La recensione / 7 – L’impegno politico di un grande editore per la biblioteca pubblica

di Gianfranco Petrillo

A proposito di: Chiara Faggiolani, Come un ministro per la cultura. Giulio Einaudi e le biblioteche nel sistema del libro, Firenze, Firenze University Press, 2020, pp. 347, € 19,90

Alla vigilia della marcia su Roma, nel settembre del 1922, Luigi Einaudi plaudì sul «Corriere della sera» a un discorso pronunciato a Udine da Benito Mussolini. Sorvolando disinvoltamente sulla esplicita apologia della violenza squadrista che aveva stroncato sul nascere lo sciopero generale “legalitario” indetto dai sindacati rossi all’inizio di agosto, il grande economista apprezzava in quel discorso il revirement liberista del capo dei fascisti, il quale aveva tuonato: «Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore. Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato». Come si sa – ma qui non ci interessa – in ben altra direzione sarebbe andata la concreta gestione del potere da parte del “duce”. Chissà che cosa pensò nei suoi ultimi anni di vita Luigi Einaudi della strenua battaglia che il figlio minore, Giulio, intraprese fin dall’immediato dopoguerra perché lo stato, il nuovo stato democratico, assumesse anche il ruolo di bibliotecario. Se c’è un appunto da fare a questo interessante libro è la limitazione contenuta nel sottotitolo, che riduce fortemente il senso del titolo: non semplicemente e corporativamente «nel sistema del libro», ma “nello sviluppo del paese”, infatti, si inseriva il senso di quella battaglia. Che fu a tutti gli effetti una battaglia politica, come chiarisce in tutta la sua accurata e documentata esposizione il libro stesso.

Fin dal 1946 – ci informa Luisa Mangoni (Pensare i libri, pp. 342-343) – l’editore si era interessato alla ripresa e allo sviluppo della rete delle biblioteche popolari, avviata dai socialisti negli anni dieci per favorire lo sviluppo culturale e intellettuale delle “classi subalterne”, alle quali erano rivolte. Ma, nella fase di “grande trasformazione” dell’Italia all’inizio degli anni sessanta, il modello divenne piuttosto quello della biblioteca “pubblica” americana, come luogo di crescita e di sviluppo dell’intera comunità locale, superando il ruolo delle biblioteche come luogo di conservazione antiquaria e di ambito specialistico per gli studiosi. Nell’impegno in questa direzione Einaudi trovò una guida e battistrada in una grande dirigente del ministero della Pubblica istruzione, Virginia Carini Dainotti, anche lei, come Einaudi, appartenente a quello straordinario gruppo di ex allievi del liceo d’Azeglio di Torino che così grande contributo ha dato allo sviluppo della democrazia italiana. Fu lei a porre le basi progettuali dell’attuale Sistema bibliotecario nazionale, consapevolmente delineando – come recita il titolo di un suo libro – La biblioteca pubblica istituto della democrazia (pp. 117-124): ambito accessibile a tutti, di ogni ceto sociale, di ogni età e di ogni tipo di formazione, presente in ogni comune, non solo in grado di offrire il contatto diretto coi libri (scaffale aperto) e con altri strumenti di intrattenimento formazione e crescita culturale come dischi e film, ma anche centro di incontro, di dibattito, di iniziative artistiche e culturali, con spazi e strumenti riservati ai ragazzi, giornali e riviste a disposizione di tutti. In tal modo le biblioteche venivano a essere inserite «tra i problemi della gestione pubblica del territorio» (p. 117). Nell’atmosfera di rinnovamento creata dalle attese riformatrici e pianificatrici del centro-sinistra, cioè delle coalizioni di governo fondate sull’alleanza fra Democrazia cristiana e Partito socialista, con l’opposizione benevola del Partito comunista, in particolare dopo la creazione della scuola media unica e con l’obbligo scolastico portato fino all’età di 14 anni (1962), Einaudi spinse a fondo perché l’intero “sistema libro”, a partire dagli editori e dai librai, sostenesse attivamente questo progetto, invitando il governo a investirvi risorse finanziarie e umane. Con due obiettivi: quello principale era di «inserire il problema delle biblioteche in una politica globale di sviluppo» (p. 116), in quanto «lo sviluppo economico non è isolato in se stesso» (p. 125); e quello secondario di favorire lo sviluppo della lettura come premessa per l’ampliamento del mercato del libro, visione esattamente opposta a quella dei suoi colleghi e dei librai, che vedevano invece nelle biblioteche pubbliche una pericolosa concorrenza.

Culmine di questo impegno politico fu la creazione di una biblioteca comunale modello a Dogliani, il paese in provincia di Cuneo culla della famiglia Einaudi. Su terreno offerto dal Comune e su progetto donato dall’architetto Bruno Zevi, che servisse da prototipo ad altre biblioteche analoghe, con finanziamenti pubblici e privati (a cominciare da quelli offerti dallo stesso Giulio e dai fratelli Mario e Roberto) e un fondo librario al quale contribuirono pressoché tutte le case editrici italiane di qualche importanza, il 29 settembre 1963 fu inaugurata una biblioteca intitolata proprio a Luigi Einaudi. Nel 1969 l’editore pubblicò poi una preziosa Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata. Catalogo sistematico e discografia, che – a prescindere dalla sua concreta utilizzazione pubblica, che fu comunque molto ampia – costituì una imprescindibile mappa sulla quale potevano orientarsi gli interessi e le curiosità di lettori vecchi e nuovi. A tutto ciò Einaudi aggiungeva l’invito ai librai a «sostituire alla posizione di cliente quella di cittadino» (p. 152).

È comprensibile che, con questi criteri che ispiravano tutta la sua attività, il precario equilibrio finanziario in cui Giulio Einaudi riuscì a far vivere per decenni la propria casa editrice facendone un faro per la crescita culturale di almeno due generazioni, sia crollato nel momento in cui sulla visione complessiva della società come insieme di esseri umani totali, che aveva dominato quei decenni, ha avuto il sopravvento quella della società come mercato, composto da individui mossi da istinti di produttori e consumatori opportunamente orientati alla ricerca del benessere materiale.

Faggiolani confessa che questa sua ricerca ha fatto maturare in lei «la nostalgia per un tempo che non ho vissuto» (p. 9). Chi l’ha vissuto condivide a maggior ragione tale nostalgia (che, certo, coincide anche con la nostalgia per gli anni verdi della propria esistenza), in quanto vede esaltata in questo libro l’idea di «servizio pubblico», oggi programmaticamente combattuta e sconfitta in favore dell’idea di business. Delle realizzazioni di quella grande stagione di riforme conquistate con durissime lotte, delle quali uno dei motori è stato Giulio Einaudi con la sua casa editrice – implicitamente intesa proprio come servizio pubblico –, restano ancora alcune roccaforti ammirevoli: mentre si è riusciti a smantellare il sistema scolastico e universitario, per renderlo consono al mercato e quindi alle privatizzazioni, accanto al Servizio sanitario nazionale va annoverato fra tali capisaldi il Sistema bibliotecario nazionale, finché durano. Non c’è praticamente comune d’Italia senza biblioteca pubblica impostata con quei criteri indicati da Carini Dainotti e promossi politicamente da Einaudi. Le biblioteche, come gli istituti di ricerca non finalizzati direttamente alla produzione di merci, sono ormai considerate in sede politica come costi improduttivi, che sono i primi a essere tagliati in tempi di vacche magre. E tra gli editori non si vede nessuno disposto a battersi perché se ne colga invece il valore di investimento per una politica globale di sviluppo.