La recensione / 3 – Dalla traduzione come atto creativo alla traduzione professionale

di Mario Marchetti

A proposito di: La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920), a cura di Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè e Michele Sisto, Macerata, Quodlibet, 2018, pp. 320, € 22,00

Il titolo che abbiamo scelto per questa recensione del saggio collettivo La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920) vuole portare l’attenzione su uno in particolare dei tanti aspetti di questo prezioso libro dovuto all’agguerrita collaborazione di Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè e Michele Sisto. Innanzitutto un complimento all’oggetto libro, elegante, curato tipograficamente e nella lingua. E ancora un complimento all’intelligente progetto che lo sottende. Il volume è suddiviso in cinque capitoli che seguono un ben preciso filo di ragionamento (Avanguardia e regole dell’arte a Firenze di Anna Baldini, Gli editori e il rinnovamento del repertorio di Michele Sisto, I mistici tedeschi tradotti e narrati da Giuseppe Prezzolini di Stefania De Lucia, Traduzione come importazione di posture autoriali. Le riviste letterarie fiorentine d’inizio Novecento di Irene Fantappiè, Nel cantiere del romanzo: il Wilhelm Meister della “Voce” di Daria Biagi) preceduti da una nitida Introduzione e seguiti da una serie di utilissimi apparati (Traiettorie in cui si delineano i profili dell’editore Rocco Carabba, di Giovanni Papini, di Rosina Pisaneschi ‒ interessante profilo di donna intellettuale tornata nell’ombra col fascismo ‒, di Giuseppe Prezzolini, di Alberto Spaini; Antologia di brani significativi di una serie di protagonisti culturali dell’epoca: oltre ai nomi appena citati, Croce, Slataper, Ciampoli, Mazzucchetti, Kraus, Soffici, Spaini, Serra, Tavolato, Gobetti; Glossario, dove si definiscono le categorie concettuali utilizzate; Bibliografia; Indice dei nomi).

Ricchissime le informazioni che vengono fornite sui testi di autori tedeschi pubblicati nel ventennio in esame dagli editori all’epoca egemoni del mercato (i milanesi Treves ‒ editore di riferimento della borghesia postunitaria con la sua «Biblioteca amena», che ha nella sua scuderia De Amicis e D’Annunzio ‒ e Sonzogno, più popolare con la sua «Biblioteca universale» e con le opere del celebre deputato dell’estrema sinistra radicale Felice Cavallotti; il torinese Bocca ‒ il cui campione è Cesare Lombroso ‒ che diffonde testi di scienza o pseudoscienza di matrice positivista, ma anche L’unico di Max Stirner) o degli editori allora innovativi e di punta (Rocco Carabba con la sue collane «Cultura dell’anima», diretta da Papini, e «Antichi e moderni», diretta da Borgese; Laterza con le sue collane «Biblioteca di cultura moderna,» diretta da Croce, e «Scrittori stranieri», diretta da Manacorda; e la Casa Editrice Italiana con la collana «Quaderni della Voce» diretta da Prezzolini).

In generale, per quanto riguarda gli autori tedeschi, ma non solo, le principali case editrici curano poco le traduzioni, spesso condotte su versioni francesi con tagli e rimaneggiamenti utili a rendere i testi più digeribili per il lettore, per non dire che praticamente tutta la narrativa tedesca uscita in quel ventennio e oggi considerata imprescindibile – come I Buddenbrook di Thomas Mann o I turbamenti del giovane Törless di Robert Musil o ancora La metamorfosi di Kafka – non era tradotta. Pochissime le eccezioni di valore accanto ad opere ottocentesche o ad autori oggi dimenticati come il Nobel Paul von Heyse o lo spregiudicato e talora pruriginoso Max Nordau. Simile disattenzione colpiva anche i romanzi italiani dell’epoca ora canonici, come quelli di Svevo, costretto a pagare le pubblicazioni di tasca propria, o anche quelli di Pirandello e Tozzi, mescolati alla rinfusa in collane commerciali.

