La recensione / 4 – Un laboratorio a tre dimensioni

di Alice Gardoncini

A proposito di: Cesare Cases, Laboratorio Faust. Saggi e commenti, a cura di Roberto Venuti e Michele Sisto, Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 573, € 32,00

Se l’essenza di un mito non risiede nella sua origine ma coincide invece con la storia e con le tappe della sua stessa elaborazione, allora Laboratorio Faust contribuisce in modo decisivo, e si potrebbe dire programmatico, alla ricostruzione di ciò che il capolavoro goethiano ha significato per la seconda metà del Novecento italiano.

In un’intervista del 1971 Cesare Cases, rievocando la tavola rotonda in cui si presentava al pubblico la traduzione italiana di Franco Fortini del 1970, riferiva che tra i critici tedeschi circolava un diffuso stupore «per il fatto che simili traduzioni rivelano la possibilità per noi [italiani], di un rinnovato contatto con testi che sembrano non dir più nulla alle nuove generazioni in Germania» (p. 178). Affermazione che se inizialmente può a sua volta stupire, dà in realtà voce al ben noto fenomeno secondo il quale alcuni capolavori del passato raggiungono maggior leggibilità all’estero, dove tradurli, e soprattutto ritradurli, periodicamente è un’operazione che non ha bisogno di essere legittimata. E dà conto al contempo di come Cases ritenesse di avere un punto di osservazione privilegiato sul Faust.

Tanta maggiore evidenza acquista la definizione di magnum opus che compare in apertura della quarta di copertina – mutuata dallo stesso Cases – se la si considera nel senso primo del termine, ovvero come “lavoro”, “mestiere” messo al servizio dell’impegno culturale. Nelle tre principali edizioni italiane novecentesche del Faust, il germanista ha infatti svolto un ruolo chiave: come curatore e critico (per l’edizione Einaudi, 1965, nella traduzione di Barbara Allason), come revisore e consulente (per quella Mondadori, 1970, traduzione di Franco Fortini), come autore di un apparato di note (purtroppo inconcluso, per l’edizione Garzanti, 1989, versione di Andrea Casalegno). E infine svolgendo, in parallelo, una lunga serie di conferenze e interventi critici su riviste, enciclopedie e persino manuali scolastici.

Questa pubblicazione di Quodlibet cade nel centenario della nascita di Cases e ripercorre l’intero arco cronologico del suo confronto e dialogo con il Faust goethiano. A partire dagli Scritti sul Faust di György Lukács, Cases sviluppa una propria interpretazione dichiaratamente marxista e militante: nello Streben faustiano che rifiuta la «prosa della vita» legge un’alternativa alla lusinga capitalista impersonata da Mefistofele (sviluppando le annotazioni di Marx che scorgeva nella magia mefistofelica l’immagine del denaro). Di conseguenza la tragedia faustiana è quella dell’intero genere umano.

Il lettore di Laboratorio Faust ha la possibilità di seguire nella sua interezza l’avventura interpretativa di Cases (e ciò che non è contenuto nella sezione Saggi viene accuratamente citato e commentato nell’introduzione), durata quasi cinquant’anni e caratterizzata da un impegno almeno equivalente a quello dello stesso Goethe con il suo Faust. Ma in tale confronto ne va – come viene messo in luce dalle due introduzioni al volume – anche e soprattutto di un’idea della letteratura e del suo ruolo all’interno dello spazio politico e della storia.

Oltre all’indubbio interesse critico che nasce dal vedere raccolti in un unico luogo tutti gli interventi del germanista, il volume ha un ulteriore merito. La scelta coraggiosa e non scontata alla base del libro è infatti quella di mettere sullo stesso piano materiali eterogenei per natura e destinazione.

Agli interventi critici di Cases, infatti, il volume affianca le osservazioni (inedite finora) fatte a Franco Fortini traduttore, una parte dell’epistolario tra i due, e infine l’apparato di note a cui Cases lavorò tra il 1985 e il 1988 e che avrebbe dovuto accompagnare la nuova traduzione di Andrea Casalegno per Garzanti (apparato pubblicato qui per la prima volta). Così, il libro si configura come un oggetto molteplice, tridimensionale, che apre lo spazio a due dimensioni del testo ne varietur e moltiplica quello “a palinsesto” della traduzione, mettendo in luce anche gli aspetti solitamente nascosti del lavoro editoriale.

