La recensione / 6 – La traduzione è politica

di Giulia Grimoldi

A proposito di: Laura Fontanella, Il corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer, Sesto San Giovanni, Asterisco, 2019, pp. 192, € 17,00

La traduzione è sempre un processo politico: questa è la tesi alla base del volume Il corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer di Laura Fontanella. La riflessione è più che mai attuale e scottante visto anche il recente dibattito sulle traduzioni europee di Amanda Gorman. Per citare un articolo di Paul B. Preciado, pubblicato su «Internazionale» l’1 aprile 2021 (nella traduzione di Andrea Sparacino, mentre l’articolo originale è stato pubblicato su «Libération» il 13 marzo 2021): «Niente permette di capire meglio la politica culturale di una nazione delle sue pratiche in materia di traduzione» (Rien ne permet de mieux comprendre la politique culturelle d’une nation que ses practiques en matière de traduction).

Attualmente pare che tradurre testi provenienti dal femminismo nero, dalla teoria queer o da quella postcoloniale sia un’attività editoriale potenzialmente redditizia, e ci troviamo di fronte alla domanda pertinente su chi possa effettivamente tradurre questi testi. Sempre secondo Preciado: «Non esiste omogeneità di esperienza o di pensiero sessuale, razziale o di genere che garantisca la fedeltà della traduzione» (Il n’existe pas d’homogénéité d’expérience ou de pensée sexuelle, raciale, ou de genre qui garantisse la fidélité de la traduction). Ciononostante, «La domanda su chi possa tradurre non può essere completamente scartata dal presupposto universalista che neutralizza e depoliticizza il testo privilegiando, con la scusa dell’universalità della “Letteratura”, letture egemoniche e normative» (La question de savoir qui peut traduire ne peut être complètement écartée par le présupposée universaliste qui neutralise et dépolitise le texte, privilégiant, derrière l’excuse de l’universalité de la “Littérature”, des lectures hégémoniques et normatives des textes).

La polemica intorno alla traduzione di Gorman mostra ancora una volta che gli editori, quando operano come semplici mercanti del capitalismo culturale, ignorano le lotte che animano i testi da loro pubblicati. Il testo di Fontanella, invece, si dichiara apertamente militante e pone l’accento sul ruolo performativo del linguaggio e sull’aspetto politico e sovversivo della traduzione: se il linguaggio è storicamente uno strumento di oppressione patriarcale in grado di nominare, catalogare e segregare, costruire immaginari e simboli, allora la sperimentazione linguistica dei testi transfemministi queer diventa terreno di lotta contro il patriarcato e la loro traduzione diventa un mezzo attraverso cui poter produrre un cambiamento sociale. Nell’introduzione di Michela Baldo, non a caso, si afferma che: «Questo importante testo di Laura Fontanella si situa a livello generale in questo filone di studi sulla traduzione politica, […] che vede, accanto al nome di Mona Baker, nomi di studiose come ad esempio Maria Tymoczko e Michaela Wolf, che hanno discusso molto sull’importanza della traduzione in un’ottica attivista» (p. VII).