Ma l’aspetto più stimolante del volume è, attraverso la specola della letteratura tedesca tradotta, il quadro dei fermenti culturali che animano i primi venti anni del secolo. Sono gli anni delle riviste fiorentine, del «Leonardo» (1903-1907) di Papini e Prezzolini, della «Voce» (1908-1916) di Prezzolini e De Robertis, di «Lacerba» (1913-1915) di Papini e Soffici. E in quegli stessi anni comincia a uscire «La Critica» (1903-1944) di Croce, dal 1907 per i tipi di Laterza. Sicuramente, all’epoca, le personalità di maggior spicco come influencer, certo rispetto a un’élite di lettori e intellettuali, erano Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, che dopo quegli anni di intenso fervore, al temine della guerra, sia pur in maniera diversa e in diversa misura, come tanti altri si avvicinarono al fascismo: l’ambiguo Papini diventò Accademico d’Italia e il più disincantato Prezzolini diresse per vent’anni, dal 1930, la Casa italiana annessa alla newyorchese Columbia University e, dopo la guerra, collaborò alla rivista «Il Borghese» di Leo Longanesi. Ma nel periodo che ci interessa entrambi scopersero e si innamorarono di autori tedeschi rispetto ai quali operarono una vera e propria azione di impossessamento. La missione di farli conoscere in Italia e anche il problema di come tradurli ne fu la naturale conseguenza. Si può dire che proprio in tale frangente, sebbene in maniera non sistematica e poco consapevole, si pose il nodo della traduzione (Stefania De Lucia definisce Prezzolini «un teorico della traduzione mancato», p. 111). Per capire il loro atteggiamento, come quello anche di Slataper e di Tavolato, occorre inquadrarlo nell’aura culturale delle riviste dell’avanguardia fiorentina con il loro culto del frammento ‒ inteso però non come semplice bella scrittura ‒, con l’interesse per il lirismo e la totale indifferenza per il romanzo, considerato un genere ibrido, inferiore, troppo costruito e fatalmente costretto a compromessi (e ce ne volle perché il romanzo venisse criticamente apprezzato, e il merito principale va qui a Borgese, il futuro ideatore della mondadoriana «Biblioteca romantica», e, poi, agli interventi critici proustiani di Giacomo Debenedetti sulla rivista gobettiana «Il Baretti»). Altro tratto di quell’aura, intrecciato al precedente, è la ricerca dell’emozione soggettiva, la ricerca, dentro e dietro l’opera, dell’uomo, della sua verità, in sostanza la ricerca di una postura da imitare o addirittura da creare, con tessere se non con brandelli dell’opera ammirata. Merito di tale impostazione, peraltro con tutte le sue distorsioni, è di aver superato la precedente indifferenza verso la traduzione, la sciatteria allora dominante nel campo. La traduzione diventa un atto creativo, e il testo tradotto si propone come testo profondamento altro rispetto all’originale. Resta, con questo, una connessione spirituale, un legame con la verità che vi si è individuata.

E così Prezzolini nel 1904 incontra Novalis ‒ emblema e summa del romanticismo tedesco con i suoi Inni alla notte e i romanzi incompiuti I discepoli di Sais e Heinrich von Ofterdingen ‒ e lo legge nella traduzione francese di Maeterlinck, per poi nell’estate recarsi in Germania, dove approfondisce la conoscenza della lingua tedesca, superando il suo precedente odio per «tutto quello che sa di tedescheria» (p. 93). Il ventiduenne Prezzolini si rispecchia in Novalis, in cui vede un contemporaneo, un mistico come lui stesso, in cui riconosce «il suo stesso dissidio tra l’umo pratico e il sognatore» (ibidem) e che «agisce sul mondo circostante trasformandolo col pensiero e con la scrittura» (p. 75). Il frutto di questa infatuazione, nel 1905, è il Novalis (primo e ultimo titolo della collana «Poetae Philosophi et Philosophi Minores» dell’editore milanese Antongini). Scrive Prezzolini nella prefazione al volumetto:

le opere incomplete hanno uno charme particolare che non hanno le opere finite, e poiché ci lasciano liberi di renderle più complete a nostro arbitrio, accarezzano anche le nostre facoltà creative, e ci piacciono perciò più delle altre dove non si può togliere o aggiungere nulla. […] Il lettore è il vero autore del libro. Il traduttore vero è il mitologo che trasforma in poesia lontana, ma più reale, la poesia di un altro. […] La mia traduzione è talora molto libera, talora molto letterale; ho cercato di dare il mio Novalis, più che un Novalis ad uso e consumo di tutti: tanto più che allora non sarebbe stato Novalis. Ogni lettore ‒ diceva questi deve essere il vero autore; è lui che rifà il libro; l’autore non ne fornisce che l’occasione (p. 224).