In questa prospettiva il materiale più sorprendente per il lettore è contenuto nel capitolo Osservazioni sulla traduzione del Faust di Franco Fortini (1967-1969), che occupa più di un terzo del volume. Se questo non è per forza un dato significativo di per sé, vuol pur dire qualcosa, come suggerisce lo stesso Sisto descrivendo l’introduzione di Cases al Faust einaudiano come la «più ampia introduzione al Faust pubblicata nel Novecento» (p. XVIII). Pur essendo Cases un revisore d’eccezione, questi materiali altro non sono che i commenti, le correzioni e le proposte di modifica alla traduzione di Fortini: testi ibridi, per loro natura non pubblicabili, che se da un lato lasciano trasparire l’immediatezza e l’ironia burbera che caratterizzava il rapporto tra i due intellettuali, al contempo riflettono l’attenzione e il senso di responsabilità dettati dalle esigenze del testo. Le annotazioni puntellano lo scorrere dei dodicimila versi indicando di volta in volta alternative lessicali, passi poco chiari, riferimenti extratestuali che possono indirizzare le scelte, confronti con le precedenti traduzioni non solo italiane. Un materiale ricchissimo di spunti metodologici, esemplare per chiunque sia interessato non solo agli studi goethiani, ma anche e soprattutto alle questioni relative al tradurre e al lavoro editoriale.

Laboratorio Faust contiene un’importante lezione di metodo, innanzitutto per il tipo di lettura che presuppone. Con questo si intenda qualcosa di molto tangibile e concreto: mettere a testo osservazioni e note, infatti, è un’operazione per certi versi paradossale, che spinge chi legge ad assumere una posizione – e anzi quasi una postura fisica – simile a quella dello stesso revisore. Il lettore incuriosito vorrà infatti confrontare le note con il testo originale e con la traduzione fortiniana, le lettere dei due amici con le osservazioni di Cases (anche se i passi principali sono riportati in nota da Venuti e Sisto), e così via, ingombrando la scrivania di testi e appunti e facendo correre continuamente lo sguardo da una parte all’altra del volume.

Si arriva così alla seconda lezione significativa: quella della concretezza, della vertigine data dal continuo scambio tra due ordini di grandezza. Da un lato l’analisi minuta della singola costruzione grammaticale e della singola parola (perché «un nuovo traduttore deve scegliere», p. 97) e dall’altro l’interpretazione generale, la grande costruzione culturale intorno al Faust che coinvolge niente di meno che i destini dell’umanità. Lo sguardo di Cases si muove dunque continuamente tra l’universale e il particolare, ma anche tra due ordini di realtà. Quello dell’opera, che con tutte le sue esigenze di coerenza interna impone, per esempio, di «mantenere, per quanto possibile, la stessa parola per lo stesso concetto e la sua espressione tedesca» (p. 197), e quello della realtà esterna all’opera: dietro a moltissime scelte lessicali scopriamo uno scavo storico e documentale rigoroso condotto sui dizionari, sulle opere di commentatori, critici e altri autori, ma anche su semplici dati di realtà.

Sono esemplari a questo proposito le Due notarelle faustiane nate proprio dalla collaborazione con Fortini, o il saggio Trono e scettro di Mefistofele, in cui singoli problemi traduttivi danno vita a riflessioni di ben più ampio respiro che vanno dalla storia della cultura alle questioni di filosofia del linguaggio. Quando Cases, nelle sue osservazioni, suggerisce di seguire Amoretti, uno dei precedenti traduttori, «attendibile perché buon alpinista» (p. 377), oppure quando ventila persino la possibilità di visitare insieme a Fortini il Museo della scienza e della tecnica per «vedere se c’è un telaio dell’epoca da far funzionare per capire se sibilava o ronzava o rombava» (p. 227), ciò che il lettore ne ricava è un ritratto molto vivido e reale di come l’astratto e l’eccelso di un’opera che Goethe definiva incommensurabile, si misuri e si fondi anche su una materialità con cui la traduzione deve necessariamente confrontarsi.