di Gianfranco Petrillo
A proposito di: Elio Vittorini, Si diverte tanto a tradurre? Lettere a Lucia Rodocanachi, 1933-1943, a cura di Anna Chiara Cavallari e Edoardo Esposito, Milano, Archinto, 117 pp., € 20,00
Ormai Lucia Rodocanachi non è più soltanto «mitica»: è un personaggio centrale della storia letteraria italiana della prima metà del Novecento. Se si assumono gli anni trenta come «il decennio delle traduzioni», secondo l’ormai famigerata definizione di Cesare Pavese, la «gentile signora» di Arenzano ne è una protagonista assoluta, négresse inconnue, nel loro lavoro di traduttori, di penne del livello di Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro, Carlo Emilio Gadda e, appunto, Elio Vittorini. E siccome la vulgata del ricorrente chiacchiericcio sulla traduzione in Italia non esita a indicare in quest’ultimo e in Pavese i due protagonisti di quel decennio (confondendo, col provincialismo subalterno ormai imperante, la loro “scoperta” – primato in parte discutibile – della letteratura americana con la diffusione nel nostro paese della letteratura straniera contemporanea tout court), ecco che la sua corrispondenza col giovane e arcisicuro di sé Vittorini assume una certa importanza. Purtroppo però, mentre la signora amava conservare le missive dei suoi molti amici scrittori/traduttori, questi ultimi non hanno ritenuto lei altrettanto degna di memoria; e quindi possediamo, al momento almeno, soltanto le lettere loro e non quelle di lei. È un peccato, perché, per esempio, Henry Furst, appellandola «Sévigné dei nostri dì», definiva «amabilissima e spiritosissima» una lettera appena ricevuta dall’amica Lucia; e Montale stabiliva che le sue lettere «si fanno sempre più degne d’antologia»: lo ha riferito a suo tempo Giuseppe Marcenaro in un saggio che accompagnava le Lettere a una gentile signora di Carlo Emilio Gadda (Adelphi 1983). Sicuramente, poi, Rodocanachi aveva molto da dire intorno alle proprie numerose e vaste letture in lingua originale inglese, francese, spagnolo e tedesco.
Molto opportunamente, Edoardo Esposito, che di Vittorini traduttore è uno dei massimi esperti, ha intitolato le sue stimolanti pagine introduttive a questo libretto Tradurre per vivere. Qui sta la chiave per intendere nella sua reale portata non solo il rapporto tra i due corrispondenti, ma la loro stessa esistenza e il valore della loro opera in quegli anni. Certamente è questo il caso per quanto riguarda Vittorini, il quale, fosse stato agro come Bianciardi e non, come era, proteso a incidere sul mondo con la sua attività, avrebbe potuto anticipare di trent’anni la pragmatica descrizione del mestiere offerta dal grossetano. Vittorini non esita a rappresentarsi come un proletario: «sono un operaio», scriveva il 31 gennaio del 1936: «calcolando il mio solo lavoro ho trovato che mi pagano a 3,50 l’ora» (p. 60), che era effettivamente una retribuzione di poco superiore alle tre lire che quell’anno costituivano in media, secondo le statistiche comunali, la paga oraria di un operaio metalmeccanico milanese, il quale per altro stentava a mettere insieme per la famiglia il pranzo con la cena. Oggi potrebbe dichiararsi più che fortunato perché nel calcolo orario il rapporto fra salari e tariffe per i traduttori è ben più sfavorevole per costoro. E poco tempo dopo Vittorini azzardava contrapporre «la mia esistenza da operaio» alla «vita da piccola borghese» condotta, secondo lui, dalla sua interlocutrice (p. 61), la quale – parrebbe dalle successive e un po’ contorte spiegazioni di lui – deve essersene risentita. Perché anche lei doveva contribuire col suo lavoro a un magro bilancio familiare che i proventi del marito pittore non bastavano a far quadrare. Tardavano poi gli editori a pagare Vittorini e Vittorini a onorare il suo impegno verso di lei («comportamento non irreprensibile», commenta pudicamente Esposito a p. 10).
Coscienziosi laureandi e dottorandi discettano oggi sulle traduzioni vittoriniane muniti di ogni ben di dio di strumenti, digitali e non, per stabilire quanto egli si sia discostato da una corretta resa del testo, e perché. I perché sono mille: dal suo affidarsi alla traduzione «letterale» (come e quanto si raccomanda di questo!) della «cara signora», alla dipendenza dalle traduzioni francesi preesistenti, alla necessità di tener conto delle idiosincrasie censorie del regime fascista e autocensorie degli editori, fino alla pretesa di ridurre gli scrittori tradotti alla sua impronta, al suo stile, come rivendicherà con orgoglio in due celebri lettere a Enrico Falqui nel 1941. D’altronde allora, spiega fondatamente Esposito, «il valore della scrittura superava di gran lunga, presso gli editori, quello di una traduzione filologicamente attendibile» (p. 11). Ma il motivo principale era la necessità di comprimere nel tempo i molteplici impegni che assumeva prima di tutto per mantenere una famiglia che proprio in quegli anni – proprio a causa di un rapporto tutt’altro che idilliaco con la moglie Rosa Quasimodo – cresceva da tre a quattro membri, ma poi per garantirsi tempo e spazio anche per esprimere su carta quanto gli dettava il suo «interno furore» (p. 88, 16 aprile 1938). Così – scrive Esposito – «si assoggettava all’umile compito del traduttore» (p. 16), sfornando 26 libri tradotti tra 1933 e 1949. E intanto la sua traduttrice ombra lavorava anche per Montale, per Sbarbaro, per Gadda, forse per altri, sobbarcandosi anche lei un’esistenza di fatica. «Si diverte proprio tanto a tradurre?» (p. 74, 6 maggio 1937): sembra quasi scandalizzato, Vittorini, per il quale le traduzioni erano «un lavoro da negri» (p. 60, 31 gennaio 1936). E, «negriero», appunto, lo definiva con altri amici la sua collaboratrice/vittima.
