TRADUZIONI ESISTENTI E TRADUZIONI MANCATE NELLA STORIOGRAFIA DELLA GUERRA DEL VIETNAM
di Stefano Rosso
Premessa
Alcuni anni fa, riflettendo sugli esiti di una ricerca che avevo svolto nella seconda metà degli anni novanta, mi chiesi che cosa sapevano i lettori italiani della narrativa statunitense sulla guerra del Vietnam e come si erano comportati gli editori italiani con quel vasto corpus di testi usciti durante e soprattutto dopo il conflitto (Rosso 2013). Negli anni in cui si svolse, la guerra del Vietnam rimase sempre in primo piano anche in Italia e accompagnò l’evoluzione del movimento antimperialista. Dopo la caduta di Saigon nell’aprile del 1975, quella guerra è rimasta per almeno quindici anni in una posizione centrale nel dibattito politico, storico e culturale non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Italia, continuando a essere alimentata dal notevole successo dei film sulla guerra del Vietnam del periodo 1978-1989.
Negli Stati Uniti, anche dopo l’affermazione trionfalista del presidente George H.W. Bush (padre) nel 1991, in base alla quale la «sindrome del Vietnam» era stata sconfitta grazie alla “vittoria” fulminante della prima guerra del Golfo, il conflitto indocinese ha continuato ad aggirarsi nei discorsi storici e politici come uno spettro. Durante i conflitti nei Balcani, in Afghanistan e nella seconda guerra del Golfo, il linguaggio militare e la riflessione geopolitica hanno continuato a essere fortemente indebitati con quel lungo periodo bellico: soltanto l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 ne ha smorzato la centralità per qualche anno.
Il mio saggio (Rosso 2003), a cui ho fatto riferimento prima, si concentrava soltanto sull’aspetto della guerra del Vietnam di mia competenza: romanzi e racconti statunitensi in traduzione italiana. Nelle conclusioni, non prive di interrogativi irrisolti (anche per via di una certa reticenza delle case editrici italiane a fornire i dati sulle vendite), sostenevo che l’editoria del nostro paese aveva trascurato una parte della migliore narrativa uscita da quel conflitto, mancando di dare il giusto rilievo alle opere più significative, in particolare a quelle di Tim O’Brien (1978, 1990) e di Michael Herr (1978), uscite sì, abbastanza presto in traduzione, ma da Leonardo Mondadori, un editore di nicchia, e trascurate dalla critica e dai lettori. Poiché negli anni ottanta anche in Italia la passione politica che aveva alimentato la lotta contro l’imperialismo statunitense si era smorzata, le conoscenze sulla guerra del Vietnam erano sempre più affidate al cinema e in misura minore alla televisione. Pur riconoscendo i meriti di alcune pellicole di quel nuovo sottogenere (il Vietnam movie) che subentrò al western ormai in declino – e i cui maggiori successi furono The Deer Hunter di Michael Cimino (Il cacciatore, 1978), Coming Home di Hal Ashby (Tornando a casa, 1978), Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (1979), Platoon di Oliver Stone (1986) e Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (1987) –, in quel saggio sottolineavo il rischio di delegare quella memoria storica al solo cinema. Era particolarmente vistosa la riproposizione revanscista del corpo maschile muscoloso e tecnologico di Sylvester Stallone nei tre film che hanno come protagonista John Rambo (First Blood di Ted Kotcheff, 1982 [in italiano Rambo]; Rambo: First Blood Part II di George P. Cosmatos, 1985 [Rambo 2, la vendetta]; Rambo III di Peter MacDonald (1988); nel 2008 e nel 2019 se ne sono aggiunti altri due, John Rambo, girato dallo stesso Stallone, e Rambo Last Blood, di Adrian Grunberg) e soprattutto il discorso ideologico della serie dei Missing in Action con Chuck Norris, usciti tutti negli anni ottanta (Missing in Action di Joseph Zito, 1984 [Rombo di tuono]; Missing in Action 2: The Beginning, di Lance Hool, 1985 [Rombo di tuono 2]; e Braddock: Missing in Action III di Aaron Norris, 1988 [Rombo di tuono 3 o Missing in action 3]). In questi ultimi tre film la falsificazione diventa paranoica e delirante, e fornisce un materiale molto utile per comprendere i meccanismi di funzionamento del fenomeno delle fake news (cfr. Rosso 2019).