Prezzolini arrivò, pare, ad aggiungere nella sua raccolta frammenti inesistenti nell’originale, tanto che le sue scelte provocarono la rottura con i curatori della collana che, appena nata, chiuse. In Studi e capricci sui mistici tedeschi («Quaderni della Voce», 1912) arrivò addirittura a inventarsi il personaggio fittizio di Giovanni von Hooghens. Ma al di là di questo capriccio prezzoliniano quel che interessa qui è la metodologia di taglio, montaggio e frammentazione che troveremo in tante traduzioni di protagonisti dell’avanguardia fiorentina.

Nel saggio di Irene Fantappiè si analizzano altri tre interessanti casi: quello dello Schopenhauer di Papini (La filosofia delle università, «Cultura dell’anima», 1909, tradotto insieme al filosofo e matematico Giovanni Vailati), dello Hebbel del vociano Slataper (Diario, «Cultura dell’anima», 1912), del Kraus di Italo Tavolato (Aforismi, «Lacerba», 15-1-1913). La traduzione in tutti questi casi viene intesa come «importazione» o come «creazione» di «posture autoriali» (pp. 112-113). Schopenhauer viene presentato nella prosa papiniana come un «autore provocatoriamente antiaccademico» (p. 119); la sostanza di Hebbel viene ricavata non dalle sue celebri tragedie, ma dai Diari, che per Slataper rappresentano il suo capolavoro, perché superano la mera letterarietà sprigionando l’uomo con la sua visione agonistica e tragica dell’esistenza (cfr. pp. 241-243) o, in altri termini, la verità di una vita, l’obiettivo stesso che si pone Slataper come artista; l’iconoclasta Kraus, con una certa forzatura, viene annesso da Tavolato «agli orizzonti estetici e ideologici» (p. 256) del futurismo. Notiamo di passata il ruolo importante che ebbero i triestini nell’ambiente fiorentino dell’epoca come mediatori della cultura tedesca: da Scipio Slataper ‒ morto sul Podgora nel 1915, autore dell’autobiografia frammentaria Il mio Carso in cui si traccia la storia della sua costruzione umana ‒ al poco noto Italo Tavolato ‒ che introdusse pionieristicamente Karl Kraus in Italia, bisogna dire con scarsa eco fino agli anni settanta del secolo scorso, quando venne recuperato grazie a Roberto Calasso e Cesare Cases ‒, ad Alberto Spaini, oltreché autore in proprio di impronta novecentista e bontempelliniana, valente traduttore di romanzieri e drammaturghi tedeschi contemporanei, ma anche di Goethe. Della vivace colonia fiorentina di sudditi austroungarici di lingua italiana, ricordiamo, facevano anche parte i fratelli Stuparich e il filosofo Carlo Michelstaedter, morto suicida nel 1910 dopo aver terminato di scrivere La persuasione e la rettorica. Firenze fu insomma nei primissimi decenni del secolo scorso uno straordinario melting pot culturale, in cui si incrociavano, fecondandosi a vicenda, variegate istanze ideali.

E appunto con la traduzione del Wilhelm Meisters Lehrjahre (Le esperienze di Wilhelm Meister, «Scrittori stranieri», 2 voll., Giuseppe Laterza & Figli, 1913 e 1915) per mano di Spaini e Rosina Pisaneschi si arriva a una svolta (si noti già l’innovativo rispetto per il nome tedesco del protagonista, Wilhelm, anziché ricorrere, com’era d’uso, all’italiano Guglielmo, che resterà ancora nella traduzione Bur del 1954, dovuta a Tom Gnoli). Non a caso si tratta del venerato Goethe e non a caso il romanzo viene edito nella collana più filologica diretta da Guido Manacorda sotto la supervisione di Benedetto Croce. come ricorda Spaini nel suo Autoritratto triestino (Edizioni di storia e letteratura, 2002), la traduzione avviene comunque su suggerimento e spinta di Prezzolini, che ravvisa nel romanzo una carica di modernità consonante col suo pragmatismo filosofico teso a incidere con l’azione sulla realtà, in un superamento della sua giovanile identificazione con Novalis. Il Meister è infatti un romanzo di sviluppo spirituale che sfocia nella scelta di integrare la realtà esterna nel proprio percorso ‒ e non di rifiutarla romanticamente ‒ allo scopo di diventare, secondo le parole di Spaini (p. 147), «un utile cittadino del mondo». Il pregiudizio nei confronti del romanzo, non tanto come genere ma per il messaggio di cui è portatore, inizia dunque a essere trasceso. E così i due giovani vociani realizzeranno con un lavoro di quattro anni una prima traduzione professionalmente consapevole e filologicamente attenta, con una nuova sensibilità maturata anche sotto l’influsso di Borgese, giovane docente di Storia della letteratura tedesca a Roma. Nel frattempo, nel 1912, viene ristampata da Gino Carabba (figlio di Rocco), a cura di Domenico Ciampoli, una vecchia versione del Meister col titolo di Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, risalente al 1835 e attribuita a Giovanni Berchet, in realtà traduzione di una dilettantesca riscrittura francese dell’opera. Sull’iniziativa di Ciampoli non tardano a cadere gli strali acuminati di Spaini prima e di Lavinia Mazzucchetti poi in due interventi pubblicati sulla «Voce» nel corso del 1912. È fatta: sta affermandosi «una nuova figura di traduttore ‒ un traduttore non più soltanto letterato, ma specialista di una data lingua e cultura» (p. 152).

