QUANDO LA TRADUZIONE È ARTE (O ARTIGIANATO? O SCIENZA?)
di Giulia Baselica
Maria Silvia Da Re, La bocca immagina. I poteri della traduzione artistica, Mimesis, Milano-Udine, 2013, pp. 135, €14
Non di rado chi si avvicina alla lettura di saggi o di manuali dedicati alla traduzione è indotto a ritenere che le varie teorizzazioni elaborate nel corso del tempo, e soprattutto, a partire dalla seconda metà del Novecento, siano non soltanto sideralmente lontane dall’attività pratica del tradurre e dunque di scarsa validità per coglierne i molteplici aspetti o per affrontarne con maggior sicurezza le ricorrenti difficoltà, bensì anche notevolmente fragili, in quanto incoerenti e fondamentalmente contraddittorie, oltre che fra loro antinomiche.
Il saggio di Maria Silvia Da Re, raffinato e profondo, si offre come feconda risorsa sul pensiero della traduzione, come essenziale ausilio per comprendere la natura e, soprattutto, l’utilità della teoria della traduzione. L’autrice si sofferma sui diversi orientamenti che hanno alimentato il pensiero novecentesco. Accanto a Meschonnic e alla sua «poetica del tradurre», a Berman e alle sue riflessioni sulla fedeltà nella traduzione, a Ricoeur e al paradigma dell’evento traduttivo, che mostra una fisionomia complessa e cangiante, secondo l’accezione attribuita al termine stesso “traduzione” – o in quanto semplice trasferimento di un contenuto da una forma all’altra, o in quanto atto di interpretazione – si affermano gli esponenti dei Translation Studies, la cui natura e i cui intenti furono presentati da James Holmes nel 1972 a Copenaghen, in occasione del terzo Congresso internazionale di linguistica applicata. L’approccio dei rappresentanti della traductologie francese da un lato e dei Translations Studies angloamericani dall’altro viene qui illustrato nelle sue linee essenziali: ne sono individuati gli elementi di continuità con le riflessioni del passato, i punti di forza, i limiti. La studiosa indica nella tendenza a definire prescrittivamente i compiti della traduzione «ipotecandone i risultati» la costante imperfezione di ogni formulazione teorica, osservando che una teoria della traduzione autenticamente nuova dovrebbe produrre non «un’ennesima metodologia di traduzione», bensì «un metodo teorico per scandagliare i sentieri di sentimenti e ideazioni alla base della stessa commutazione linguistica». Una riflessione davvero rinnovata dovrà ripensare il ruolo dell’immaginazione nell’atto traduttivo, in quanto se «la parola del traduttore è immaginante» l’esito stesso del tradurre è immagine. La facoltà dell’immaginazione, quale «senso del discernimento», consente quindi di immettere nel testo di arrivo l’intenzionalità dell’autore o, più ampiamente, le intenzionalità del testo di partenza.
Naturalmente non potrà essere rimossa dalla sua posizione centrale, attribuitale dalla storia della teoria, la valenza etica della traduzione, definendo, quest’ultima, un rapporto fra due enti e le relative emanazioni: il soggetto autoriale e il soggetto traducente, il testo originale e il testo tradotto . E la dimensione etica comporta il problema della fedeltà, principio e precetto variamente definito e interpretato nel corso dei secoli, in opposizione all’idea di arte – di qui l’interrogativo cruciale inerente alla natura della traduzione stessa: è arte, artigianato o, addirittura, scienza? – e in connessione con lo status del traduttore, il quale dispone sì di libertà, ma solo se e in quanto licenza, e tuttavia eternamente indotto a «congiungere la ricerca del bene (“dire bene” in un “corretto” tradurre) a quella del bello». Etico ed estetico, dunque, il compito del traduttore, le cui scelte e decisioni sono da sempre – e per sempre saranno – orientate anche dal suo gusto, causa determinante di ogni trasgressione alla fedeltà, soprattutto se intesa come «fedeltà alla lettera». Ma il gusto non è, nella prospettiva degli studi teorici della traduzione, sola prerogativa dell’individualità del traduttore: è anzi categoria ordinante delle forme del pensiero della cultura del Classicismo. Proprio in quest’epoca si colloca una svolta importante nella storia della riflessione teorica: il conferimento alla traduzione di una dignità pari a quella dell’originale. La studiosa evoca la figura di Anne Le Fèvre Dacier, scrittrice, traduttrice e filologa, la quale nello scritto teorico premesso alla sua versione dell’Iliade, nel 1699, libera la traduzione dal vincolo di asservimento all’originale. Così nell’epoca caratterizzata da un’idea di traduzione definita da Goethe parodistisch perché eccessivamente assoggettata all’imperativo del gusto dell’epoca e tesa verso un’esasperata naturalizzazione del testo, si danno in realtà, nascostamente, i presupposti di una teorizzazione moderna e, nelle sue aspirazioni, onnicomprensiva, nella quale sono riconosciute le istanze di tutte le soggettività coinvolte.
Corredato di molteplici riferimenti bibliografici e di un interessante apparato di note di approfondimento, il volume La bocca immagina. I poteri della traduzione artistica dà conto, con densità e precisione, della complessità tematica, articolata diacronicamente, della teoria della traduzione.