di Paola Brusasco
A proposito di: Teaching Translation. Programs, courses, pedagogies, edited by Lawrence Venuti, London–New York, Routledge, 2017, pp. 260, €42,98
Riprendendo un tema a lui caro – la traduzione secondo il modello ermeneutico – Lawrence Venuti raccoglie ventisei contributi sul tema della didattica della traduzione e li divide in quattro sezioni: Certificate and Degree Programs, Teaching Translation Practices, Studying Translation Theory, History and Practice, e Resources, cioè Corsi di laurea, Esperienze pratiche di didattica della traduzione, Studiare teoria, Storia e pratica della traduzione, e Risorse. Escludendo l’ultima sezione, la divisione non è così netta, in quanto i vari testi – pur con le specificità di ciascuno – illustrano l’ideazione e la messa in atto di percorsi attraverso i quali avviare gli studenti alla pratica traduttiva o allo studio della traduzione per fini di ricerca.
Alla luce del consolidamento dei translation studies in ambito accademico (quanto meno nel mondo anglosassone), ma soprattutto del costante aumento di materiali tradotti e della conseguente proliferazione di corsi di traduzione, occorre – sostiene Venuti nell’Introduzione – fare il punto sugli attuali metodi di insegnamento della traduzione e riflettere su come migliorarli, nonché come misurare e valutare tale miglioramento. Perché spesso è il mercato il parametro principale per la valutazione e, se questo ha senso per la traduzione tecnica e “pragmatica” (ma non per quella editoriale), il rischio è che così facendo si riduca o si annulli qualsiasi analisi critica avallando un’ottica quantitativa che mira ad appianare la differenza culturale e linguistica, mentre l’atto traduttivo è un processo che con quella differenza dialoga e che cerca di renderne conto. La preoccupazione espressa da Venuti per la prevalenza del mercato nella definizione di obiettivi e metodi didattici nei corsi di traduzione fa eco alle amare constatazioni di Michael Cronin in Translation and Globalization (Routledge 2003) e Translation in the Digital Age (Routledge 2012), dove l’autore riflette sul Fordismo 2.0 determinato dalla parcellizzazione del lavoro di traduzione e dalla compressione dei tempi sia per far fronte alle esigenze dei fusi orari del mercato globale sia come conseguenza della diffusa abitudine a disponibilità e connessione ventiquattr’ore su ventiquattro.
Pur occupandosi prevalentemente di traduzione letteraria – come la maggior parte dei contributi presenti nel volume – Venuti ribadisce la necessità di concentrarsi sull’elemento umano della traduzione, cioè sul processo, più che sui due oggetti che lo determinano, il testo fonte e quello d’arrivo. La traduzione è intesa come un atto interpretativo che
works by detaching the source text from the set of contexts – linguistic and cultural, institutional and social – that constitute it as a signifying process and by building another set of contexts that constitute the translated text so as to permit it to signify in another language and culture (p. 8).
rimuove il testo fonte dall’insieme di contesti – linguistico e culturale, istituzionale e sociale – che ne fanno un processo di significazione, e costruisce un altro insieme di contesti che informano il testo tradotto in modo da permettergli di essere significante e significato in un’altra cultura (p. 8; traduzione mia).
Per teorizzare l’atto interpretativo della traduzione, Venuti guarda alla semiotica di Peirce ricorrendo al concetto di «interpretante». Gli interpretanti possono essere formali e tematici – cioè categorie varie, intertestuali e proprie della cultura di arrivo – che comprendono un certo concetto di equivalenza, un certo stile e lessico in relazione alla tipologia testuale e al discorso, oppure, nel secondo caso, codici determinati da idee e valori, insiemi di concetti, problemi e argomentazioni. L’interpretazione del segno avviene applicando gli interpretanti, attraverso i quali il traduttore ricontestualizza il testo fonte inscrivendolo nella cultura d’arrivo.
Un simile approccio si contrappone quindi alla visione “strumentale” della traduzione, intesa come riproduzione o trasferimento non mediato di un invariante, cioè un elemento del testo fonte che può e deve essere portato intatto nel testo tradotto. Una visione che presuppone un concetto statico di significato, determinato a priori, e dunque sbilanciata verso l’“originale”, mentre Venuti enfatizza l’importanza del processo di costruzione del significato, la problematizzazione che ne consegue, la ricerca consapevole e critica di relazioni ed elementi che contribuiscono a formarlo in un certo testo, momento e luogo.
Partendo da queste premesse, le prime tre sezioni di Teaching Translation costituiscono esempi di progettazione didattica di stampo fortemente umanistico e collaborativo che, al fine di fornire una rassegna prospettica e comparabile, rispondono ad alcuni quesiti posti dal curatore: 1) sono previsti requisiti per l’accesso al corso di laurea in traduzione o al singolo insegnamento? 2) Qual è il concetto di traduzione alla base del corso di laurea o insegnamento? 3) Vengono insegnati più tipi di traduzione? 4) Attraverso quali corsi o materiali di studio si concretizza quella determinata visione della traduzione? 5) Come si articola il corso o il singolo insegnamento e attraverso quale approccio pedagogico? 6) Alla fine del corso o insegnamento gli studenti lavorano come traduttori oppure proseguono il percorso universitario con specializzazioni, corsi attinenti o ricerca sulla traduzione?