Il problema della scarsa memoria storica (come pure della tendenza a credere a qualsiasi ipotesi complottista), è in realtà assai più grave negli Stati Uniti che in Italia e risale a tempi lontani. Ricordo due esempi clamorosi e drammatici. The Birth of a Nation di David W. Griffith (1915, Nascita di una nazione), un film che sosteneva idee profondamente razziste e che falsificava impunemente i fatti storici, rimase a lungo il riferimento documentale più importante sugli anni della Ricostruzione americana (1865-1877), il periodo successivo alla guerra civile durante il quale nacque il Ku Klux Klan e si affermò la segregazione razziale. Gone with the Wind di Victor Fleming, 1939 (Via col vento) fu e rimane, negli Stati Uniti, la fonte più diffusa per informarsi sulla guerra civile e sullo schiavismo, nonostante la visione profondamente falsa sul piano storico.
Nel mio saggio del 2013 mi concentravo sulle traduzioni italiane di romanzi o di raccolte di racconti; mi rimaneva la curiosità di scoprire quanto della produzione storiografica statunitense e mondiale fosse stata effettivamente tradotta in italiano. Proprio su questo aspetto, sollecitato da Giovanni Scirocco, mi sono interrogato in questo breve intervento.
Come chiunque può rilevare con una semplice ricerca nell’Opac, il catalogo online del servizio bibliotecario nazionale italiano, le lacune sono notevoli. Poiché non sono uno storico, ho dovuto cercare il punto d’avvio in una ricerca bibliografica altrui, un lavoro molto articolato sulla storiografia della guerra del Vietnam realizzato da Oliviero Bergamini nel 1996 e che poi ebbe due diverse stesure, una sulla rivista «Storica» (Bergamini 1998) e una più sintetica su «Ácoma» (Bergamini 1999). Nella breve carrellata sulla storiografia della guerra del Vietnam in traduzione che propongo qui, seguirò la divisione interna là proposta: 1) la guerra; 2) la politica; 3) la società americana e i reduci.
La guerra del Vietnam: storia militare e storie orali
Buona parte della saggistica americana sulla guerra del Vietnam è molto critica nei confronti dell’intervento statunitense; in genere questa è una caratteristica di una parte cospicua degli studi su tutti i conflitti del secolo scorso, con l’esclusione della seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti chiamata good war. Tale atteggiamento antibellico ha contribuito a creare disinteresse per la storia militare o comunque un notevole sospetto per chi si occupa di questo campo di studi: infatti è molto diffusa l’opinione che la storia militare sia territorio esclusivo dei conservatori, se non dei reazionari con tendenze autoritarie, e comunque di studiosi che subiscono il fascino dello spirito marziale, del patriottismo e delle varie forme di nazionalismo che hanno alimentato i conflitti. Io stesso devo ammettere di avere faticato a comprendere l’importanza della storia militare. Molti studi sulla guerra, sulla violenza e sulla cultura bellica, anche riflessioni dotate di respiro filosofico e opere di storia della cultura molto articolate, spesso rifiutano di fare i conti con gli storici militari.
Uno dei probabili effetti di questo pregiudizio è che i migliori studi sulla guerra del Vietnam da un punto di vista militare non sono mai stati tradotti in italiano. Questo è il caso non soltanto delle opere che potrebbero essere criticate perché “revisioniste”, cioè quegli studi che attribuivano la responsabilità della sconfitta americana alle «carenze della leadership civile» (Bergamini 1998, 45) più che a una cecità politica determinata dagli schemi ideologici della guerra fredda. Mi riferisco alle opere di Harry Summers Jr (1982), Bruce Palmer (1984), Guenter Lewy (1978) e di altri, più o meno in linea con il revisionismo reaganiano degli anni ottanta. Fu infatti Ronald Reagan a tentare di rovesciare il giudizio su quel conflitto, definendo la guerra del Vietnam, durante la sua campagna elettorale del 1980, non più come la dirty war, la guerra sporca denunciata dai manifestanti dei tardi anni sessanta, bensì come una noble cause, una causa nobile. Reagan e i suoi fiancheggiatori continuarono coerentemente a proporne una lettura neoconservatrice nel corso dei suoi due mandati.
