David Bellos, Is that a fish in your ear? Translation and the meaning of everything, New York, Faber and Faber, 2011, pp. 373, $27.
di Giulia Baselica
Trentadue brevi – talvolta brevissimi – capitoli, un prologo e un epilogo: un’autentica opera-mondo sul tema della traduzione, l’invito a compiere un avventuroso viaggio spazio-temporale. Più propriamente un viaggio cosmico: il titolo «Hai un pesce nell’orecchio?» allude, infatti, al Babelfish, il pesce di Babele (minuscolo pesce giallo, simile a una sanguisuga che, una volta inserito nel condotto uditivo, rende capaci di comprendere qualunque idioma) sorta di simbionte traduttore universale, evocato in The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy, serie radiofonica di fantascienza trasmessa dalla BBC nel 1978 – poi divenuta romanzo, serie televisiva, videogioco e film per il cinema – nata dalla fervidissima fantasia dello scrittore inglese Douglas Adams.
Il britannico David Bellos è traduttore e docente di lingua francese e letterature comparate presso la statunitense Princeton University, nonché autore di numerose traduzioni, dal celeberrimo La Vie mode d’emploi dell’amato Perec, ai romanzi di Ismail Kadaré, Fred Vargas, Romain Gary, Hélène Berr. Se si vuol saper di più su di lui si leggano le interessanti interviste di Silvia Pareschi: http://ninehoursofseparation.blogspot.it/2012/02/unintervista-david-bellos-il-traduttore.html; e di Daniel Loayza: http://www.encathymini.fr/duboutdeslettres/2012/07/04/%C2%AB-le-poisson-et-le-bananier-%C2%BB-rencontre-avec-david-bellos-et-daniel-loayza/.
Questo suo libro è, in primo luogo, originale. A cominciare dai titoli dei capitoli, che sono domande, talvolta provocatorie (Che cos’è la traduzione?; Si può evitare la traduzione?; Perché la chiamiamo traduzione?); affermazioni enigmatiche (Le parole sono anche peggio; Il significato non è una cosa semplice); proposte di riflessione e di approfondimento (Il mito della traduzione letterale; Stile e traduzione; Tradurre testi letterari). E ogni capitolo, dedicato a un particolare aspetto della traduzione, è caratterizzato da un incipit attraente, o perché spaesante (come quello del capitolo Bibbie e banane: l’asse verticale delle relazioni traduttive: «Cominciamo dalla matematica»; o quello del capitolo Quante parole abbiamo per dire caffè?: «Il numero di newyorkesi che sanno dire “buongiorno” in una delle lingue parlate dagli inuit dell’Artico si potranno contare sulla punta delle dita di una mano») o, al contrario, perché immediatamente orientato verso il punto essenziale di una questione tanto importante da apparire ovvia (con le parole «I traduttori fanno continuo uso del dizionario» prende avvio un’interessante trattazione sui repertori lessicali, intitolata Capire i dizionari).
Bellos affronta ognuno dei trentadue argomenti, cui il saggio è dedicato, con atteggiamento intellettuale libero da pregiudizi, con sguardo omnicomprensivo: ogni fonte e ogni modalità di analisi offrono qui un prezioso contributo non già all’intento di comprendere, bensì al mero tentativo di identificare e di definire il fenomeno o, comunque, la natura stessa, della traduzione: a tale scopo l’aneddoto divertente e il racconto surreale possono essere utili o addirittura illuminanti quanto il resoconto statistico e il passo tratto da un saggio di linguistica o da un manuale di storia. I copiosi riferimenti bibliografici rinviano infatti a periodici in varie lingue, atti di convegni, saggi accademici, blog e, naturalmente, a innumerevoli esempi tratti da opere letterarie tradotte. Ogni tema, proprio come la tappa di un viaggio che si prevede lungo e avventuroso, viene proposto al lettore nei suoi aspetti salienti, offrendogli una rapida visione d’insieme e, nel contempo, dotandolo degli strumenti per immaginare ulteriori, suggestivi scenari e per seguire itinerari che si sviluppano lungo le molteplici coordinate, geografiche innanzitutto, ma anche storiche, naturalmente, sociali – dunque latamente culturali – che definiscono l’universo pluridimensionale della traduzione.
Is that a fish in your ear? Translation and the meaning of everything è stato tradotto in francese da Daniel Loayza (Le poisson et le bananier. Une histoire fabuleuse de la traduction) e pubblicato da Flammarion nel gennaio del 2012; in spagnolo è stato tradotto da Vicente Campos (Un pez en la higuera. Una historia fabulosa de la traducciòn) e pubblicato da Ariel nell’ottobre del 2012. E attende ancora un editore e un traduttore italiani.
