TRADURRE UNA CORONA DI SONETTI DI INGER CHRISTENSEN
di Bruno Berni
Tradurre poesia non è mai un atto banale, richiede – più che la prosa − la capacità (almeno il tentativo) di lasciarsi scivolare in un testo, indossarlo, esplorarlo a occhi chiusi, percepirlo sulla pelle, sentirlo fin dentro allo stomaco, provare persino il dolore che lo sostiene. Per poi spogliarsi di nuovo e, conservandone traccia sull’anima, tenere lontano il mondo e cucire un nuovo testo, ancora a occhi chiusi, con altri materiali, ma un testo che dia a chi lo indossa le stesse sensazioni provate. Forse è così, tradurre poesia. O forse no.
Tradurre la poesia di Inger Christensen è anche altro, un’esperienza non facile perché ogni singola parte − in una produzione in versi che, raccolta in un volume col suo volto in copertina, non arriva a cinquecento pagine (ma pesa come un gruppo marmoreo) − appare come un elemento di una costruzione infinita di mattoni che regalano fino in fondo il loro vero senso solo se posti pazientemente l’uno accanto all’altro. Una sfida affascinante e irrinunciabile, per la complessità delle architetture e per la difficoltà di isolare brani o singoli testi dalle sue opere, che non sono insiemi armonici di versi raccolti in un dato momento della produzione, bensì costruzioni in cui la struttura del tutto poggia su ogni singola parte e appare il più delle volte basata su un progetto. E anzi molti critici hanno notato come l’intera opera poetica della scrittrice danese sia un unico grande testo in cui, nell’arco di un trentennio, i singoli componimenti sono posti in correlazione come tessere di un mosaico: di conseguenza, fuori dal loro contesto, possono non svelare fino in fondo il loro pieno significato. Ma il motivo per cui la traduzione di Inger Christensen è impresa difficile è lo stesso che spinge il traduttore a cimentarsi ripetutamente con le sue poesie, ad aggiungere tessere al proprio personale mosaico di versi della scrittrice danese: il suo testo è una struttura complessa che non si presta alle limitazioni di una scelta, ma allo stesso tempo si configura – per chi ugualmente si decidesse ad affrontarlo – come una sfida, un continuo aggiornamento di rinvii interni.
L’autrice
Nata a Vejle nel 1935, Inger Christensen esordisce nel 1962 con la sua prima raccolta, Lys (Luce), seguita l’anno successivo da Græs (Erba), due opere in cui l’autrice coltiva la forma breve cercando di catturare la musicalità della lingua. Alla rapida successione di queste raccolte non fa però seguito la ricca produzione che ci si sarebbe aspettati, anzi le opere della Christensen nel corso dei decenni successivi si rarefanno di pari passo con l’aumento della sua popolarità e soprattutto con l’incremento di profondità, di spessore e di valore che i suoi versi hanno raggiunto, attesi come pochi da un pubblico che negli ultimi anni di vita l’ha considerata il mito vivente della poesia danese del Novecento.
La prima produzione lirica è seguita da due romanzi in cui la sperimentazione linguistica lascia intravedere un lavoro che non ha soluzione di continuità con quello che sta alla base delle opere in versi, ma è con la raccolta det (ciò), del 1969, che Inger Christensen rivela davvero la strada che stava seguendo già alla fine degli anni sessanta e che è rimasta la sua più sincera connotazione: quel modo di fare poesia che Steffen Hejlskov Larsen (1967) aveva definito systemdigtning,ovvero poesia sistemica – basata su un sistema –, e del quale la scrittrice danese con questa raccolta si dimostrava la migliore interprete. Le 239 pagine dell’opera sono suddivise in un Prologos e un Epilogos, tra i quali si inserisce come parte centrale un Logos composto da tre sezioni – Scenen (La scena), Handlingen (L’azione) e Teksten (Il testo) – scaglionate a loro volta, con termini ripresi da Viggo Brøndal(1940), in otto sezioni – da Symmetrier (Simmetrie) a Transitiviteter (Transitività), da Extensioner (Estensioni)a Integriteter(Integrità)– ciascuna di otto componimenti.