Tuttavia, anche la storiografia più rigorosa, immediatamente successiva agli anni di Reagan, non è mai stata tradotta in italiano: la traduzione di After Tet (Dopo il Têt) di Roland Spector (1993), in cui emerge l’impossibilità oggettiva di vincere la guerra, è assente dagli scaffali italiani; discorso analogo vale per The Dynamics of Defeat (Dinamica della disfatta) di Eric Bergerud (1991) e per The Hidden History of the Vietnam War (La storia nascosta della guerra del Vietnam) di John Prados (1995); e così pure per gli studi che si concentrano sulla “pacificazione” fallita, come Pacification di Richard Hunt (1995).
E’ significativo che quasi nessuna delle ricostruzioni principali della strage di My Lai, di cui molto si parlò anche in Europa e le cui immagini hanno continuato a circolare anche dopo la prima guerra del Golfo, sia mai uscita in italiano. Non troviamo My Lai: A Brief History with Documents [Breve storia con documenti] di James S. Olson e Randy Roberts (1998) e neppure Facing My Lai (Affrontare My Lai], a cura di David Anderson (1998). Si obbietterà che Piemme ha meritoriamente pubblicato la traduzione di Enrico Domenichini di My Lai Vietnam di Seymour M. Hersch (Hersch 2005), il testo che sconvolse gli Stati Uniti nel 1970 con il racconto di quel terribile eccidio del maggio 1968. Vero, ma la traduzione italiana è apparsa ben trentacinque anni dopo la versione originale, mentre in altri paesi era stata tradotta subito: per esempio in Francia uscì nel 1970, stesso anno della pubblicazione originale.
Le poco numerose traduzioni dei testi di storia militare sono soltanto il frutto del pregiudizio contro quella materia e i suoi cultori? Forse parte del problema deriva dal fatto che, trattandosi di un campo specialistico, gli studiosi sono presumibilmente in grado di consultare le opere in lingua originale.
Simile destino hanno avuto le buone storie orali della guerra del Vietnam: nessuna traduzione italiana di No Shining Armor (Niente scintillio d’armature) di Otto Leharck (1992) né di Red Thunder, Tropic Lighting (Tuono rosso, lampo tropicale di Eric Bergerud (1993). Nel 1996 Alessandro Portelli aveva pubblicato un bel saggio su due raccolte di interviste ai reduci, mostrando come gli aspetti fattuali e quelli discorsivi della guerra avessero condiviso «il fatto di essere terreni su cui l’esperienza personale della “biografia” si incontra con la vicenda collettiva della “storia”» (Portelli 1996, 159). L’analisi di Portelli si concentrava su Nam (Baker 1982) e Bloods: An Oral History of the Vietnam War (Terry 1984), quest’ultimo interamente dedicato all’esperienza degli afroamericani. Con ventun anni di ritardo il secondo è stato tradotto da Paola Conversano per Piemme con il titolo La faccia nera del Vietnam (2005). Il ritardo o il silenzio sul punto di vista dei neri riguarda anche saggi più recenti come Fighting on Two Fronts (Lotta su due fronti) di James Westheider (1997).
Altri studi importanti mai tradotti sono quelli che analizzano quel conflitto in termini sociali, come U.S. Labor and the Vietnam War (Foner 1989: I sindacati americani e la guerra del Vietnam), sul ruolo del sindacato, e Working-class War (La guerra della classe operaia) di Christian G. Appy (1993), dal quale emerge in modo ampiamente documentato il fatto che il peso del conflitto aveva gravato soprattutto sulla classe operaia (oltre che sugli afroamericani). Appy è anche molto convincente nel ricostruire, grazie a numerose interviste, i sentimenti spesso ambivalenti degli strati più poveri e meno istruiti della popolazione americana nei confronti della guerra.
Non sono mai arrivati in Italia gli studi dedicati agli aspetti psicologici del combattimento (Grossman 1995), e neppure quelli che si concentrano sul fronte e sul punto di vista vietnamita (Lanning, Cragg 1992). Fanno eccezione alcuni lavori di due storici del Sud-est asiatico che hanno insegnato a lungo all’Università Statale di Milano: Enrica Collotti Pischel (1968) e Francesco Montessoro (2000, 2004a e 2004b). Nelle loro opere emerge la prospettiva vietnamita senza che questo comporti, nel secondo caso, uno sguardo assolutorio sul fallimento politico ed economico della Repubblica socialista del Vietnam dopo la vittoria del 1975.