È difficile, forse impossibile rispondere alla domanda «che cos’è la traduzione?». Difficile, se non impossibile, è infatti strutturare norme e principi, edificare sistemi teorici che regolino un processo dagli esiti non prevedibili e non definibili a priori. Eppure, osserva Bellos, non esiste forse argomento altrettanto interessante e sorprendente: la variabilità della traduzione è davvero la «prova incontrovertibile dell’illimitata duttilità della mente umana». Ma la traduzione esiste davvero? È soltanto una parola che designa, nel contempo, un processo e il suo risultato o è anche una cosa concreta che possiamo esplorare, forse comprendere, soprattutto riconoscere? Non di rado è accaduto nella storia della letteratura che opere proposte come originali fossero in realtà traduzioni (è il caso dei romanzi di Romain Gary Lady L…, Les Mangeurs d’étoiles e Adieu Gary Cooper negli anni Sessanta, originariamente pubblicati in inglese e poi riediti in francese) e che opere presentate come traduzioni fossero invece opere originali. Gli esempi sono numerosissimi: dai poemi di Ossian, apparsi nel 1762 con il titolo Fingal, an Ancient Epic Poem in Six Books; al romanzo The Castle of Otranto, presentato nel 1764 come traduzione di un testo italiano pubblicato nel 1529; alle Lettres Portugaises pubblicate in francese nel 1669, come traduzione di un originale in realtà mai esistito; al recente caso dello scrittore Andreï Makine, i cui primi tre romanzi, pubblicati tra il 1990 e il 1995, vennero presentati ai lettori come traduzioni dal russo firmate dalla scrittrice, fittizia, Françoise Bour. Fu poi «Le Monde» a rivelare il segreto di Makine, nel 1995, consentendo al quarto romanzo, Le testament français di vincere il premio Goncourt, riservato ad autori di lingua francese. Il semplice atto della lettura non svela dunque la natura del testo. Inoltre, precisa l’Autore, l’assunto «la traduzione non può e non deve essere considerata un sostituto dell’originale» è falsa: «le traduzioni sono sostituti dei testi originali. Le usiamo al posto di opere scritte in lingue che non siamo in grado di leggere». Si pone, allora, la questione dello stile della traduzione: talvolta, osserva Bellos, si sarebbe indotti a considerare la traduzione dello stile di un autore come una sorta di pastiche, in quanto il compito del traduttore sarebbe quello di individuare e adottare uno stile già presente nella tradizione letteraria della cultura di arrivo. Tuttavia tale idea di stile, inteso appunto come insieme, culturalmente costituito, di risorse linguistiche proprie di un autore o di un periodo, o di un genere letterario o, ancora, di una scuola, confligge con un’altra diffusa idea di ciò che lo stile è, o dovrebbe essere: l’irriducibile carattere distintivo di qualunque forma – individuale e unica – di linguaggio. In breve: se lo stile è “inimitabile” come può essere imitato? Se, quindi, lo stile è un attributo così individuale da non essere assoggettato neppure al controllo e alla consapevolezza dell’autore ne deriva che anche il traduttore ha un proprio stile e, di conseguenza, lo stile delle sue traduzioni riflette la sua natura e la sua identità di letterato e di essere umano, più di quanto non assomigli allo stile dei letterati tradotti. E a tale proposito Bellos si domanda se le sue versioni inglesi di Perec, Ismail Kadaré, Fred Vargas, Romain Gary e Héléne Berr, il cui impiego della lingua francese è, per ognuno, peculiare e distinto, nell’essenza siano, in realtà, altrettanti esempi dello stile di Bellos, e dichiara di essere «segretamente felice che così sia. In fin dei conti quelle traduzioni sono opera mia». Insomma: la diffusa nozione dell’intraducibilità dello stile è semplicemente una variante del folkish nostrum secondo il quale la traduzione non è un sostituto dell’originale.
Bellos ci invita a considerare la traduzione con atteggiamento realistico e non idealistico, come compito concreto da affrontare con quello spirito pragmatico necessario per risolvere ogni volta un problema di resa nella lingua d’arrivo, un problema ogni volta diverso, eppure, nel contempo, del tutto simile agli innumerevoli che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Il realismo, la concretezza, il pragmatismo dissipano la nebulosità che non di rado ammanta alcune formulazioni preconcette, a loro volta generate da autentici tabù. Bellos osa affermare, per esempio, che la linea di confine che separa la traduzione dalla riscrittura, se necessario migliorativa, del testo originale non è affatto netta e che, anzi, il compito di aiutare il lettore a volte può essere così importante da indurre il traduttore in tentazione, portandolo sulla via della profanazione del testo originale.
Con levità e ironia ci invita a riflettere su aspetti problematici della traduzione, come quello della resa della poesia. Non necessariamente una poesia tradotta risulta priva di poeticità, in quanto anch’essa è espressione di una precisa relazione tra suoni e significati, anche se diversa da quella dell’originale. Naturalmente può accadere che la poesia tradotta sia orribile e che l’originale sia sublime, tuttavia, ci ricorda Bellos, l’opera dei grandi poeti di ogni tempo e di ogni paese presuppone, sempre, l’opera di un traduttore. D’altronde le varie forme poetiche – sonetto, ballata, rondeau, pantoum, ghazal – negli ultimi ottocento anni sono emigrate da una lingua all’altra e gli stili poetici – romantico, simbolista, futurista, acmeista, surrealista – sono divenuti proprietà comuni. Così al vecchio adagio «la poesia è ciò che si perde nella traduzione» si deve contrapporre il fatto, molto più agevolmente dimostrabile da numerosi punti di vista, che la storia della poesia occidentale è, in realtà, la storia della poesia in traduzione. All’idea, diffusa, dell’ineffabilità, quindi intraducibilità, insita nella profondità del pensiero poetico si oppone uno dei principali insegnamenti della traduzione: tutto è effabile.