Dopo un nuovo romanzo, Det malede værelse (cfr. Berni 2014), il più importante, pubblicato nel 1976 e ambientato nella Mantova rinascimentale intorno alle figure della «camera picta» del Mantegna, Inger Christensen torna alla poesia con Brev i april (cfr. Berni 2013), del 1979, una breve raccolta di liriche basata su un viaggio al Sud insieme al figlio. In sette sequenze – come i giorni della settimana – composte di cinque testi, il contrasto tra la visione del mondo dell’adulto disilluso e la curiosità del bambino trasforma il viaggio esteriore in un viaggio nell’anima, e la spontaneità e lo stupore con cui il piccolo affronta la realtà – che si rispecchiano nella concisione dei versi – portano l’io poetico a scoprire e ricreare il mondo circostante con la produzione poetica: jeg må skabe min egen undren / eller være underlagt / samme forsvinden / i sproget / som senere i døden (devo creare il mio stesso stupore/ o essere sottomessa/ alla stessa scomparsa/ nella lingua/ come poi nella morte; Berni 2013, 31).
Una struttura compositiva rigorosamente imperniata su ripartizioni matematiche, capace, si direbbe istintivamente, di frenare il libero esercizio della vena poetica. Vero è invece che il sistema in cui Inger Christensen apparentemente limita la creazione dei suoi versi si rivela una solenne impalcatura sulla quale la poesia, incanalata alternativamente in schemi metrici vari e versi liberi, in una polifonia di generi poetici, fiorisce nel rapporto, nel divenire, di un io di fronte al mondo, di una lingua di fronte alla realtà. E nel divenire di una realtà di fronte alla lingua, come afferma la scrittrice in un suo saggio più recente, paragonando la parola e la scrittura poetica allo sforzo creativo degli aborigeni descritti da Chatwin nelle Vie dei canti, destinati a creare continuamente con il loro canto un mondo che altrimenti non esisterebbe: et meget håndgribeligt eksempel på, at ordet skaber hvad det nævner(Christensen 2000, 51: un esempio molto concreto del fatto che la parola crea ciò che nomina).
L’uso di un sistema, la systemdigtning, rappresenta dunque la vera caratteristica della produzione della scrittrice danese, che utilizza il linguaggio della creazione poetica come àncora per proteggere il singolo – che è Del af labyrinten(Parte del labirinto), come recita il titolo di una sua fondamentale raccolta di saggi del 1982 – dall’ignoto, per interpretare il mondo ricreandolo in una costruzione di forme armoniose. Nella sua successiva raccolta, alfabet, del 1981 (cfr. Rasmussen e Curti 1987), Inger Christensen torna a creare sulla base di una struttura matematica e linguistica in cui la lunghezza dei testi è determinata dalla serie numerica di Fibonacci – in maniera tale che il numero dei versi di ogni componimento corrisponda alla somma dei versi dei due precedenti – e il contenuto è legato alle lettere dell’alfabeto. Due sistemi a confronto, l’uno infinito e l’altro finito, che collidono: la serie di testi termina infatti alla lettera n – che non a caso definisce un numero infinito.
Il testo
La poesia di Inger Christensen, nel suo incontro – fortemente influenzato da Chomsky – tra la matematica e la lingua come strumenti dell’interpretazione del mondo, trova il suo apice in quella che è la sua ultima raccolta, Sommerfugledalen. Et requiem, del 1991.
