di Gianfranco Petrillo
Angela Albanese, Metamorfosi del Cunto di Basile. Traduzioni, riscritture, adattamenti, Longo editore, Ravenna, 2012, pp. 303, € 28,00
Lo Cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille di Giambattista Basile (1575-1632) è il più bel libro del Seicento italiano. Non per niente è in dialetto. In dialetto? Veramente c’è discussione, in proposito. C’è chi (Carolina Stromboli, che sta lavorando a una nuova edizione critica) ha accertato che quell’ostico idioma è veramente napoletano secentesco e chi (Roberto De Simone) invece sostiene che si tratta di una lingua inventata che dal dialetto prende solo le mosse. Basile era un cortigiano, soldato e diplomatico, che, simile a tanti altri della penisola all’epoca, ha composto diversi scritti in lingua, sia in prosa che in versi, e qualcuno in vernacolo. Il suo capolavoro è però il postumo Cunto, che, noto anche come Pentamerone, sul modello del Boccaccio raccoglie in cinque giornate cinquanta fiabe, intervallate da quattro “egloghe”. Chi, anche napoletano verace, lo prendesse in mano oggi senza avvertenza alcuna, non ci capirebbe pressoché nulla. Da qui nasce la lunga, complessa e affascinante storia di «traduzioni, riscritture, adattamenti» che Albanese ci racconta in questo libro esaurientemente, forse anche troppo esaurientemente: non mancano le ripetizioni di argomenti in punti diversi e veniamo puntualmente informati perfino dello stato dell’arte in quanto a adattamenti di fiabe per la scena e per il cinema.
Molto popolare a Napoli, dopo la prima edizione (1636) il Cunto ebbe ben sei ristampe – non tutte complete, però – nel solo Seicento, nonché qualche imitatore. Poi la notorietà scemò e il settecentesco poligrafo abate Galiani, uno dei protagonisti nostrani dell’illuminismo, lo stroncò senza pietà. Caduto nel dimenticatoio, riemerse in epoca romantica come scoperta dei tedeschi fratelli Grimm, tanto che in tedesco è la prima versione integrale a opera di Felix Liebrecht (1846) con prefazione di Jacob Grimm, mentre numerose furono, sia in Germania che in Inghilterra, quelle parziali. E ci resta la curiosità del modo in cui abbiano potuto affrontare un testo così ostico sia Liebrecht che, nel 1893, il grande Richard Burton per la sua integrale in inglese. In Italia, infatti, durante l’Ottocento il Basile rischiò un oblio definitivo, mentre le successive traduzioni straniere, invece, hanno potuto avvalersi di quella in lingua italiana, del 1925, di Benedetto Croce, il vero scopritore e valorizzatore di Basile.
Quella di Croce è una vera traduzione, cioè, pressoché inevitabilmente, una brillante e riuscita “normalizzazione” del pirotecnico testo basiliano. Benché altamente se non totalmente rispettosa, inevitabilmente perde la fantasiosità dell’invenzione linguistica originale ma consente al lettore moderno di avvertirne la grandezza. Croce si prese, per perseguire consapevolmente una «limpidezza» che lui vedeva nell’originale, ma che invece vi manca (perché esserci non deve, aggiungiamo noi), molte libertà in fatto di sintassi e di punteggiatura. Con questa operazione, egli contraddiceva in parte due suoi assunti: quello della impossibilità delle traduzioni e quello della bassura estetica della letteratura barocca. Se c’è un testo barocco è proprio il Cunto, la cui grandezza consiste proprio più nell’abbondanza di metafore, paranomasie, allitterazioni, elenchi fantasiosi e vere e proprie invenzioni lessicali e sintattiche, insomma nella lingua, che non nella pregnanza delle trame fiabesche. E dobbiamo ad Albanese un interessante capitolo dedicato alla questione crociana, che richiama l’attenzione sul fatto che il filosofo abbia dovuto, dopo il 1925, in parte rivedere e ridimensionare quei due suoi assunti, proprio in seguito a quell’esperienza di traduzione. Che lui stesso ha definito una opera a sé stante rispetto all’originale.
Grazie a Croce, quindi, il Cunto è entrato nella letteratura italiana. Basterebbe questa affermazione a dire l’importanza del libro di Albanese, che di fatto se non esplicitamente, con la sua storia mette proprio in questione alla radice il concetto stesso di letteratura italiana. La vicenda del Cunto, che ha bisogno inevitabilmente di essere tradotto per essere letto non solo dagli stranieri, non solo dagli altri italofoni, ma perfino dagli stessi napoletani, è infatti la punta d’iceberg d’una questione che riguarda ormai tutta la letteratura italiana, anche quella nata sulle sponde d’Arno o nelle sue acque risciacquata. Nel momento in cui il revisore di una delle tante case editrici milanesi sente la necessità di correggere in un testo attuale con “lavello” l’italianissimo, cioè toscanissimo, “acquaio”, perché lo sente estraneo (lui – o lei – dirà “ricercato” o “letterario” o almeno: “io non lo direi mai”; ma di fatto intende dire “straniero”), tutta la letteratura italiana pre-Buongiorno (per i più giovani: pre-televisione) comincia ad aver bisogno di traduzione. E infatti le traduzioni intralinguistiche di nostri classici cominciano a diventare frequenti. De Mauro docet. Nella sua esaustività Albanese non manca di offrire un interessante compendio della storia della questione della traduzione intralinguistica dei classici italiani a partire dal Romanticismo e della sua distinzione dalle «riscritture» (pp. 197-202).
