di Piernicola D’Ortona
A proposito di: Simone Giusti, Tradurre le opere, leggere le traduzioni, Torino, Loescher, 2018, pp. 126, € 10,00
L’agile volume di Simone Giusti, numero 8 della collana «QdR / Didattica e letteratura», si presenta con un taglio squisitamente pratico, senza tuttavia trascurare un’ampia carrellata sul valore storico-letterario del tradurre.
Con taglio pratico intendo un’immersione in esercizi ed esempi che possono segnare una traccia senz’altro utile all’insegnante di materie letterarie nella scuola secondaria. Per mostrare le potenzialità didattiche della riflessione sul tradurre, il primo capitolo del saggio (Traduco, dunque (ri)scrivo) propone ad esempio l’analisi di una poesia di Tony Harrison, Timer, presentata prima in originale e poi in due traduzioni: una di Massimo Bagicalupo, l’altra di Giusti stesso (pp. 36-43). L’esercizio – sostenuto da strumenti di analisi stilistica e linguistica – dà il via a una sapiente immersione nel testo. O per meglio dire “nei testi”, considerati sia nella loro autonomia di senso sia nel loro rapporto con il testo fonte.
Se un merito, non di poco conto, va riconosciuto a questo libro è quello di sostenere convintamente l’esigenza di dare piena visibilità al processo del tradurre, anche in ambito scolastico (quando persino certe antologie dimenticano con troppa facilità di indicare il nome del traduttore, come si ricorda a p. 22 e in una nota a p. 26, dove si specifica che anche l’indicazione di un traduttore illustre come Giovanni Raboni – nel caso in esame, traduttore de L’albatros di Baudelaire – è omessa da qualche manuale). Per «superare i limiti di una didattica basata su testi stranieri commentati come se non fossero tradotti» (p. 86), come si augura l’autore, una buona strada può essere non solo quella di ricostruire il dialogo tra originale e traduzione, ma anche di stabilirne uno nuovo tra due versioni dello stesso testo. È un tipo di operazione cui Giusti non assegna mai il compito di emettere giudizi di valore. Al centro del suo discorso è sempre lo «specifico letterario», che in un testo tradotto si ritrova nei suoi due aspetti fondamentali e complementari: la capacità di «ricostruire un mondo», ossia di restituire un’esperienza attraverso un dispositivo testuale, e la dimensione materiale della lingua (suono, ritmo, forma).
Chiaro che – forse per comodità o per presentare analisi esaustive – tra gli esempi riportati prevalgono i testi poetici, ma non si trascurano nemmeno tipologie testuali meno canoniche, con cui chi frequenta la scuola secondaria fa quotidianamente i conti – seppure spesso per motivi diversi dallo studio – come le Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R. Martin nella loro versione televisiva, intitolata Il trono di spade. Ma se prevale la poesia è certo anche per motivi storico-letterari, come si espone chiaramente nel capitolo 2, Hai tradotto, io ti riconosco: la tradizione del Novecento italiano è costellata di quaderni di traduzione firmati da grandi autori, fra i quali Sereni, Fortini, Giudici, Luzi, Caproni, senza contare i pionieri Ungaretti, Montale e Solmi. Giusti cita a questo proposito Pier Vincenzo Mengaldo, che scrive: «Le grandi versioni di un poeta vanno annoverate, né più né meno, fra le poesie grandi di quel poeta» (p. 78). Il che dà piena legittimità allo studio dei testi tradotti come ulteriore tassello della storia letteraria italiana.
Come studiare – e soprattutto come presentare agli studenti – questi testi?
Possiamo pensare al commento del testo tradotto come a una pratica critica e valutativa che potrebbe contribuire a valorizzare il ruolo della traduzione e del traduttore, portando alla luce, come già accade con la pratica editoriale della pubblicazione del testo a fronte, ciò che altrimenti rimarrebbe invisibile ai più,
continua Giusti, per poi fornire un esempio illuminante, contestualizzando dal punto di vista storico-biografico e commentando una traduzione di Giorgio Caproni della poesia Les cloches di Guillaume Apollinaire (p. 83).
Al di là dei singoli esempi proposti, lo spunto più fertile della riflessione di Giusti è una concezione per così dire “totale” del tradurre, che investe in un modo o nell’altro le pratiche della lettura e della scrittura nel loro complesso (cfr. il terzo e ultimo capitolo, Per una didattica della riscrittura e dell’ospitalità). È così che s’inseriscono a pieno titolo nel volume certi strumenti didattici che, pur non chiamandosi esplicitamente “traduzione”, con essa intrattengono rapporti di contiguità. Una contiguità esposta in ordine crescente, dalla semplice copia («copiare è il grado zero della riscrittura», scrive l’autore a p. 92, portando a esempio i ricordi di Domenico De Robertis e la consuetudine di Vittorio Alfieri, che per «disfrancesarsi» trascriveva su un quaderno i versi di Dante e Petrarca), fino alla “versione” di chi al liceo studia ancora latino e greco. I passaggi intermedi sono la parafrasi (che «ha in realtà tutte le caratteristiche di una traduzione vera e propria», p. 93, vale a dire di una traduzione endolinguistica) e il riassunto, che presuppone doti interpretative, capacità di scomporre e rielaborare il testo del tutto accostabili a quelle di una traduzione.
Giusti affronta il tema trattando anche i rapporti che il traduttore intesse – spesso suo malgrado – con la filiera editoriale, per esempio attraverso la lente di figure emblematiche come quella di Luciano Bianciardi. Un discorso che a scuola non andrebbe trascurato, viste le ricadute – materiali e non solo – che il processo ha per l’industria culturale nel suo complesso. La traduzione, insomma, si presta da molteplici punti di vista a far comprendere allo studente i nodi di quell’«espressione culturale» su cui tanto insistono – spesso in maniera vaga – le raccomandazioni ministeriali. Un’espressione culturale che non può prescindere dall’idea di diversità e di accoglienza. In questo sta tutto il valore della
natura ibrida, meticcia, dell’esperienza letteraria, intesa – come ci insegnano le traduttrici e i traduttori – come un incessante processo di lettura e di riscrittura basato sulla negoziazione dei significati e, quindi, sulla fiducia nella possibilità di reciproca comprensione degli esseri umani (p. 13).