Gestione politica della guerra
Se sospettavo di trovare poche opere tradotte nel comparto della storia militare e sociale, sono stato invece sorpreso nel riscontrare analoghe lacune su «guerra e politica». Manca all’appello A Time for War: The United States and Vietnam di Robert Schulzinger (1997) un testo indubbiamente discutibile per l’accento «eccessivo» (Bergamini 1998, 64) che poggia sulla diversa concezione del tempo di americani e vietnamiti, ma che allarga la ricerca alle articolazioni religiose della cultura vietnamita, all’infondatezza della teoria del domino e a una «sovrastima delle capacità espansive dei paesi comunisti» (ivi). Schulzinger fa parte di quel gruppo di studiosi che parlano più di errori che di colpe e responsabilità, e che sembra mettere in secondo piano le scelte dei vertici americani, i quali furono caratterizzati «da cinismo, razzismo, ideologismo, noncuranza per i principi della democrazia, falsità, approssimazione, superficialità, crudeltà, mancanza di rispetto per la vita umana» (Bergamini 1998, 56). A questo proposito va ricordato che il numero di morti provocati da quel conflitto apparentemente periferico fu altissimo: a fronte di circa 58.000 soldati americani, le vittime vietnamite (sommando militari del Nord, vietcong e civili) oscillano tra i due e i tre milioni, cifra variabile in base alla lunghezza del periodo: se si considerano gli anni 1955-1975 le vittime superano i tre milioni, se ci si limita all’esplicito intervento statunitense la cifra è probabilmente inferiore ai due. Senza contare le centinaia di migliaia di morti in Laos e Cambogia.
In mezzo a tante assenze è davvero lodevole la scelta di Mondadori di pubblicare la traduzione, di Rosaria Contestabile, di Vietnam Wars 1945-1990 di Marilyn B. Young (1991), una studiosa di relazioni internazionali della New York University che con questo libro vinse il Berkshire Women’s History Prize. In questo volume, che ha avuto una certa diffusione negli Stati Uniti, Young prova a porre la guerra fredda in una prospettiva problematica e ancora attuale, mantenendo un livello alto di argomentazione senza cadere nel gergo specialistico; inoltre rilegge il coinvolgimento statunitense nell’ambito più ampio della storia dell’Indocina dalla colonizzazione francese al periodo della riunificazione dopo la caduta di Saigon. Il libro, peraltro, è uscito in italiano nel 2007, vale a dire sedici anni dopo l’edizione americana; ma su questo studio tornerò più avanti.
Tra le altre opere dell’ampio comparto degli studi di «politica» che sarebbe stato utile tradurre vanno ricordati: la Cambridge History of American Foreign Relations (1993) di Warren Cohen, molto concisa ma fondamentale per comprendere le forme di arroganza e autoinganno dei vertici americani, nonché l’incapacità di precisare il significato dell’insurrezione comunista, anticipata in modo straordinariamente lucido in The Quiet American, romanzo dell’inglese Graham Greene del 1955, tradotto in italiano da Piero Jahier per Mondadori nel 1957 col titolo Il tranquillo americano.
L’editoria italiana ha pure trascurato le opere incentrate sul ruolo dei presidenti americani, forse per un certo sospetto nei confronti della focalizzazione sulla leadership politica; sarebbero state utili per comprendere quanto peso abbiano avuto, nell’andamento della guerra, le decisioni dei singoli leader (Kennedy, Johnson, McNamara, Kissinger, Nixon) e del loro ristretto nucleo di collaboratori, a cominciare dal falso incidente del Golfo del Tonchino nel 1964. In questo ambito mancano in italiano le opere di Edwyn E. Moise (1996), di Lloyd Gardner (1995) e soprattutto del famoso storico americano George Herring (1994): tuttavia, esse si trovano in originale in varie biblioteche italiane.
Mancano gli studi che propongono analisi critiche dei leader militari, cruciali per comprendere quanto fossero subalterni alla politica presidenziale, probabilmente per proprio tornaconto, come emerge dai volumi di Herbert Raymond McMaster (1998) e di Robert Buzzanco (1996): quando i generali compresero che non c’era modo di vincere, il che avvenne già nei primi anni di guerra, non si ribellarono a Johnson né lasciarono trapelare i loro dubbi.