Dopo la guerra, sarà un’altra storia. Opereranno molti meritevoli traduttori attenti agli originali. Significativa in tal senso è la nascita, nel 1921, della «Biblioteca sansoniana straniera» diretta da Guido Manacorda che pubblicherà per la prima volta in modo sistematico classici con testo a fronte. Non si può quindi più sgarrare troppo. Per i tedeschi, in particolare, compariranno qui il Goethe poeta e drammaturgo e l’intero corpus wagneriano, con un’ancora scarsa attenzione per la narrativa. Quanto ai romanzi, la loro rivalutazione letteraria sarà coronata negli anni trenta dal varo della mondadoriana «Biblioteca romantica» sotto l’egida di Borgese, che pubblicherà quaranta titoli di classici ottocenteschi, tra i quali cinque tedeschi, di cui due dell’inevitabile Goethe. Altri classici ottocenteschi compariranno nei «Narratori stranieri tradotti» di Einaudi alla fine degli anni trenta: sempre un Goethe, I dolori del giovane Werther, e un Hoffmann, La principessa Brambilla con una puntata nel primo Novecento grazie ad America di Kafka pubblicato ormai nel 1945, e tutti tradotti da Alberto Spaini. Altri ancora vedranno la luce nei primi anni quaranta nella collana «Corona» di Bompiani, tra cui un Hoffmann e un Tieck, a testimonianza del particolare interesse per il romanticismo tedesco dei letterati italiani dell’epoca, ricettività su cui non poco aveva influito l’insegnamento di Arturo Farinelli nell’ateneo torinese. Ma i contemporanei? Anche qui vengono meno le vecchie resistenze. E nello stesso torno di tempo (1929) Modernissima, con la collana «Scrittori di tutto il mondo» guidata dalla bussola del vulcanico ed eclettico Gian Dàuli, e Sperling & Kupfer con la collana «Narratori nordici», curata dalla germanista Lavinia Mazzucchetti, se ne escono già a partire del loro primo numero con romanzi o racconti tedeschi di recente comparsa (Il diavolo di Alfred Neumann per Modernissima e Disordine e dolore precoce di Thomas Mann per Sperling & Kupfer), entrambi del 1926. Ma chi dimostra l’intuito più temerario è Dàuli, che fa tradurre e pubblicare già nel 1930 il capolavoro sperimentale ed espressionistico di Alfred Döblin Berlin Alexanderplatz, appena uscito in Germania, nella versione, ancora, di Alberto Spaini. Tre anni dopo, nel 1933, cominceranno a uscire i volumi della «Medusa» mondadoriana che daranno grande popolarità ad autori come Fallada, Werfel, Thomas Mann, Carossa, Feutchwanger e tanti altri.

Attendiamo con impazienza un secondo volume della Letteratura tedesca in Italia che illumini e approfondisca il fervido periodo tra le due guerre, in cui l’editoria italiana entra nella modernità e in cui la narrativa tedesca penetra nella cultura italiana giocandovi un ruolo di primo piano, in particolare nei confronti del pubblico dei lettori. Ci scusiamo infine per la tardiva recensione, ma questo primo volume della ricerca con i tanti stimoli che offre non è certo un instant book destinato al rapido oblio. Tutt’altro.