Il libro di Fontanella si apre con un excursus sul movimento femminista degli anni sessanta e settanta, che alimentò il dibattito circa l’uso sessista della lingua; le femministe scrissero saggi, comunicati politici e testi letterari in cui si sperimentava una lingua nuova e creativa, che facesse emergere le donne e i loro corpi, saperi e desideri, liberati dalla gabbia degli stereotipi e dei cliché narrativi. Erano convinte che intervenire sulla lingua fosse un modo efficace per cambiare gli schemi mentali legati alla cultura patriarcale dominante. «Infine si domandarono come tradurla e come tradurre assieme a quella lingua tutto il suo portato femminista» (p. 68). La traduzione era – è –infatti fondamentale per favorire la libera circolazione del pensiero femminista in altre lingue e culture: «Il dover tradurre non solo una lingua ma il discorso di riappropriazione culturale e politica e di genere insito nella lingua stessa, aprì le porte a molti interrogativi su cosa fosse e su cosa dovesse essere l’atto traduttologico» (p. 50). La traduzione femminista si pose come primo obiettivo quello di pubblicare autrici ignote, dimenticate e marginalizzate: «Attraverso una traduzione attenta alle questioni di genere, attenta a rendere la loro voce di donna, questi testi inediti ebbero la possibilità di essere ampiamente diffusi, riconsegnando alle donne un ruolo all’interno della letteratura occidentale» (p. 51). Successivamente, la traduzione femminista puntò a una ridefinizione del concetto di traduzione stessa, smantellando le metafore maschiliste, sessuate e stereotipate con cui tale lavoro veniva descritto. «La donna e la traduzione non saranno più inferiori e sottoposte ma saranno creative e attive; la donna tradurrà in qualità di protagonista della sua opera traduttiva manifestando la sua esistenza, la sua autorevolezza, il suo desiderio di rivendicazione e riappropriazione del linguaggio» (p. 53). Nella resa dei giochi di parole e dei neologismi di questi testi sperimentali, la traduzione femminista puntò a un approccio straniante, «che conservasse l’Alterità e le variabili culturospecifiche e di genere del testo originario» (p. 58). Le femministe vollero manifestare la loro presenza nel testo, «sostenendo quindi ciò che chiameremo “interventismo”» (p. 62): incapaci di riprodurre le immagini sessiste di alcuni autori, le soluzioni traduttologiche adottate furono talvolta in netta contrapposizione con quanto scritto nel testo originario. «Con un lavoro meticoloso di visibilizzazione del femminile e della donna, le traduttrici riportarono alla luce, attraverso una traduzione “libera” la presenza non solo dell’altro genere ma anche la propria» (p. 64). Decisero arbitrariamente di modificare testi ideologicamente ostili, aggiungendo porzioni di testo o espressioni laddove nell’originario mancavano, compiendo un atto di violenza contro l’autore e il testo fonte. Tale approccio correttivo al testo machista può essere forse accusato di ipocrisia perché si basa sugli stessi meccanismi di espropriazione e censura usati dal maschilismo e ottiene l’effetto di aumentare la polarizzazione tra i generi.

Nel testo di Fontanella la traduzione femminista non è esente da critiche: «Quello che la traduzione femminista, in un primo momento, sembra aver omesso dalla sua discussione è la presenza di altre donne, appartenenti alle culture non occidentali, e della loro rappresentazione attraverso la traduzione e i testi prodotti» (p. 74). Qui l’autrice, rifacendosi al pensiero di studiose come Gayatri Spivak, cerca di evidenziare come la traduzione femminista abbia proposto una visione parziale e privilegiata del femminismo – bianco, elitario e borghese – ricadendo in pratiche sociali e traduttologiche imperialiste sulle donne di paesi non occidentali. In realtà i femminismi sono molteplici e «la traduzione femminista può essere migliorata e ampliata con lo scopo di includere anche quelle altre soggettività che, oltre a quella della donna, soffrono discriminazioni di cui il femminismo non è riuscito a parlare, forse, a sufficienza» (p. 76).