Se l’editoria italiana sembra avere trascurato (con l’eccezione di Young 1991) le trattazioni serie sulla guerra del Vietnam, va precisato che anche negli Stati Uniti, nonostante i numerosi studi usciti dopo la prima guerra del Golfo, le conoscenze diffuse fra i non addetti ai lavori si sono basate e continuano a basarsi su opere fuorvianti come JFK and Vietnam di John Newman (1992) e in particolare su JFK (1991), il film di Oliver Stone che propone una simile prospettiva complottista. La tesi secondo cui Kennedy voleva ritirarsi dal Vietnam e proprio per questo sarebbe stato ucciso non è mai stata confermata da nessuna ricerca rigorosa e lo stesso Chomsky l’ha fortemente criticata (1993): rimane peraltro una ricostruzione accettata acriticamente da buona parte dell’opinione pubblica grazie al successo del film di Stone.
Tra le opere non tradotte che mettono in luce le responsabilità del Congresso (scarsa conoscenza della materia, subordinazione prima a Johnson e poi a Nixon) va almeno ricordata The US Government and the Vietnam War di William Gibbons (1995).
Va poi elencata la serie di studi che contesta il luogo comune sui media americani che, schieratisi contro la guerra, l’avrebbero letteralmente affossata, influenzando profondamente gli americani, tutti mai tradotti. Questa «controstoria» emerge soprattutto nei volumi di Daniel Hallin (The Uncensored War, 1986: La guerra non censurata) e di Melvin Small 1994 (Covering Dissent, Raccontare il dissenso). Tali opere ridimensionano il ruolo eroico dei corrispondenti di guerra che era stato celebrato in Once Upon a Distant War (C’era una volta una guerra lontana lontana) di William Procham (1997), in The Day the Press Stopped (Il giorno in cui la stampa si fermò) di David Rudenstine (1996) e in molti altri testi. L’immagine romanticizzata del reporter e del fotografo della guerra del Vietnam continua a godere di una certa diffusione; d’altra parte è vero che il numero delle vittime tra gli addetti alla stampa fu molto alto.
Società americana, Vietnam e reduci
Vari studi si sono occupati «delle dinamiche politiche e istituzionali, degli assetti sociali e generazionali, della cultura e dell’arte» (Bergamini 1998, 66) prodotti dalla guerra del Vietnam, come pure degli effetti sulla psiche dei combattenti, materiale riletto criticamente in Italia in I lunghi anni sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti di Bruno Cartosio (2012), un ampio studio che coniuga la competenza dello storico americanista con un punto di vista transnazionale. Quasi tutte le principali opere scritte da statunitensi su società e cultura americana non sono mai state tradotte. Questo è il caso di In the Shadow of War (All’ombra della guerra) di Michael Sherry (1995) (che contiene, tra l’altro, una analisi dei rapporti tra guerra, tecnologia e consumismo) e di Losing Our Souls (Perdere l’anima) di Edward Pessen (1993), in cui la condanna delle scelte americane introduce l’idea di una vera e propria “bancarotta spirituale”. Non è stata tradotta nessuna delle opere di Tom Engelhardt, né The End of Victory Culture (1995: Fine della cultura della vittoria) in cui si discute, tra l’altro, del mito dell’invincibilità americana, né il più recente The American Way of War del 2010 (L’American way alla guerra), in cui la guerra del Vietnam è collocata nella storia di lungo periodo. Engelhardt è noto, nel mondo liberal, per avere creato nel 2001 il famoso blog «TomDispatch», in cui sono comparse le posizioni più significative dell’antimperialismo americano contemporaneo. E’ stato un punto di riferimento particolarmente importante negli anni della presidenza di George Bush figlio, caratterizzati da una forte ripresa della retorica patriottica. Tra le denunce “dal basso” va inoltre ricordato l’appassionato A Bright Shining Light di Neil Sheehan, edito da Piemme nel 2003 col titolo Vietnam: una sporca bugia nella traduzione di Giancarlo Carlotti (e a Piemme bisogna riconoscere il merito di avere contribuito in modo significativo alla traduzione in italiano di molte opere importanti sulla guerra del Vietnam).