Il Cunto quindi ha avuto dopo Croce – oltre ad alcune straniere che vengono puntualmente illustrate da Albanese – anche altre traduzioni (o riscritture) “in italiano”. E perfino due in napoletano moderno. L’acribia della studiosa è ammirevole nell’esaminare queste operazioni filologiche, editoriali e creative. Non le interessa, giustamente, emettere giudizi di valore, ma individuare criteri e «strategie». E il quadro complessivo che se ne ricava è di grande interesse. Croce dà infatti una nuova edizione nel 1939, con un’appendice che resta «a tutt’oggi uno dei saggi critici più rilevanti sull’opera di Basile», in cui il filosofo afferma: «quella da me fatta non è una semplice traduzione, ma una nuova vita data» a quell’opera (p. 132). Nel 1976 Mario Petrini fornisce per Laterza un’edizione critica delle opere napoletane di Basile. Nel 1986 Michele Rak dà per Garzanti, con testo a fronte e con un apprezzabile apparato critico, una traduzione italiana che chiameremmo senz’altro “di servizio”, utile al lettore curioso ma senza pretesa di autonomia estetica, coerentemente all’assunto di Rak di stare alla lettera del «passatempo» voluto dall’autore secentesco. Nel 1994 Ruggero Guarini, in un’edizione adelphiana a cura propria e di Alessandra Burani, traduce cercando di salvaguardare al massimo la pregnanza stilistica e linguistica dell’originale, costringendosi per questo a ricorrere a una miriade di note esplicative che finiscono per vanificare in radice il suo intento di rendere «popolare» il Cunto.
Ma opportunamente Albanese dedica la massima attenzione alla triplice operazione compiuta dal poliedrico Roberto De Simone sul testo basiliano. Il drammaturgo-etnomusicista-poeta-regista-attore napoletanissimo ha tradotto in napoletano “moderno” il Cunto due volte. La prima, nel 1989, per «Il Mattino» di Napoli; la seconda volta, in modo completamente diverso, in due volumi per l’Einaudi nel 2002, in seguito a una richiesta personale dell’editore torinese, nel frattempo poi defunto. La prima riscrittura è in napoletano fine Ottocento, modello Salvatore Di Giacomo. La seconda è duplice: in italiano moderno, “di servizio”, e, a fronte, in un dialetto “inventato” sulla base di quello attualmente vivo, così come inventato era, secondo De Simone, il dialetto adoperato da Basile, e con “egloghe” del tutto nuove, create, come già nella prima versione, utilizzando materiali popolari contemporanei. E in questa seconda riscrittura vernacolare De Simone valorizza al massimo la “teatralità” del testo. Entrambe queste due edizioni erano state precedute, infatti, dalla sua memorabile messa in scena, al Festival dei Due Mondi a Spoleto nel 1976 con la Nuova Compagnia di canto popolare da lui fondata, di una delle fiabe del Pentamerone: la sesta della prima giornata, col titolo La gatta Cenerentola, favola in musica in tre atti.
Il lavoro di Albanese – per molti versi esemplare, non solo per esaustività di informazione e acribia critica, ma anche per l’acuta sensibilità storica quale sempre più di rado si riscontra in lavori analoghi – paga purtroppo lo scotto della sua origine e della sua destinazione accademiche, che lo costringono a pagare il debito tributo sia all’erudizione sia al linguaggio specialistico della linguistica e della semiotica, tanto rigoroso e puntuale, per quanto uggioso in più circostanze, quanto stonato in altre: si reprime a stento un sorriso, infatti, a leggere di seriose «strategie traduttive», per esempio, a proposito delle due colte dame bolognesi che nel Settecento si divertirono a rendere nel dialetto della propria città quello di Basile. Un altro appunto ci consenta, da questa sede particolare, la brava studiosa: i rinvii in nota alle “traduzioni” (o riscritture che dir si voglia) sarebbero stati non solo ben più perspicui, evitando ogni volta al lettore la fatica di andarsi a cercare indietro o in bibliografia la dizione esatta dell’edizione, ma anche – proprio alla luce del saggio di Albanese – più corretti, se invece di attribuire quelle opere tutte a Basile (spesso inevitabilmente nascosto sotto un Id.: e l’oscurità diventa totale quando ci si trova addirittura davanti a «Id., op. cit.») fossero state ascritte ciascuna al suo responsabile. A prescindere da ciò che sta scritto in frontespizio, l’autore del Pentamerone, ossia la Fiaba delle fiabe, Laterza 1925 (che, menzionato ripetutamente, però abbiamo invano cercato nella pur abbondante Bibliografia), è Giambattista Basile o Benedetto Croce? Il quesito – lo si ammetta – è decisivo. Ed è comprensibile che l’autrice non abbia avuto l’ardire di scioglierlo in modo innovativo.