Il capitolo centrale del libro verte proprio sul tema della traduzione transfemminista queer. Grazie all’influenza dei Gender Studies, oggi il femminismo non differenzialista e i movimenti LGBTI*Q identificano un comune oppressore nell’eterocispatriarcato, colpevole di aver sviluppato un linguaggio denigratorio che definisce la realtà in maniera binaria partendo dal concetto di maschile e di femminile e delegittima tutto ciò che è diverso dal soggetto maschio eterosessuale. La teoria queer è stata elaborata negli anni novanta per proporre uno sguardo più inclusivo che andasse al di là del binarismo di genere. Il termine queer, infatti, intende rappresentare una messa in discussione delle categorie, rendendo il discorso più fluido, e «in italiano corrente si utilizza per riferirsi a persone il cui orientamento sessuale o la cui identità di genere è tutto tranne che eterosessuale, maschile o femminile» (p. 80). La linguistica lavanda (espressione coniata da William Leap per riferirsi alla lingua usata da parlanti della comunità LGBTI*Q, dove “lavanda” era il colore con cui già negli anni Venti si usava indicare un personaggio effeminato) è «lo studio della rappresentazione della soggettività queer all’interno del sistema linguistico» (p. 81) e rappresenta una reazione a nozioni essenzialiste, egemoniche e naturalizzate sul genere e sulla sessualità. «L’avvento della teoria queer, con la proposta di disfacimento del binarismo di genere, rende i confini tra le categorie più fluidi e malleabili e apre nuove sfide non solo sul piano sociale ma anche sul piano traduttivo» (p. 89). Come rendere, infatti, la poliedricità dei generi in traduzione senza scadere nell’appiattimento del linguaggio eteronormativo? Una pratica linguistica molto diffusa nella traduzione transfemminista queer è quella del degendering che «punta a ridurre la polarizzazione donna-uomo lavorando in un’ottica più queer che ambisca a neutralizzare il genere dell’espressione rendendola inclusiva verso le soggettività non binarie» (p. 83). Nelle traduzioni italiane spesso si predilige un approccio straniante, ricorrendo all’uso dell’asterisco * per ovviare alla mancanza di suffissi/marcatori di genere non binari, oppure della chiocciola @ o del suffisso –u finale (che ha il vantaggio di essere pronunciabile, mantenendo la valenza neutra). Altre pratiche linguistiche abbastanza diffuse sono il plurale femminile inclusivo, o femminile politico, l’ironia, la parodia, la metafora, i giochi di parole, i neologismi (quando mancano concetti o parole nella lingua di arrivo) e la creazione di materiale paratestuale mutuata dalla tradizione femminista (prefazioni, postfazioni, commentari, note a piè di pagina).

Uno dei maggiori ostacoli che deve affrontare la letteratura transfemminista queer è la censura di molti paesi in cui le relazioni omosessuali e la visibilità delle persone LGBTI*Q sono ancora illegali. Per questo, spesso autrici e autori hanno dovuto trovare formule di mediazione con la cultura patriarcale e omofoba di partenza, magari «nascondendo nel testo allusioni e riferimenti a storie, personaggi e identità omosessuali. Altre volte, invece, hanno ironicamente deriso la loro stessa condizione, rifacendosi a e appropriandosi degli stereotipi e dei pregiudizi entro i quali erano stati segregati» (p. 94). In traduzione è perciò fondamentale prestare attenzione a eventuali riferimenti extra testuali che rimandano a soggettività altre e cercare referenti vicini a quelli originari, conservando il più possibile gli elementi del queer.

La persona ideale per tradurre un testo transfemminista queer, sostiene Fontanella, «dovrebbe essere non solo qualcun* in grado di cogliere i temi politici di questi testi, ma anche d’averli vissuti sulla propria pelle. Ecco che, quindi, la cerchia […] si restringe alla persona transfemminista queer stessa» (p. 155). Ovviamente solo alcune persone, dopo un lungo percorso di autodecostruzione e autocoscienza, individuale e collettiva, raggiungono una determinata consapevolezza e una chiara visione della società e del linguaggio in questi termini. Il rischio è che la teoria transfemminista queer, sebbene voglia relazionarsi con la società tutta, risulti invece classista, elitaria e in dialogo unicamente con il genere e la sessualità dei soggetti occidentali.