Grande spazio è stato dato dalla storiografia americana ai movimenti di protesta contro la guerra. Tra questi, anch’essi mai tradotti, An American Ordeal (Ordalia americana) di Charles De Benedetti (1990), Give Peace a Chance (Diamo una possibilità alla pace) a cura di Melvin Small e William D. Hoover (1992), e The War Within (La guerra in casa) di Tom Wells (1994). Va inoltre citato l’ottimo A Companion to the Vietnam War curato da Young e Buzzanco nel 2002, una delle raccolte più adatte all’insegnamento universitario.
Un ruolo importante e a sé stante hanno In Retrospect. The Tragedy and Lessons of Vietnam (A ripensarci. La tragedia e le lezioni del Vietnam), l’autobiografia di Robert McNamara del 1995, e soprattutto The Fog of War (La nebbia della guerra), il documentario-intervista su di lui realizzato da Errol Morris nel 2003, quando l’ex Segretario di stato aveva ormai 85 anni (The Fog of War vinse l’Oscar per il miglior documentario nel 2004). Costruita con grande abilità in forma di undici lezioni di storia e politica, fornisce riflessioni e ammissioni sulla consapevolezza della sconfitta americana fin dai primi anni di guerra che risultano ancora oggi agghiaccianti (l’edizione del dvd in commercio contiene anche la versione doppiata in italiano).
Varie opere hanno indagato sugli effetti del PTSD (sindrome postraumatica da stress) che pare abbia colpito tra il 15 e il 25 percento dei reduci del Vietnam, oltre 700.000 casi su una cifra approssimativa di tre milioni di giovani inviati in Vietnam. Tra i titoli principali (non tradotti): Shook over Hell di Eric Dean (1997) e The Politics of Readjustment di Wilbur Scott (1993). E’ stata la guerra del Vietnam che ha posto al centro dello studio medico e psicologico fenomeni già indagati nella prima e nella seconda guerra mondiale con il termine di shell shock (su questo in italiano si veda Craparo 2013 e Der Kolk 2015).
Conclusioni
La scarsa attenzione dell’editoria italiana per alcuni aspetti importanti della storia della guerra del Vietnam si colloca all’interno di un più ampio disinteresse europeo. Infatti è probabile che un discorso analogo si possa applicare alla Germania e alla Francia, quest’ultima molto più attenta ai romanzi sulla guerra del Vietnam, forse anche per via della propria sconfitta in Indocina negli anni cinquanta.
Va considerato il fatto che nelle generazioni di studiosi successive agli anni settanta e ottanta la conoscenza dell’inglese ha preso il posto di quella del francese e del tedesco, azzerando il desiderio e il bisogno di tradurre opere reperibili in originale, come ho già osservato a proposito della storia militare; per giunta l’inglese degli storici non è particolarmente ostico se confrontato con la tendenza al gergo specialistico un po’ involuto e narcisistico di altre discipline umanistiche. E soprattutto è difficile che un editore scommetta su un testo impegnativo e magari molto lungo. Non dobbiamo stupirci se il bel volume di Marilyn Young, che – come ho già ricordato – è stato tradotto soltanto sedici anni dopo la sua uscita, continua a essere ristampato (in realtà ora è fermo alla settima edizione ed è fuori commercio), oppure La storia della guerra del Vietnam (Karnow 1985), accorto titolo della versione italiana di Vietnam. A History, del 1983, dell’ottimo giornalista Stanley Karnow, si trova in più di cinquanta biblioteche italiane. Il primo comprime il racconto dei conflitti in Vietnam in trecentocinquanta pagine rigorose e appassionate, molto adatte a un pubblico italiano “di sinistra” e contrario alla guerra; il secondo rimane leggibile per il suo stile avvincente e per un soggettivismo moderato che può attrarre il grande pubblico nonostante le cinquecento pagine molto fitte.