È passato molto tempo da quando La valle delle farfalle si è posata sulla mia scrivania, ma il testo, quindici pagine, è rimasto lì a lungo. Tutto è iniziato con la folle idea che sia facile impresa tradurre una corona di sonetti, lo schema descritto esemplarmente dal Crescimbeni nei suoi Comentarj (1731, 214):
Queste [le corone di sonetti] sono composte di quindeci sonetti, l’ultimo de’ quali si appella Magistrale; e dai versi di questo si cavano i principj, ed i fini di tutti gli altri quattordici; imperocchè il primo sonetto incomincia col primo verso del magistrale, e termina col secondo, il secondo incomincia col secondo verso dell’istesso magistrale, e termina col terzo, e così si seguita fino al decimoquarto sonetto, il quale incomincia col decimoquarto verso del magistrale, e termina ripigliando il primo del medesimo, di modochè, entrando poi il magistrale, con esso si chiude il componimento circolato a guisa di corona. Di questa maniera rarissime sono quelle, che sieno state fatte da un sol Compositore.
Un sistema perfetto, e non è un caso se la Christensen, che aveva frequentato a lungo la systemdigtning, giungesse infine a cimentarsi con un sistema poetico classico.
In preda al male comune ai traduttori – leggere un testo con la mente che già vola alle impunture che risolveranno quella difficile piega, affinché il resto della stoffa scorra liscio sotto la mano –, la lettura del primo sonetto concedeva speranze di poter riprodurre la partitura. È un gioco complesso, scovare una chiave che apra la possibilità di arrivare alla fine senza perdere del tutto la faccia, trovare i segreti nascosti tra le righe, quelli che hanno permesso all’autore quel ricamo di versi e che permetteranno al traduttore di cavarsela senza rompere troppo gli schemi. Capire le strategie e le pieghe del testo che concedono uno spazio di manovra, anche se lieve.
Il primo sonetto si è scritto da solo, riproducendo – spero – la musica dell’originale, alzando un po’ il tono – benché in danese il sonetto non sia certo un genere basso −, rispettando le rime, al punto che i primi versi erano già sotto il testo, bastava grattare e la musica cambiava lingua. Il secondo è arrivato con qualche affanno in più, ma alla fine era pronto anche quello.
È a quel punto che ho capito, mi sono reso conto di aver sbagliato l’approccio a quella raccolta. Una corona di sonetti va tessuta al contrario – così Inger Christensen raccontava di averla scritta – ovvero partendo dall’ultimo sonetto (il sonetto “magistrale”, il mestersonet) per costruire uno schema sul quale ricomporre i quattordici sonetti precedenti. Così, evidentemente, il testo andava anche tradotto. E così, via a limare il quindicesimo sonetto, ottenendo così tutti i primi e gli ultimi versi, in uno schema che tesseva la trama di una tela sulla quale ricamare il resto.
«Ma perché devi farla in rima?», mi chiese Inger Christensen una sera. Eravamo a cena da Morten Søndergaard, in una Copenaghen immersa nel freddo invernale, e le avevo appena confessato che la corona di sonetti era lì che lentamente avanzava, che l’avrei completata, ma con calma, perché duecentodieci versi rimati in quel modo richiedono tempo. «Devo farla in rima perché sono sonetti, una forma tipica della poesia italiana, mi sembra motivo sufficiente – risposi, – devo farla in rima perché tu componi strutture che seguono un progetto, che questa volta è basato sul metro e sulla rima: quel progetto devo rispettarlo». «Ci metterai troppo tempo, ma se arrivi alla fine verrò a leggerla io in italiano».
Era una promessa capace di alimentare il lavoro. Già pochi mesi dopo era in Italia, Inger Christensen, per fare alcune letture. Non era completa, la corona di sonetti, l’accordo non poteva essere rispettato, perciò Inger leggeva in danese, io in italiano. A Napoli il primo sonetto usciva dalla porta di Treves e si diffondeva in piazza Plebiscito, e chi ha sentito la sua voce non la dimenticherà. A Roma le Scale d’acqua (Vandtrapper; cfr. Berni 2012)tornavano alla lingua in cui erano state vissute, tradotte per lei, per quella serata, pubblicate solo qualche anno più tardi. Lette in questa città per la prima volta dopo quarant’anni, sulla terrazza del Circolo scandinavo, alla Lungara, mentre il sole calava e in lontananza il traffico del Lungotevere sembrava fermarsi in ascolto di quella voce mormorante: «Piazza Campitelli, piazza Nicosia, piazza Colonna».