«Ci si caricava d’impegni – osserva giustamente Esposito – perché dire di no era escludersi dal circolo vitale delle collaborazioni a pagamento»; in queste condizioni «farsi aiutare rientrava – ieri come oggi – in una pratica moralmente discutibile» (p. 10). Esposito qui contraddice quanto aveva affermato appena nella pagina precedente: «Vittorini peccò non nel farsi aiutare, ma non dichiarando mai né riconoscendo» tale aiuto. Ma poi chiarisce anche: «Mettere la firma implicava, del resto, una responsabilità che valeva nel bene come nel male».
Forse non era il caso di reiterare anche in questa sede il confronto con Pavese, «serio e testardo piemontese» (p. 9) che non cercava aiuti se non in casi estremi. Mentre forse è il caso di ricordare che Pavese, allora, non traduceva per vivere né tanto meno per mantenere una famiglia, ed era munito di una formazione classica condotta con tutti i crismi accademici fino alla laurea. Che ne sapeva di filologia quel siciliano, certo più allegro ma non meno testardo, di Vittorini? «La sua furia mendicante – ha scritto benissimo Pietro Albonetti – (non aveva dizionari adeguati, non tutti i tasti della macchina da scrivere funzionavano, risparmiava sui nastri a inchiostro) era però unica in Italia, rivolta a tagliare istmi per rompere l’isolamento» (Non c’è tutto nei romanzi, Milano, Fondazione Mondadori, 1994, p. 90). Autodidatta e neofita dell’inglese, andava a naso, travolto dalla passione per la letteratura, pronto a modificare, tagliare, spostare, purché il libro che usciva dalle sue mani fosse di suo gusto. Lo facevano pressoché tutti allora, anche Gian Dàuli con le sue collane per Modernissima e per Dall’Oglio. Solo da pochi anni Polledro con la sua Slavia e Borgese con la mondadoriana «Biblioteca romantica» – nonché Antonicelli con la «Biblioteca europea» per Frassinelli, l’editore grazie al quale Pavese poté pubblicare il suo Melville – avevano consapevolmente messo in programma traduzioni integrali e filologicamente corrette. Ma quasi esclusivamente di classici, non di narrativa corrente. E poi, a dirla tutta, le distanze da Pavese non finivano qui: Vittorini non avrebbe mai scritto La casa in collina, non avrebbe mai saputo ideare la “collana viola”, né si sarebbe mai suicidato. Sono differenze radicali che illuminano anche due concezioni diversissime della letteratura e dell’impegno intellettuale. (Ma ora un più ampio confronto tra Vittorini e Pavese si può leggere in Gian Carlo Ferretti, L’editore Cesare Pavese, Torino, Einaudi, 2017, pp. 53-57).
Per tornare alle responsabilità morali, va detto almeno che Vittorini, divenuto consulente stabile di Bompiani e trasferitosi da Firenze a Milano, negli anni quaranta avrebbe in parte rimediato alle sue ripetute mancanze verso l’amica – tutte apertamente riconosciute nella privata sede di queste lettere – procurandole qualche traduzione. Come d’altronde fece anche Gadda negli anni sessanta presso Garzanti, l’editore che gli aveva finalmente assicurato un successo anche di cassetta col Pasticciaccio.
Prevale, alla lettura di queste lettere a senso unico, il rammarico di non poter ascoltare l’altra voce, che sarebbe – ritengo – utilissima a rendersi conto dell’effettivo clima di ricezione delle letterature straniere nell’Italia del “consenso” al regime fascista. Ma intanto qui si può restare storditi dai giudizi perentori del giovane letterato dagli scarsi e irregolari studi: D.H. Lawrence è «un dannunziano impossibile di scrittore» (p. 26, 22 maggio 1933: Vittorini aveva 25 anni ed era, con St Mawr, alla sua prima traduzione in assoluto), «uno scrittore così balbuziente» (p. 29, 7 luglio 1933); Absalom, Absalom! di Faulkner «l’ho trovato un po’ enfatico, un po’ pomposo» (p. 84, 16 gennaio 1938).
Non sapremo mai, purtroppo, quale fosse la base che Lucia Rodocanachi offriva alle elaborazioni stilistiche delle traduzioni “sbagliate” di Vittorini. Ma gliene dobbiamo essere grati.