di Jean-Luc Egger
A proposito di: Alessandro Albano, Angelo Lanzellotti traduttore di costituzioni, Manduria (TA), Piero Lacaita Editore, 2020, pp. 154, € 15,00
Nella travagliata Europa dell’inizio Ottocento le idee di uguaglianza, libertà e giustizia sociale che avevano ispirato la Rivoluzione francese cercavano differenti vie per contrastare le risacche della restaurazione. Lasciati i campi di battaglia a vantaggio delle forze soverchie, occorreva certo impegnarsi nella lotta politica sfruttando i margini d’azione offerti dalle strutture istituzionali che si erano create, ma era pure necessario operare sul piano teorico e dottrinale per evitare che quanto a tale livello era stato raggiunto fosse dimenticato e, in definitiva, messo da parte. Uno dei vettori delle trasformazioni politiche del XIX secolo fu la nozione di Costituzione, e non è del resto un caso che in questo periodo l’Europa conobbe un gran numero di progetti costituzionali (si veda sul punto Jean-Louis Halpérin, Histoire des droits en Europe, Paris, Flammarion, 2020, pp. 110-118). È proprio in tale prospettiva, o «progettualità politica» per riprendere le parole della precisa e documentata introduzione di Alessandro Albano, che si pone l’assidua e instancabile attività del giurista Angelo Lanzellotti quale traduttore di costituzioni; traduttore nel senso lato del termine, ossia colui che si fa messaggero di un contenuto che resterebbe altrimenti ignorato e che in questa veste oltre a farsi carico dell’operazione tecnica di trasposizione linguistica (notevole la sua versione italiana della Costituzione norvegese del 1814, qui opportunamente antologizzata, pp. 123-151), si assume anche il compito di rendere disponibile e accessibile nel migliore dei modi il testo che trasmette.
Da qui la premura del traduttore giurista (o dovremmo chiamarlo con il termine più attuale di giurilinguista?) di pubblicare – «a suo nome e senza l’indicazione del tipografo, per evitargli compromissioni d’ordine politico» (p. 12) – i testi delle costituzioni che andavano formandosi nel Regno delle Due Sicilie o nel Regno di Napoli ma anche altrove (tra le sue costituzioni tradotte figurano pure quelle americana del 1787, repubblicana di Francia del 1799, polacca del 1791, nonché la Magna Carta inglese del 1251), con l’intento in primo luogo di far vivere l’idea stessa di costituzione quale suggello e garanzia di una nuova forma statuale. Bisogna infatti ricordare, e questo permette di capire le motivazioni di fondo di tali sforzi e anche la premura ecdotica del Lanzellotti nello stabilire l’«esemplare genuino» (p. 33) dei testi da lui curati, che per chi aveva vissuto l’epoca rivoluzionaria l’esistenza stessa di una costituzione era il presupposto imprescindibile di ogni società fondata sul diritto, sulla sovranità popolare e sulla legge, secondo il disposto capitale dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che recita: «[u]na società in cui non sia assicurata la garanzia dei diritti e non sia attuata la separazione dei poteri non ha una costituzione». In altri termini, la costituzione – sia essa ottriata, pattizia, federale o popolare – esercita in forza del suo stesso esistere un effetto istitutivo delle forme statuali moderne e, almeno nelle sue configurazioni migliori, pare recare in sé «la impronta della eternità» (p. 91).
Non per questo, tuttavia, una costituzione vale l’altra né ogni costituzione, soltanto perché tale, deve essere accettata. Compito del traduttore è anche quello di glossare e introdurre i testi di cui si fa latore e, nonostante l’infatuazione per l’atto costituzionale, notiamo ad esempio che il giurilinguista di San Vito dei Normanni non esita a condannare testi materialmente improponibili, come il progetto di Costituzione del Regno di Napoli sotto Gioacchino Murat, una carta costituzionale che, secondo le sue parole, «non merita di essere imitata, ma eternamente aborrita» (p. 87). Uno dei pregi del volume è appunto quello di riportare non solo i testi costituzionali «collazionati e corretti» dal Lanzellotti ma anche le sue note, da cui si evincono le posizioni politiche del giurista e le opinioni su singoli aspetti istituzionali: l’opportunità o meno di avere un Parlamento suddiviso in due Camere, i rischi legati alla legislazione d’urgenza («[u]rgenza! Nome funesto a tutte le Repubbliche», p. 60) o, ancora, la necessità di un organo a tutela della Costituzione denominato Eforato nel progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana del 1999 e giudicato come «la parte più bella del progetto» (p. 65), non da ultimo in quanto custode dell’indivisibilità della sovranità del popolo (p. 67).
Né mancano, è importante rilevarlo, precise puntualizzazioni che denotano l’acuta sensibilità linguistica del traduttore: sul termine Parlamento, da preferire a Assemblee primarie in quanto «è antico, è nazionale, è nobile; il popolo lo intende e usa» (p. 58), oppure sull’inappropriatezza del termine provincia per designare le suddivisioni amministrative del Regno delle Due Sicilie: «[d]ispiace ancora maggiormente l’essersi ritenuto il nome di provincia, il quale radicalmente significa paese conquistato; ciò che non compete oggi al nostro paese, né a popoli liberi: dovrebbero dirsi regioni» (p. 95).
Oltre a un evidente interesse storico per seguire nei disposti stessi l’evoluzione delle idee politiche nel periodo napoleonico, i testi costituzionali proposti in questa agile antologia presentano per chi si occupa di legislazione o di scrittura istituzionale un ampio campo d’indagine ove scovare curiosità e dotte trouvailles. Fra queste citeremo ad esempio la parola Arcontato per designare nel progetto di Costituzione della Repubblica napoletana del 1799 l’organo titolare del potere esecutivo e il già menzionato Eforato; due termini che evidenziano come per redigere queste carte fondamentali dei nuovi assetti istituzionali non si guardasse soltanto al recente modello francese, ma si cercasse ispirazione anche nelle prime esperienze di democrazia della Grecia antica, come traspare del resto dai numerosi riferimenti ad Atene e Sparta (oltre che a Roma) nei commenti del Lanzellotti.
Colpisce inoltre l’attenzione meticolosa che tali carte costituzionali prestavano alle «solennità esterne» (p. 68), ossia ai requisiti di forma da osservare per l’adozione e promulgazione delle leggi affinché fosse certo che queste rispecchiassero effettivamente la volontà generale. Non solo si descrive in dettaglio la procedura legislativa, ma in alcuni casi viene prescritta in tutte lettere addirittura la formula di promulgazione che deve incorniciare il testo legislativo pubblicato: «[l]a formola della promulgazione delle leggi, è così concepita: Per la grazia di Dio, e per la Costituzione dello Stato, re di Napoli» (p. 85). Certo, il secolo delle costituzioni fu anche il periodo in cui si rafforzò il parlamentarismo e con esso la fonte legislativa del diritto, ma qui, in tanta meticolosità formulatoria, traspare un rispetto quasi sacrale per l’atto normativo quando emanato dal potere ad esso preposto; un atto che a tali condizioni va tutelato da ogni abuso e strumentalizzazione considerata l’intrinseca incompatibilità, almeno per i giuristi come il Lanzellotti, tra legalità e violenza: «[m]a il dittatore, il quale per un momento è superiore alla legge, tutto deve poter fare fuorchè leggi» (p. 61). È un’idea di legalità che il secolo successivo dimenticò con le tragiche conseguenze che conosciamo, ma che è quanto mai istruttivo ricordare.