di Giulia Baselica
A proposito di: Alessandro Niero, Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi, Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 378, € 28,00
Studioso e docente di letteratura russa all’Università di Bologna, autore di numerosissimi contributi sulla riflessione traduttologica – ricordiamo almeno i volumi Una incognita di Zamjatin. Problemi di traduzione (Fasano, Schena, 2001) e L’arte del possibile. Iosif Brodskij poeta-traduttore di Quasimodo, Bassani, Govoni, Fortini, De Libero, Saba (Venezia, Cafoscarina, 2008) – e traduttore, non soltanto, ma soprattutto, di poesia russa (Stratanovskij, Fedin, Sluckij, Prigov, Kropivnickij, Ryžij, Cholin e altri), con il volume Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi Alessandro Niero apre una nuova via negli studi traduttologici. Nuovo e atteso da tempo è infatti l’approccio allo studio della traduzione della poesia: in un’ottica duplice, che se da un lato converge verso l’anatomia microscopica del verso originale e della resa in traduzione, dall’altro si allarga a definire l’ampio contesto letterario e culturale determinato dalla prospettiva sincronica e diacronica della traduzione e, più precisamente, della tradizione della traduzione. Proprio sull’importanza della tradizione innestata nella cultura letteraria, e quindi nella storia della ricezione italiana della traduzione poetica, insiste Niero, che si domanda se e in quale misura il traduttore, negli ultimi trent’anni, si senta legittimato ad assumere il ruolo di «reinventore della forma», sebbene «la tradizione di traduzione» gli suggerisca il contrario (p. 314), alludendo poi alla necessità di provvedere a una «vera storia della poesia tradotta in Italia» (p. 314 nota). E questo volume già vi contribuisce: quattro capitoli, in particolare, si soffermano sulla storia della traduzione e della ricezione di alcuni monumenti letterari: Metro e non solo: gli “Onegin italiani”; Ritardi e improvvise accelerazioni: la vicenda di Afanasij Fet; Il fiore del verso russo di Renato Poggioli visibilissimo traduttore; Poeta che traduce poeti: il Lenin “italiano” di Angelo Maria Ripellino.
L’approccio descrittivo, specifico tratto denotativo dei translation studies, consente all’autore di prendere in esame una notevolissima quantità di esiti traduttivi, di analizzarli dettagliatamente – in ordine agli aspetti metrici, ritmici, rimici, fonetici; in termini di registro linguistico e di valore semantico – per poi individuare nelle ricorrenti strategie traduttive alcuni e definiti orientamenti atti a costituire, nel loro insieme, la formulazione di un contributo teorico sempre e debitamente collocato in un determinato periodo storico, rispetto al quale esso stabilisce un rapporto di consonanza o di dissonanza. Di quest’ultima è esempio il riferimento all’opera traduttiva di Giovanni Buttafava, che nel 1969 propose la versione italiana di quattro liriche di Afanasij Fet: «Buttafava non si adegua del tutto alla temperie versoliberistica di allora e decide di veicolare Fet al lettore con ritmi “addomesticati” che sono sì pienamente italiani ma sono sempre latori di una tendenza alla misura e alla organizzazione del verso» (p. 100).
Gli otto capitoli che costituiscono il saggio coinvolgono il lettore in un’esperienza di analisi e di autoanalisi tanto impegnativa quanto chiarificatrice del multiforme e infinito processo di trasformazione del verso originale russo nella versione, originale anch’essa, della parola poetica italiana. In merito alla traduzione della poesia di Dmitrij Prigov (Tradurre la poesia concettualista: il caso di Dmitrij Aleksandrovič Prigov), l’autore si sofferma, per esempio, sul proprio modus operandi determinato dall’esigenza di presentare un poeta che, a dispetto della propria maestria versificatoria, sceglie di interpretare «il ruolo di colui che non padroneggia fino in fondo la tecnica della versificazione, non sa modulare adeguatamente i registri linguistici e scrive con il piglio scanzonato di un intemperante novellino» (p. 287). Ai momenti di autoanalisi, come quello indotto da Prigov per via dell’«implicito parallelo tra la sua condizione di scrittore deliberatamente sorvegliato e quella necessariamente sorvegliata del traduttore» (p. 284), si alternano gli esperimenti di analisi, autentiche e dense lezioni offerte al lettore con lo spirito di una condivisione generosa e idealmente aperta al continuo confronto di traduzioni altrui. Come l’indagine volta a verificare le sonorità montaliane rilevate nelle traduzioni delle poesie di Iosif Brodskij ad opera di Giovanni Buttafava, per la quale Niero illustra il procedimento adottato: dopo aver riletto integralmente l’opera poetica di Eugenio Montale, ha analizzato il lessico utilizzato da Buttafava nelle traduzioni delle poesie di Brodskij, rilevando, così, le assonanze tra i due corpora poetici – l’insieme delle liriche montaliane e l’insieme delle traduzioni dell’opera di Brodskij – e ponendo a confronto gli esiti ottenuti con il Dizionario della poesia italiana del Novecento di Giuseppa Savoca (Bologna, Zanichelli, 1995). La conclusione introduce, a sua volta, un’interessante considerazione:
in definitiva, se davvero, quindi, Buttafava, incrostando di montalismi le sue versioni, ha inserito Brodskij nell’alveo di una lirica stilistica preesistente, altro non ha fatto se non accentuare il processo deterministico (spesso latente quando si imbastiscono versioni poetiche), secondo il quale un traduttore, inserendosi in una rete di associazioni preconsolidate, “scivola” dentro una tradizione già pre-attestata, da cui non è sempre facile prescindere. Anzi, in qualche caso il traduttore può anche ritenere che, da quella tradizione, sia opportuno non prescindere (p. 278).
Attribuire alle opere poetiche tradotte echi di altre voci (oltre a Montale, per esempio, l’autore evoca Gozzano e Bemporad trattando la poesia di Fet e cita Balestrini nel ragionare su una citazione pasternakiana contenuta in una lirica di Prigov) non significa naturalizzare la poesia straniera, bensì accoglierla, per mezzo della traduzione, nel patrimonio letterario italiano.
Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi è uno strumento prezioso che, risultato di una prolungata esperienza di traduzione e di conseguente riflessione teorica, confuta autorevolmente la formulazione «lapalissiana quanto improduttiva» della intraducibilità della poesia, mostrando come, una volta interiorizzata «l’inarrivabilità del modello», l’energia del traduttore potrà deviare «verso la bellezza del tendere a un risultato» (pp. 16-17). E il lettore diviene, qui, partecipe, e non passivo, testimone della traduzione poetica nel suo farsi.