La recensione / 2 – Un passo avanti nella ridefinizione di mediazione culturale

di Franca Cavagnoli

A proposito di: Design è traduzione. Il paradigma traduttivo per la cultura del progetto, a cura di Giovanni Baule e Elena Caratti, Milano, FrancoAngeli, 2016, pp. 282, € 18,50

È mai possibile che ci siano dei legami tra design e traduzione? Pare proprio di sì. Questo singolare volume a cura di Giovanni Baule, designer della comunicazione e ordinario di Disegno industriale al Politecnico di Milano, ed Elena Caratti, professore aggregato presso la Scuola del Design della stessa università, indaga con cura lo spazio di contiguità tra queste due interdiscipline e mostra come il design della comunicazione, in particolare, ha più di una affinità con la traduzione. Infatti è all’interno dei processi progettuali che si praticano sia trasferimenti di linguaggi sia mutazioni formali e semantiche. Qui la figura del designer è a tutti gli effetti quella di un mediatore, in grado di gettare ponti tra culture, tecniche e discipline in un universo sempre più interlinguistico e interculturale, fatto sì di molteplici culture, ma anche di una pluralità di supporti, sistemi, linguaggi che convivono e dialogano tra loro.

La traduzione incontra il design a causa del continuo spostamento delle frontiere tra le discipline, i campi del sapere e i modelli produttivi, un fenomeno che richiede competenze progettuali in grado di evolversi in processi di traduzione tra codici e registri differenti. È qui che si rende necessario ridefinire non solo la sfera linguistica e interpretativa, ma anche la soglia critica di chi progetta. Nell’ambito del design della comunicazione poi, sostengono gli autori, tradurre vuol dire rendere accessibili i contenuti di un processo di comunicazione, individuando la forma di espressione più adatta sia per un nuovo medium sia per nuovi formati. Ciò a cui il designer approda sono traduzioni intersemiotiche, dunque, ma anche sinestesiche e transmediali, e così pure artefattuali e editoriali – si pensi alla traduzione grafico-illustrativa e alla traduzione visiva, in cui se si vuole tradurre un testo in immagini, per arrivare a una sintesi visiva è necessario interpretare il testo –, dove il punto di vista traduttivo accresce la dimensione critica del design. È in questa prospettiva che gli studi sulla traduzione offrono ulteriori spunti di riflessione a un campo di ricerca che coinvolge altri ambiti disciplinari, quali la semiotica, l’antropologia digitale, gli studi sui mass media e la percettologia, che indaga i rapporti tra la percezione sensibile e la mente.

Secondo Giovanni Baule, il design è traduzione perché nei suoi processi progettuali mostra più passaggi traduttivi: da funzioni a forme, da contenuti a espressione, da linguaggio a linguaggio, da tecnica a tecnica. Dal momento che il cultural turn, verificatosi nei translation studies nel corso degli anni Ottanta, ha reso il principio traduttivo un sistema aperto, sottolineando le implicazioni ideologiche, filosofiche, storiche, culturali e semiotiche dell’atto traduttivo, ha finito con l’ampliarne anche il valore paradigmatico. In questo modo i punti di contatto con il design si sono moltiplicati, sicché ora progettare e tradurre sono accomunati da un analogo principio performativo. Nell’assumere il punto di vista traduttivo, il design vede potenziata la propria vocazione metaculturale e procede in senso contrario all’appiattimento linguistico-culturale, ai monolinguismi e alle monoculture, sottraendosi al pensiero unico e agli stili imposti. Come la traduzione, il design è educazione alla differenza: lavora per la tolleranza e l’inclusione, attraversa i confini delle discipline e apre dialoghi tra saperi diversi.

Quanto all’area del design della comunicazione, il tema che più interessa agli autori, è qui che le affinità sono più evidenti, perché gli studi sulla traduzione consentono di esplorare gli apporti alla ricerca della traduzione visiva, digitale e artefattuale, in particolare nel campo editoriale e in quello della transmedialità, della traduzione cartografica e dell’elaborazione dei segni grafici. Per esempio, il passaggio al libro e al quotidiano digitale ha comportato, assieme al trasferimento di supporto, un mutamento di funzioni e di uso. La rivoluzione digitale ha quindi innescato un processo di trasformazione che restituisce artefatti i cui caratteri costitutivi ruotano intorno al paradigma traduttivo, un riferimento fondamentale per la riconfigurazione dei dispositivi della comunicazione digitale.

Un aspetto interessante sul quale gli autori si soffermano è quello della dimensione etica. Il punto di vista traduttivo accresce la prospettiva che vede il design attento ai principi di sostenibilità e di compatibilità ambientale, in un orizzonte in cui l’innovazione si accompagna alla trasformazione sociale. Ma nell’evocazione dell’etica del tradurre gli autori non rendono omaggio solo a Berman. Anche il rimando a Ricoeur è puntuale, in quanto il design assume in sé il principio di ospitalità traduttiva nel senso che dell’ospitalità fa un proprio stile. Infatti non risponde solo a una strategia di estensione alle varie utenze, con un occhio al mercato transnazionale o transmediale, ma il suo programma è, secondo Baule e Caratti, una costante umanizzazione dei contenuti e delle cose.

Uno dei pregi del libro è senz’altro quello di interpretare il concetto di traduzione in senso lato, ben oltre la traduzione propriamente detta, e di inserirsi in questo modo di diritto nella terza fase dei translation studies, quella che privilegia gli aspetti culturali legati al tradurre. Il punto di vista traduttivo che emerge da questa riflessione suggerisce continui sconfinamenti, ha sempre un respiro metaculturale e arricchisce ciò che si intende con tradurre, inteso più come un transitare, un attraversare permanente. Ma è forse proprio nell’ultimo aspetto che il design rende ancora più manifesto quanto è racchiuso nell’aggettivo langagier cioè relativo al linguaggio – che Ricoeur ha scelto di mettere accanto al sostantivo hospitalité. Non si tratta semplicemente di ospitalità linguistica (e troppo spesso anche nella traduzione interlinguistica è a questa accezione che si riduce il concetto di Ricoeur). In realtà quella che il filosofo e psicoanalista francese prefigura è un’ospitalità del linguaggio e dei linguaggi, che va ben oltre quella che sa offrire la lingua. Uno dei pregi del libro di Baule e Caratti sta proprio nel renderne visibili le implicazioni a tutto raggio e nel definire per il design uno spazio in cui la traduzione si fa luogo in cui accogliere la differenza in modo inusuale e sorprendente.