La recensione / 4 – Salvatore Quasimodo plagiario?

di Frédéric Ieva

A proposito di: Elena Villanova, «Nell’ombra del poeta». Quasimodo traduttore dell’Antologia palatina, prefazione e saggio conclusivo di Luciano Bossina, Roma, Carocci, 2018, pp. 220, € 23,00.

Nel 1950, Quasimodo si trovò a riflettere sull’evoluzione della propria poesia notando come essa si fosse orientata verso una maggiore «concretezza del linguaggio» (Salvatore Quasimodo, Una poetica, in Id., Il poeta e il politico e altri saggi, Milano, Schwarz, 1960, p. 25). Egli riteneva, inoltre, che il compito della poesia fosse quello di rifare l’uomo e le sua riflessione poetica si nutriva anche della lettura intensa dei classici che aveva intenzione di tradurre, ponendosi l’obiettivo di rompere «lo spessore della filologia» al fine di restituire a ogni parola il «suo intenso valore poetico» (ivi, p. 24).

Da questi brevi cenni si intravedono già quali erano gli scopi che egli si prefiggeva mentre traduceva. Per il poeta siciliano era essenziale restituire la voce originaria del testo di partenza nella lingua di arrivo, dando vita così al «suo tradurre inimitabile, libero e fedele, dove la fedeltà non è cauto e mortificato ricalco, e la libertà non è disinvolta e svagata e generica dispersione; ma la voce originaria che si prolunga veramente nella nuova senza sopraffazioni» (Introduzione a Fiore dell’Antologia Palatina, Parma, Guanda, 1958, p. 20, e nel libro che qui si recensisce, con alcune varianti, a p. 172).

Questa pregnante definizione del modo di tradurre di Quasimodo era frutto della penna della docente liceale veronese Caterina Vassalini, la donna vissuta «nell’ombra del poeta» nel corso del lavoro di traduzione degli epigrammisti greci dell’Antologia Palatina. Quest’ultima, una raccolta di testi poetici confezionata a Bisanzio verso la metà del X secolo, è divisa in 15 libri e comprende circa 3700 epigrammi. Il Fiore dell’Antologia Palatina include 231 liriche. Vassalini aveva collaborato alla scelta dei testi (come dichiarato nel retrofrontespizio dell’edizione Guanda) ed era autrice dell’introduzione e delle note, mentre si attribuiva la traduzione esclusivamente a Quasimodo.

Il volume ha suscitato reazioni polemiche, come si può notare leggendo gli articoli di: Luciano Bossina (Quasimodo ed è subito scippo. Traduttore di una traduttrice ombra per il suo lavoro sull’Antologia palatina, «La Stampa», 10 gennaio 2019), vale a dire lo stesso studioso che ha firmato la prefazione (pp. 7-11) e la postfazione (pp. 177-200) del presente volume; Paolo Di Stefano (Le amiche dei poeti, vittime (nel silenzio) di abusi intellettuali, «Il Corriere della Sera», 11 gennaio 2019); Maria Grazia Piccaluga (Quasimodo e Caterina, la traduttrice ombra. La rivelazione dalle carte del fondo di Pavia, «La Provincia pavese», 11 gennaio 2019); Cesare Maffi (Troppi e lodatissimi imbroglioni. Vittorini traduceva dall’inglese, per lui quasi ignoto, «ItaliaOggi», 12 gennaio 2019); Michele A. Cortelazzo (All’ombra del poeta La professoressa che portò le parole a Quasimodo, «Il Mattino di Padova», 16 marzo 2019); Francesca Diano (Quasimodo, Vassalini e la gogna mediatica. Che significa tradurre i classici?, pagina del suo blog Il ramo di corallo del 17 marzo 2019, https://emiliashop.wordpress.com/2019/03/17/quasimodo-vassalini-e-la-gogna-mediatica-che-significa-tradurre-i-classici/), la quale, figlia del grecista Carlo Diano citato più volte nelle lettere di Vassalini, difende, a priori e senza aver letto il libro, Salvatore Quasimodo.

Elena Villanova, autrice di un lungo saggio introduttivo (pp. 13-80), offre la trascrizione delle 82 lettere, inviate tra il 13 agosto 1955 e il 30 dicembre 1957 da Caterina Vassalini a Salvatore Quasimodo, di una lettera di Quasimodo e di altri due documenti provenienti dall’archivio di Ada Tacconi, un’allieva di Vassalini. Le sue approfondite ricerche d’archivio, tra cui è da citare un fascio di carte dattiloscritte conservate presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, hanno dimostrato che in questa fatica traduttoria il poeta siciliano lavorò in compagnia di una professoressa di latino e greco del liceo Scipione Maffei di Verona, la quale trasmetteva una prima versione preparatoria e prosastica dei componimenti poetici scelti per la pubblicazione. Si tratta quindi di una scoperta importante, in quanto sino a ora si pensava che la traduzione del Fiore fosse unicamente opera di Quasimodo. Purtroppo il carteggio è incompleto perché alla generosità di Alessandro Quasimodo, che ha messo a disposizione della studiosa le lettere ricevute dal padre Salvatore, non è corrisposta quella degli eredi Vassalini, che non hanno permesso la consultazione delle lettere di risposta di Quasimodo.

