla donazione di alcuni di questi volumi alla Fondazione Centro di studi alfieriani di Asti. Per quanto riguarda i manoscritti, il nucleo di maggior importanza si trova alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, ma altri, di un certo rilievo, sono conservati anche presso la Bibliothèque municipale di Montpellier e la Fondazione astigiana. Per quale ragione ci si sofferma sulla sorte dei volumi e dei manoscritti alfieriani? Perché il lavoro di Pellizzari si è basato su un’ampia ricognizione di questi materiali per approntare questa edizione critica. Infatti, per ogni frammento traduttivo pubblicato, Pellizzari segnala sempre il manoscritto alfieriano da cui è tratto, precisando anche l’edizione a stampa sulla quale si è basato Alfieri per desumere il testo originale da tradurre e cercando sempre di risalire all’anno in cui fu realizzata la traduzione. Se in alcuni casi l’individuazione dell’edizione del testo originale è molto semplice, perché egli aveva provveduto, nel caso di Tacito, a scrivere la sua traduzione su pagine interfogliate dell’edizione originale che possedeva (cfr. p. C), in altri casi si è rivelata un’operazione alquanto ardua, come documenta la curatrice stessa nella sua esauriente introduzione al volume.

Alfieri si dedicò alla pratica della traduzione nel periodo compreso tra il 1776 e il 1779 e poi negli anni novanta, vale a dire in concomitanza dei due periodi in cui egli manifestò una forte volontà di studiare le lingue classiche. Come sottolinea Pellizzari, la traduzione per l’illustre astigiano rivestiva essenzialmente «una funzione di servizio» (p. XVII) sia per conseguire una maggiore padronanza delle lingue di partenza e di arrivo sia per migliorare, dal punto di vista espressivo e stilistico, nella propria scrittura. Per questo motivo, anche il più breve frammento tradotto non è frutto di una scelta casuale e, quindi, riflettere sui brani tradotti dall’Alfieri significa anche seguire da vicino il processo di elaborazione delle sue opere.

Nonostante la pratica assidua, Alfieri non giunse a elaborare una propria teoria sulla traduzione ma affidò i suoi rari pensieri su tale argomento a qualche accenno nella sua autobiografia e ad alcune brevi prefazioni premesse alle sue traduzioni. La frase utilizzata come titolo della presente recensione, per esempio, è tratta dallo Schiarimento del Traduttore su questa Alceste seconda (pubblicato in V. Alfieri, Tragedie postume, vol. III, Alceste Prima a cura di Clara Domenici; Alceste Seconda, a cura di Raffaele de Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1985, p. 415). Nella Vita invece scrisse che nulla era più istruttivo del tradurre (si veda Vittorio Alfieri, Vita, IV, XXVI, in Id., Opere, introduzione e scelta di Mario Fubini, testo e commento a cura di Arnaldo Di Benedetto, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, vol. I, p. 291, citato da Pellizzari, p. XVIII). Nella Prefazione ai volgarizzamenti (1798), Alfieri precisò che la traduzione era una pratica intellettuale utile per diversi motivi: per capire meglio le lingue classiche, per migliorare la conoscenza del valore della propria lingua e apprendere a maneggiarla con maggiore efficacia, e infine «per isfuggire e l’ozio, ed i tristi pensieri» (Vittorio Alfieri, Teatro greco, a cura di Claudio Sensi, Asti, Casa d’Alfieri, 1985, p. 4). Come ha notato Pellizzari, quest’ultima motivazione è stata poco messa in rilievo dagli studiosi di Alfieri (pp. XVIII-XIX).

Altro aspetto da sottolineare nel modo di tradurre di Alfieri è la sua convinzione che la buona traduzione «non è soltanto una faccenda di ordine tecnico (linguistico, appunto) perché implica il fatto che il traduttore, immergendosi nell’opera che vuole tradurre, riesca a percepirne la più intima essenza» (p. XVIII). Le difficoltà sorte nel corso dell’attività traduttoria furono notevoli, anche perché Alfieri fece le sue prime esperienze di traduzione dal latino e dal greco nel momento in cui iniziò a studiare le lingue dell’antichità classica. Di conseguenza, non mancano, nelle sue versioni manoscritte, diversi spazi bianchi perché non sempre riusciva a restituire, o a capire, il testo latino. Come sottolinea Pellizzari, gli «scacchi subiti» (p. XXV) erano una conseguenza di una conoscenza imperfetta sia della lingua di partenza e sia, sorprendentemente, di quella di arrivo. Per mettere a fuoco questo aspetto, Pellizzari offre un esempio molto efficace. Alfieri nell’estate del 1776 si cimentò nella traduzione di Orazio indotto da ragioni strettamente connesse alla sua attività letteraria, ma le difficoltà di resa non furono di poco conto, come testimonia l’uso del termine in dialetto piemontese «strasnà (“trascinato” e per metafora “lacero”)» (p. XXVI) per tradurre il levi pro paupere di Orazio (Ars poetica, v. 423) che, per esempio, un traduttore moderno, Enzo Mandruzzato, ha tradotto con «povero diavolo».

