di Giulia Baselica
Gaetano Chiurazzi, a cura di, The Frontiers of the Other. Ethics and Politics of Translation, LIT Verlag, Berlin–Münster–Wien–Zürich–London, 2013, pp. 248, €29,90
Nel 1959 Roman Jakobson, scegliendo di intitolare il suo celebre saggio Aspetti linguistici della traduzione (On Linguistic Aspects of Translation, in On Translation, a cura di R.A.Brower, Harvard, Studies in Comparative Literature, Harvard Universty Press, Cambridge, Ma, 1959, pp.232-239), apriva la strada a un’inedita riflessione sull’atto del tradurre, cogliendovi, appunto, degli aspetti linguistici, ma rivelando, nel contempo, l’esistenza di fisionomie ulteriori (antropologica, filosofica, culturale, esperienziale). Così Gaetano Chiurazzi, nelle pagine introduttive all’interessante volume ‒ che raccoglie dodici contributi, ripartiti in tre sezioni intitolate rispettivamente Translation as Experience of Alterity; Ethics and Politics of Translation; Crossing the Frontiers: the Literature, presentati al convegno internazionale Le frontiere dell’altro. Etica e politica della traduzione svoltosi presso l’Università degli Studi di Torino, l’11 e il 12 febbraio 2013 ‒ citando i teorici dei «Translation Studies» Susan Bassnet, André Léfevere, Antony Pim, Basil Hatim e Jan Mason (ai quali è opportuno aggiungere il nome di James S. Holmes, cui si deve la denominazione stessa della disciplina, descritta in un fondamentale contributo, The Name and the Nature of Translation Studies, presentato nel 1972 a Copenhagen, al terzo Convegno internazionale di linguistica applicata), afferma che tali studiosi tendono a considerare la traduzione come esperienza nella quale il fattore linguistico è molto più circoscritto rispetto agli elementi culturali. Sempre più, osserva il curatore, nella prospettiva attuale dei «Translation Studies» appaiono rilevanti le implicazioni etiche e politiche della traduzione. Caterina Resta (Jacques Derrida: poetica e politica della traduzione) pone allora l’accento sulla necessità di adottare sia una diversa politica della traduzione, sia una diversa concezione dell’idioma, come «condizione dell’apertura e dell’ospitalità» ‒ eco dell’obiettivo etico e dell’atto etico della traduzione, quale momento essenziale nella riflessione di Antoine Berman, richiamati nello scritto di Adalberto Mainardi (The Poet’s Mother Tongue), il quale riconosce nello studioso e traduttore francese il peculiare valore della fedeltà in traduzione attribuito da una teoria non etnocentrica ‒ in virtù della quale la lingua diviene il luogo, o meglio, la dimora, quindi l’albergo, in cui ognuno sa di poter abitare e, soprattutto, di poter accogliere l’altro.
All’incontro nella lingua, non di rado conflittuale, con l’estraneo, con lo straniero, origine di un percorso ‒ un processodialetticocaratterizzatoda tre momenti successivi: estraniazione dell’estraneo, appropriazione dell’estraneo, appropriazione del proprio ‒ è dedicato il contributo di Donatella Di Cesare (Per una politica del tradurre), la quale invita il lettore a soffermarsi, appunto, sulla domanda: «che cosa vuol dire “politica del tradurre”?» E tale cruciale domanda dà luogo, osserva la studiosa, a un secondo interrogativo, non meno importante, inerente al nesso fra i termini ‘politica’ e ‘tradurre’: «il genitivo va inteso in senso oggettivo o soggettivo?». Se soggettiva, la connotazione della politica del tradurre rende possibile l’apertura all’altro, il suo accoglimento; se oggettiva, essa suscita, invece, lo spettro dei condizionamenti, creando i presupposti dell’imperialismo linguistico, quindi del monolinguismo, infine del più terribile degli ‘ismi’: il totalitarismo.
L’azione distruttiva di una politica del tradurre di natura oggettiva può, anzi deve, essere contrastata dall’apertura polifonica all’altro, dunque dal plurilinguismo, che è rivalutazione di Babele, mito fondativo ‒ osserva Silvana Borutti nel saggio Traduction et expérience, traduction et connaissance ‒ non già di un’umanità contrassegnata dallo stigma della punizione divina, bensì come atto benefico e salvifico: la dispersione delle lingue ha preservato l’umanità dal male dell’indifferenziazione. Tuttavia a questo male, alla sterilità del caos, può dar luogo anche la pluralità se non regolata dalla presenza dei confini. Sono proprio i confini a determinare l’identità delle culture e a suscitare l’aspirazione al loro superamento, per incontrare l’altro, quei benjaminiani confini esistenziali evocati da Chiara Sandrin nello scritto Siebzehn Arten von Fleigen. Al traduttore è allora affidato un compito messianico, in quanto figura sovversiva ‒ non, quindi, pusillanime, come invece afferma José Ortega y Gasset ‒ poiché, rivela Donatella Di Cesare, «apre varchi, fa saltare i confini, crea scompiglio, anche fra i coabitanti e i concittadini. Spinge alla rivolta contro ogni patriottismo facendo cospirare le lingue». Ne è interessante esempio lo stile «trasmigratory, caratterizzato da un sincretismo linguistico e culturale senza pari» di Vladimir Nabokov, traduttore oltre che scrittore, al quale Nadia Caprioglio dedica il contributo Il pony di Nabokov.
La più audace, forse la più sublime, esperienza di superamento dei confini si compie nella traduzione della poesia, di per sé intraducibile: il traduttore di poesia ‒ rivela Evgenij Solonovič, notissimo traduttore russo, (già ricordato in «Tradurre», numero 2, Un convegno ricco di idee) nel contributo Esperienza del tradurre poesia: tra possibile e impossibile «fa di tutto per non contraddire il poeta e quindi prova a immaginare che cosa il poeta non ha detto, ma avrebbe potuto dire, se avesse scritto la propria poesia nella lingua in cui viene tradotto». Questo accade perché, nella sua essenza più profonda e più autentica, il poeta è un traduttore e comporre poesie equivale a tradurre: l’illuminata intuizione di Marina Cvetaeva e di Paul Valéry viene ricordata dal già citato Adalberto Mainardi. Ma il poeta è tale perché non possiede una lingua nazionale, insegna, ancora, la Cvetaeva: la nazionalità è separatezza , è clausura nel proprio sé. La lingua del poeta, quella nella quale egli traduce l’esperienza del mondo, trasformata dalle emozioni, è dunque una lingua divina, è quell’idioma puro e assoluto, riconosciuto da Derrida, a un tempo Ursprache dell’alba dell’umanità e sogno di una futura, altissima, umana capacità di esprimere e di comprendere: liberazione, ultima e definitiva, dalla fatica del tradurre.