I contributi della prima sezione presentano esempi di percorsi formativi di diverso livello quali laurea triennale, master o dottorato in translation studies e ne descrivono l’articolazione di insegnamenti, seminari e progetti. Pur non essendo capitoli prettamente dedicati alla pratica didattica, fin dal primo è evidente l’attenzione al concetto di interpretazione: il compianto Ben Van Wyke introduce gli studenti all’idea di instabilità del significato mediante un video in cui due giudici della Corte Suprema forniscono interpretazioni opposte della Costituzione degli Stati Uniti. I contributi di Johnston e Losensky, così come quello di Von Flotow, che si colloca nella realtà bilingue del Canada, forniscono informazioni molto dettagliate con un nutrito elenco di materiali, mentre quello di Sedarat descrive la scelta del Queen’s College della City University of New York di far seguire ai futuri traduttori corsi di scrittura creativa nel genere testuale di loro specialità.
La seconda sezione comprende contributi che riportano esperienze di didattica, siano esse un intero corso o un seminario, all’interno di percorsi di studio non necessariamente finalizzati alla formazione di traduttori. Li accomuna un approccio collaborativo e l’accento sulla responsabilità del traduttore, la necessità di fare scelte coerenti, frutto di un lavoro interpretativo del testo ma anche delle relazioni che esso intrattiene con altri testi e con il mondo. Anche chi, come Brian J. Baer, fa proprio il funzionalismo di Reiss, Vermeer e Nord, dilata il concetto di skopos per far riflettere gli studenti su che cosa può essere taciuto e che cosa deve essere esplicitato per il lettore, ivi compresi i vincoli di ordine culturale. O Markus Nornes, che pur insegnando traduzione audiovisiva, sceglie di non limitarsi a quella che definisce «semantica meccanica della comunicazione» e dedica invece tempo ad attività che mettano in discussione il rapporto fra immagine e testo audio o sottotitolo utilizzando lingue rare o scene dove si mischiano pensieri e parole effettivamente pronunciate. Interessante pure il saggio di Karen Van Dick sul corso dedicato alla traduzione del poeta greco Konstantinos Petrou Kavafis, in cui gli studenti approfondiscono aspetti di ricerca sulle numerose traduzioni e ritraduzioni in varie lingue, nonché sugli adattamenti multimediali.
La terza sezione, dedicata alla didattica degli aspetti teorici e storici della traduzione, nonché alla didattica di testi in versioni tradotte (per esempio nei corsi di Letterature comparate o World literature), illustra esperienze accomunate dal ricorso alla pratica, sia essa per mettere in discussione il concetto di equivalenza (Malena & Penrod) o di possibilità/impossibilità della traduzione (Cotter). Più speculative le attività descritte da Karen Emmerich nell’ambito di un dottorato di ricerca presso la University of Oregon, dove si riflette anche sulla fruizione del testo tradotto, mentre un approccio teorico-pratico caratterizza il corso descritto da Ignacio Infante, che conduce i suoi studenti in un viaggio fra la traduzione applicata a vari settori (fra cui antropologia, psicologia, ingegneria, tecnologia) e le conseguenze che tale applicazione ha generato.
Il volume si chiude con un capitolo dedicato al confronto fra modelli pedagogici applicati alla traduzione e una rassegna piuttosto breve su testi introduttivi ai translation studies e manuali. Nella rassegna pedagogica, Colina e Venuti presentano l’approccio positivista di trasmissione del sapere in un modo talmente semplificato da sembrare caricaturale: si fatica a credere che qualcuno pensi di insegnare a tradurre senza fare il minimo cenno al contesto del testo fonte o alla destinazione del testo tradotto. Il modello costruttivista, qui notevolmente apprezzato, presenta indubbi vantaggi, ma a mio parere è particolarmente indicato per preparare traduttori che lavoreranno con agenzie o organizzazioni, dove il lavoro di squadra è la norma. L’applicazione dello stesso modello a testi letterari parrebbe avere senso più che altro per sottolineare la condizione di apprendimento e ricerca costanti che caratterizzano la professione del traduttore.
Un’altra piccola critica riguarda la scelta “geografica” dei contributi. Vero è che l’obiettivo era una rassegna di metodologie ed esperienze didattiche indipendentemente dal dato geografico, ma il fatto che ventuno contributi provengano dagli Stati Uniti, due dal Canada, uno dall’Inghilterra, uno dall’Irlanda del Nord e uno dalla Spagna stupisce un poco in un volume che intende fornire una rassegna di pratiche, quindi evidentemente situate.
Chi traduce e insegna traduzione difficilmente troverà metodologie innovative in Teaching Translation, benché le pratiche descritte siano ricchissime di spunti e confortanti per l’opera di sensibilizzazione degli studenti, lo spazio per la riflessione sulla complessità dell’atto traduttivo e lo sviluppo di capacità critiche e interpretative che superano i confini del testo. Al contrario, chi tiene corsi di traduzione ma non ha esperienza di lavoro con agenzie o case editrici potrà trovarvi tante attività da proporre in aula. Il che, considerando che negli Stati Uniti – come in Italia – i docenti di traduzione raramente sono traduttori, non può che giovare alla didattica della traduzione in ambito accademico. Il grosso problema potrebbero essere i numeri, visto che i corsi cui si fa riferimento nel testo coinvolgono un numero limitato di studenti, mentre nelle nostre università, soprattutto per le lingue più studiate, superare il centinaio non è affatto raro.