Nella linea sia giornalistica e discorsiva sia rigorosa tracciata da Karnow e da Young si collocano alcune opere attualmente disponibili in Italia. La guerra del Vietnam (2003), traduzione di Luisa Pece di The Vietnam War di Mitchell K. Hall, è un “manuale” agile (meno di duecento pagine) proposto da il Mulino per uso universitario, ed è opera di un bravo storico americano. Più curiosa appare la scelta di Einaudi di puntare, con la traduzione di Umberto Gandini, su un volume realizzato da uno studioso tedesco, Marc Frey: la sua Storia della guerra del Vietnam (2008) si concentra, come emerge dal sottotitolo, su La tragedia in Asia e la fine del sogno americano, vale a dire sul significato dirompente che il conflitto indocinese ha avuto su uno dei miti fondativi degli Stati Uniti, l’American Dream, ma anche sull’utopia rivoluzionaria vietnamita. Infine va citata la Storia popolare della guerra in Vietnam di Jonathan Neale (2008), edito da il Saggiatore come traduzione di A People’s History of the Vietnam War (2003), in cui la storia della guerra è vista dalla prospettiva di chi ne pagò il prezzo più alto. In questi volumi attualmente in commercio in Italia e tutti radotti in modo professionale, si coglie lo sforzo di presentare in modo sintetico eventi e interpretazioni, rendendo il racconto fluido e piacevole, e cercando di sfatare l’idea abbastanza diffusa che la narrazione storica debba essere noiosa. In tutti i casi si tratta di opere dal numero di pagine contenuto. L’unica eccezione, che stupisce per il coraggio editoriale, è una recente proposta di Neri Pozza: Vietnam. Una tragedia epica 1945-1975 (2019), traduzione di Filippo Verzotto di Vietnam. An Epic Tragedy del noto storico e giornalista inglese Max Hastings (2018), un volume di novecento pagine che si legge come un romanzo, pur essendo documentato in modo rigoroso e attento a tutti i possibili punti di vista, sia “in presa diretta” sia con la consapevolezza acquisita più di quarant’anni dopo la conclusione del conflitto. Per comprendere le doti della scrittura di Hastings, ottimamente interpretate da Verzotto, basta selezionare le pagine da lui dedicate all’Offensiva del Tet (Hastings 2019, 501-529) e confrontarle con la trattazione offerta da altri storici e giornalisti: lo studioso inglese, pur fornendo molte fonti attendibili, rende il racconto scorrevole e accattivante (grazie anche al lavoro del traduttore).
Perché queste storie della guerra del Vietnam circolano oggi in Italia più numerose che negli anni ottanta e novanta? La prima ipotesi, non particolarmente originale, è che la distanza temporale dalla fine della guerra del Vietnam possa permettere di chiudere l’interpretazione di quegli anni sessanta che Bruno Cartosio ha opportunamente chiamato «lunghi» nel suo studio già citato (Cartosio 2012). Ma è anche probabile che, in mancanza di opere importanti sulle guerre americane dopo il crollo del muro di Berlino, il conflitto in Vietnam rappresenti il riferimento più immediato, per vicinanza temporale e per analogie di problemi geopolitici, per riflettere sul pantano in cui oggi gli Stati Uniti si trovano in Medio Oriente. Sottolineo qui il termine «pantano» per tradurre l’inglese quagmire, tanto frequentemente usato per definire la guerra in Vietnam, ma anche perché ben riassume i conflitti recenti che hanno costantemente accompagnato le amministrazioni repubblicane da George Bush padre a Donald Trump passando per George Bush figlio, senza che le presidenze democratiche di Clinton e Obama si distinguessero per una politica estera particolarmente illuminata e risolutiva.
Un ulteriore elemento arricchisce il panorama italiano contemporaneo sul tema: comincia infatti a farsi strada il punto di vista vietnamita, troppo a lungo escluso oppure marginalizzato, come emerge dalla buona risonanza che hanno avuto le traduzioni di alcune opere di Viet Thanh Nguyen pubblicate da Neri Pozza negli ultimi anni: non soltanto i suoi tre romanzi di successo (Viet Thanh Nguyen 2016, 2017 e 2021) ma anche l’ampio saggio Nothing ever Dies. Vietnam and the Memory of War (2016), tradotto da Chiara Brovelli in Niente muore mai. Il Vietnam e la memoria della guerra (Nguyen 2018).
Ringraziamenti
Ringrazio il personale della Biblioteca comunale “Venezia” di Milano, della Biblioteca umanistica dell’Università degli Studi di Bergamo e della Libreria “Centofiori” di Milano che, anche durante la pandemia, hanno continuato a fornirmi volumi, articoli e informazioni bibliografiche. Ringrazio Giovanni Scirocco per avermi segnalato con notevole tempismo la traduzione del bel libro di Max Hastings citato qui e Paolo Barcella, Chiara Bietoletti, Roberto Cagliero, Erminio Corti e Bruno Cartosio per i consigli. Questa bibliografia comprende sia i testi menzionati nel saggio sia altri comunque pertinenti all’argomento.
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