L’interrogativo che sorge spontaneo è il seguente: siamo di fronte a un nuovo caso Vittorini-Rodocanachi (cfr. p. 8)? Non proprio. A differenza di Vittorini, il quale si affidò a Lucia Rodocanachi sin dal suo primo lavoro di traduzione dall’inglese (Elio Vittorini, Si diverte tanto a tradurre? Lettere a Lucia Rodocanachi 1933-1943, a cura di Chiara Cavallari ed Edoardo Esposito, Milano, Archinto, 2016, p. 25), Quasimodo, nel momento in cui firmò il contratto per Guanda nel 1955, aveva alle sue spalle un’affermata carriera di traduttore: oltre alle sue versioni shakespeariane, al Fiore delle Georgiche di Virgilio (Milano, Edizioni della Conchiglia, 1942), al Vangelo secondo Giovanni (Milano, Gentile, 1946), occorre ricordare soprattutto i Lirici greci (Milano, Edizioni di Corrente, 1940) con introduzione di Luciano Anceschi, che riscossero un grande successo di pubblico anche presso i filologi, i quali finivano, pur dopo aver notato alcuni svarioni e fraintendimenti nelle sue traduzioni, per elogiarne la resa e l’effetto finali.

Quasimodo era contrario a una traduzione che imitasse pedissequamente la sintassi della lingua di partenza, e all’impiego di una «terminologia classicheggiante» (Salvatore Quasimodo, Sulla versione dei lirici greci, 1939, in Id., Il poeta e il politico e altri saggi, cit., p. 61, citato anche nella postfazione di Bossina, p. 181). Il poeta siciliano, inoltre, attribuiva ai filologi e ai poeti compiti diversi. Il filologo, pur non essendo in grado di cogliere appieno la densità poetica delle parole, svolge nondimeno un lavoro utile in quanto facilita la «scelta di quella parola o costrutto che rientri nella situazione di canto del poeta che si traduce» (Salvatore Quasimodo, Sulla versione dei lirici greci, 1939, in Id., Il poeta e il politico e altri saggi, cit., p. 61). Mentre traduceva Quasimodo era estremamente attento alla resa metrica, attraverso la quale praticava una forma particolare di equivalenza, «la ricerca equilirica» (ivi, p. 62), mirante a restituire la voce poetica del testo di partenza. In sostanza, il poeta siciliano riteneva di esclusiva pertinenza dei poeti il processo che determina la creazione di un linguaggio (cfr. la prefazione di Bossina, pp. 7-9).

Aver indugiato un poco su alcuni aspetti degli scritti teorici di Quasimodo dovrebbe aver reso più chiaro che cosa il poeta di Modica si aspettasse dalle traduzioni della professoressa di Verona. La tesi che il poeta siciliano non conoscesse bene il greco non sembra, a parer nostro, del tutto condivisibile, anzi appare molto significativa la lettera di Vassalini del 2 febbraio 1957, in cui si rammaricava per gli errori che Quasimodo aveva trovato nelle sue versioni (p. 122). E del resto si può documentare, carte archivistiche alla mano, che Vassalini preparò la traduzione di 163 epigrammi, di cui furono pubblicati solo 118 (su 231). Degli altri 113 epigrammi non vi sono tracce di traduzioni preparatorie della Vassalini. Si deve arguire che la versione in prosa di questi componimenti è andata perduta oppure tale mancanza va letta come una «sostanziale riduzione delle responsabilità» (p. 61) di Vassalini? Impossibile rispondere a questo interrogativo, ma forse era centrale l’esito delle relazioni non sempre serene tra il poeta di Modica e la professoressa di Verona. Nella lettera del 26 febbraio 1957 Vassalini appariva molto amareggiata per essere stata «inaspettatamente confinata nella sola “introduzione”» (p. 126) e dal fatto che Quasimodo tentasse di minizzare la sua collaborazione. Vassalini scriveva anche che era solita inviare una semplice «traduzione interlineare di scolastica memoria» (ivi), e in una lettera precedente, risalente al 7 gennaio 1956, aveva specificato che la sua era «una traduzione mortificata, naturalmente, senza nessuna… iniziativa» (p. 92). Certo Vassalini esagerava nell’avvilire in questo modo il suo lavoro, perché sovente le sue traduzioni costituivano un’ottima base di partenza, ritoccate minimamente dal poeta sia per rendere meno aulica la terminologia proposta dalla professoressa sia, più pragmaticamente, per ragioni metriche, come si nota dagli esempi illustrati da Bossina (pp. 177-178; 180; 189; 190; 193; 195).

La frattura tra il poeta e la filologa del resto si era aperta fin dall’inizio. Quasimodo aveva contattato Vassalini nel 1953 proponendole di collaborare alla traduzione del Fiore. Tale progetto si sarebbe concretizzato solo nel 1955, ma appare chiaramente che il poeta siciliano volesse ricevere una traduzione prosastica filologicamente corretta per poi procedere autonomamente alla traduzione in versi. Su questo punto Quasimodo era sempre stato molto fermo, posizione che indusse la professoressa di Verona a scrivere: «non si è sanata la delusione. Io pensavo; certo a torto, ma lo pensavo: che l’antologia sarebbe stata nostra, di tutti e due» (lettera del 4 maggio 1956, p. 102). In un certo senso il lavoro a due che vi fu dietro il Fiore dell’Antologia Palatina venne riconosciuto, ma non quanto, con qualche ragione, avrebbe voluto Caterina Vassalini.

«Nell’ombra del poeta». Quasimodo traduttore dell’Antologia palatina è senza dubbio un testo di un certo interesse perché permette di entrare nell’officina traduttoria di Salvatore Quasimodo e di Caterina Vassalini, sottraendo in parte al celebre letterato il merito di aver tradotto da solo gli epigrammi prescelti, ma forse si sarebbe dovuto dare più risalto al fatto che il volume contiene l’edizione delle lettere di Caterina Vassalini, che, per un perfido gioco del destino, nemmeno in questo caso è stata menzionata in prima di copertina nel frontespizio.