I versi oraziani

Ut praeco, ad merces turbam qui cogit emendas,
adsentatores iubet ad lucrum ire poeta
dives agris, dives positis in fenore nummis.
Si vero est unctum qui recte ponere possit
et spondere levi pro paupere et eripere atris
litibus implicitum, mirabor si sciet inter
noscere mendacem verumque beatus amicum
(vv. 419-425)

sono così tradotti da Alfieri:

Simile al banditore, che raduna la turba di compratori, intorno alle merci esposte in vendita, parmi che sia il Poeta, ricco di campi, e danari, allorchè invita gli adulatori al guadagno, ora con dar loro ben da mangiare, ora col farsi cauzione del povero strasnà, ora dal disimpegnare un altro dalle gravosi liti in cui stà come ingolfato. Sarà veramente meraviglia, se costui potrà felicemente discernere il vero amico dal falso (p. 73)

Mentre Mandruzzato li traduce così:

C’è poi il poeta latifondista, il poeta usuraio che propone buoni affari, come fa il banditore quando raduna gente intorno alla sua merce. Quando poi ha modo di offrire buoni pranzi, di garantire per qualche povero diavolo e di tirarlo fuori da pasticci giudiziari, se è capace dall’alto della sua fortuna, distinguere l’amico vero dal falso, l’ammiro. (Orazio, Le Lettere, introduzione, traduzione e note di Enzo Mandruzzato, testo latino a fronte, Milano, Rizzoli, 1983, p. 283)

Dall’analisi di queste tormentate traduzioni alfieriane, costellate di numerosi rifacimenti in alcuni passi, Pellizzari ha potuto notare una certa predilezione per l’espansione al fine di rendere più chiari i concetti, mostrando così di essere in sintonia con un’altra studiosa di Alfieri, Vincenza Perdichizzi, la stessa cui si deve un’edizione critica delle traduzioni di Alfieri di Seneca (Estratti e traduzioni delle tragedie senecane, a cura di V. Perdichizzi, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2015) che pertanto non sono state incluse in questo volume curato da Pellizzari. Alfieri tendeva quindi a risolvere le asperità del testo originale adottando soluzioni traduttive che miravano a renderlo più chiaro e attuale. Così, sempre restando nell’Ars poetica di Orazio, Neptunus (v. 64) viene tradotto con «il Mare» (v. 64), Aquilonibus con «venti» (entrambi gli esempi a p. 58), sortilegis […] Delphis (v. 219) con «parlar delli oracoli» (p. 65).

Altri spunti interessanti si possono cogliere nelle traduzioni alfieriane di Alexander Pope, che risalgono agli anni novanta del Settecento. Il procedimento messo in atto da Alfieri prevedeva una prima fase in cui il testo originale veniva tradotto in prosa per giungere a una piena comprensione del testo inglese e una seconda fase in cui tentava una transcodificazione poetica. Egli era molto attratto dalle frasi che contenevano raccomandazioni, da lui condivise, ai poeti, come si può notare da questi esempi tratti dalla traduzione dell’Essay on Criticism («Saggio sulla critica», p. LXIV), di cui curiosamente Alfieri non ha tradotto il titolo:

At once the source, and end, and test of art (v. 73, detto della Natura, p. 180)

[…], e sei ad un tempo la fonte, e il fine e la prova d’ogni arte (p. 181 traduzione prosastica di Alfieri)

Fonte, fine e cimento in un dell’arte (p. 181 versificazione di Alfieri)

A little learning is a dang’rous thing! (v. 215, p. 190)

[…]. È perigliosa cosa il poco sapere (p. 191, traduzione prosastica di Alfieri).

Lieve saper è perigliosa cosa (p. 191, versificazione di Alfieri).

Oppure Alfieri rimaneva affascinato da un’immagine che riusciva a ritrasmettere imprimendovi «il suo personale tocco» (p. LXIV):

Thus Pegasus, a nearer way to take,
May boldly deviate from the common track(p. 186, vv. 150-151)

[…]. Così il Pegaso, per batter la via più vicina, arditamente disviarsi potrà dall’orma comune (p. 187, traduzione prosastica di Alfieri)

Così, per giunger pria, Pegaso ardito
Sviar potrassi dalle vie del volgo (p. 187, versificazione di Alfieri).

Anche in questo caso la traduzione aveva una finalità pratica: migliorare la conoscenza dell’inglese, lingua che gli appariva ostica avendo tentato di apprenderla «due volte e tre», per riconoscere infine di non aver «nessuna facilità per le lingue» (Alfieri, Vita, cit., IV, XXV, p. 288; entrambe le citazioni sono menzionate da Pellizzari, p. LX).

Il poeta astigiano iniziò a lavorare su queste traduzioni con sistematicità nel 1790, interrompendo tale attività, nel corso dello stesso anno, per dedicarsi alla sua autobiografia; ancora una volta quando venivano meno le cause che avevano inaridito, seppur temporaneamente, la sua vena creativa, riprendeva a scrivere opere proprie. Eppure la traduzione fu sempre per Alfieri un’attività da praticare periodicamente per perfezionare le proprie conoscenze e per allontanare sentimenti cupi quali il dolore e la tristezza (p. XIX). E allora dobbiamo essere grati a Patrizia Pellizzari che ci ha mostrato attraverso la sua intelligente introduzione quanto questi frammenti di traduzione, solo in apparenza risultato di un’occupazione intellettuale occasionale, siano invece parte di un disegno più vasto e sistematico mirante a migliorare continuamente la propria scrittura e l’efficacia dei propri mezzi espressivi.