Una possibile soluzione per ovviare a questa contraddizione interna è quella di mettere in atto pratiche di traduzione condivisa e partecipata, in modo da garantire perlomeno la molteplicità dei punti di vista. Non a caso, le traduzioni transfemministe queer sono generalmente realizzate collettivamente e le scelte traduttive vengono discusse e approvate da collettivi militanti che agiscono in maniera indipendente dall’industria editoriale italiana, che normalmente privilegia traduzioni addomesticanti che appiattiscono le varietà culturali pur di essere immediatamente fruibili dai lettori. Infatti, «sebbene in Italia si stia vivendo una situazione di fioritura dell’editoria di genere, è altresì vero che molti testi, fortemente voluti dal pubblico politicizzato transfemminista queer, raramente riescono a prendere forma in una pubblicazione» (p. 122). Fontanella cita numerosi collettivi di traduzione autogestiti («Traduzioni Militanti», «Ideadestroyingmuros», «Plumas Traidoras», «LesBitches») che si servono di piattaforme “libere” come blog o pagine Facebook o si appoggiano a piccole case editrici indipendenti per la pubblicazione delle proprie traduzioni militanti, con lo scopo di offrire un punto di vista “altro” sulle questioni di genere e stimolare il dibattito nazionale, partendo da riflessioni prodotte in un’altra lingua e cultura. In generale, non si tratta di traduttori o traduttrici di professione, ma di attiviste e attivisti volontari che si cimentano nella traduzione a più mani di testi transfemministi queer e, quando possibile, cercano il confronto con l’autore o l’autrice e con persone esperte della materia, aprendo veri e propri dibattiti politici sulla scelta delle parole da utilizzare. A volte, infatti, in italiano manca del tutto la terminologia specifica per tradurre determinati concetti, e questo è dovuto a una mancanza di letteratura sugli argomenti di genere. «Non essendoci una letteratura manca anche proprio tutto l’immaginario di riferimento» (p. 128). Tra gli altri, il collettivo «Plumas Traidoras» afferma di aver risolto la questione terminologica lasciando le parole chiave in lingua originale solo se appartenenti a una lingua non imperialista. Se invece la terminologia è in inglese, cercano di riappropriarsi della lingua di arrivo e di inventare parole nuove per esprimere concetti nuovi, aiutandosi spesso con note a piè di pagina e glossari. La scelta dei testi da tradurre ricade su opere di narrativa o di saggistica politicamente rilevanti e pionieristiche, per battere il ferro finché è caldo nel momento in cui in rete si discute di un dato evento o tema. I testi scelti non ambiscono ad avere un valore estetico ma politico, e i collettivi sono più orientati verso scelte traduttive stranianti, spesso a scapito della leggibilità. Il rischio già citato è che i contenuti risultino incomprensibili per un pubblico non militante, non politicizzato, non occidentale. «Soprattutto, la traduzione transfemminista queer ha il dovere di riconoscere i propri limiti e le proprie contraddizioni interne, ha il compito di ammettere i propri privilegi di classe e di razza» (p. 110): solo in questo modo potrà essere una traduzione politicamente onesta. Se i collettivi sopraccitati riuscissero nel loro intento di far circolare massicciamente testi incentrati su queste tematiche, «assisteremmo non solo a una diffusione su larga scala di una serie di saperi e pratiche, ma anche alla costruzione di quell’humus culturale che potrebbe facilitare la formazione di una società egualitaria» (p. 146).

Come allargare, allora, le pratiche di traduzione transfemminista in contesti di autoriflessione estranei ai circuiti della militanza politica e accessibili anche a un pubblico non politicizzato? Nella postfazione, Fontanella propone un interessante resoconto della sua esperienza nell’organizzazione di laboratori di traduzione transfemminista queer presso alcune librerie italiane. Il workshop tenuto alla libreria Antigone di Milano si chiamava, programmaticamente, Found in Translation, che «significa non perdere ma trovare nella traduzione: questo è ciò che questa esperienza laboratoriale si è sempre prefissata di fare. Abbiamo sempre voluto trovare identità marginali, soggiogate, oppresse, facendole emergere in traduzione» (p. 159). Un appuntamento alla settimana per tre mesi, per affrontare testi di narrativa, poesia, fumetti e graphic novel mai tradotti in italiano o, se tradotti, sicuramente senza conservarne le specificità femministe e LGBTI*Q: questa la sfida proposta dal laboratorio di traduzione, con la consapevolezza che «collettivamente potevamo venirne a capo» (p. 168). Esito: il laboratorio si è rivelato un luogo fattuale di sperimentazione e analisi, di aggregazione e di rivendicazione, dove tradurre testi diventava un pretesto per parlare d’altro, di problemi, di discriminazioni, di oppressioni, e per trovare una soluzione comune e concreta: «Tradurre, così come il fare politica, dovrebbe sempre riportarci a questa semplice, banale, questione: lo stare nelle contraddizioni, il viverle, l’attraversarle per comprenderle meglio – e forse, un giorno, definitivamente scioglierle» (p. 175).