Pochi mesi dopo, il 2 gennaio del 2009, Inger Christensen se ne andava a 74 anni, fermando il mio lavoro: non aveva più senso portarlo a compimento. «Ci metterai troppo tempo»; e aveva ragione. C’è voluto qualche anno, ma poi ho capito che comunque la traduzione andava completata; c’è voluto qualche anno per decidere di riprendere in mano la tela e completare il ricamo. Si tratta di un lavoro che non può avere scadenze precise, ma che solo se sottomesso ai rigori di un progetto editoriale può sperare di trovare il ritmo necessario per essere portato a termine, e il momento è arrivato.
La traduzione
Affrontando il lavoro ho provato a ricostruire una struttura che rendesse onore all’originale. La strategia possibile era una sola: identificare gli strumenti che hanno permesso all’autrice di portare a compimento un’impalcatura quasi perfetta e servirmi degli stessi strumenti e dei medesimi spiragli di libertà. Così, per esempio, ho fatto tesoro delle lievi variazioni agli schemi dei sonetti, che quasi sempre usano per le rime la struttura ABAB CDCD EFE GFG, mentre i sonetti V e XIV trasformano le terzine in EEF FGG, e il VII ha uno scarto evidente in EFE GHG. Non potendo seguire gli stessi modelli, ho rispettato sempre lo schema di base, ma servendomi della libertà tracciata dall’autrice al momento di rimare il sonetto VI, dove la versione italiana ha le terzine che seguono lo schema EFE FEF. Una lieve forzatura sintattica nelle terzine del sonetto XI ha permesso di rispettare anche in quel caso la difficile rima con «farfalle».
Da un punto di vista metrico, il danese presenta maggiori libertà, servendosi dell’endecasillabo ma con diverse eccezioni. Nella traduzione si è cercato di rimanere sugli endecasillabi, che in dieci casi sono tronchi e in due casi sdruccioli – la seconda quartina del sonetto IX −, grazie anche alla soluzione della rima «paprika/Africa», già presente nel danese, che è stato possibile conservare. Questo è l’unico punto in cui la rima danese ha facilitato la traduzione, insieme alla rima «system/diadem», nella prima quartina del sonetto V, che funziona nell’originale come nell’italiano «sistema/diadema».
Inutile dire che lo sforzo per eliminare le assonanze, tipico della traduzione in prosa, qui è stato evitato più volte in nome della rima, e non è con poca soddisfazione che talvolta mi sono permesso di rimare con avverbi in -mente, che sono fatalmente e abitualmente censurati dalla maggior parte delle redazioni del nostro paese. Evidentemente si tratta invece di un uso palesemente utile e necessariamente inevitabile in un testo come quello qui presentato.
Qualche traccia arcaicizzante può essere ancora presente nella struttura sintattica e negli stratagemmi metrici e lessicali della poesia tradizionale, le elisioni e i troncamenti necessari per mantenere il metro, e in singole scelte lessicali.
Il problema del passaggio da un lessico in buona parte monosillabico e bisillabico come quello danese ai vocaboli più lunghi che caratterizzano l’italiano è stato forse l’ostacolo principale nella traduzione di un testo che per sua natura metteva a disposizione un numero preciso di sillabe sulle quali lavorare (210 endecasillabi, con un lieve scarto per la presenza di versi tronchi o sdruccioli), laddove l’esperienza dimostra che un testo danese tende a «crescere» in traduzione italiana. Tale circostanza, insieme all’uso danese dei sostantivi composti, che nello sviluppo italiano incrementavano il testo, ha reso necessario eseguire qualche taglio per rispettare la metrica. Si tratta di tagli lievi, che non incidono molto sull’economia del testo, operati in prevalenza su brevi elenchi (termini zoologici e botanici, colori). D’altro canto gli stessi brevi elenchi rappresentavano palesemente, anche per l’autrice, una strategia compositiva che le consentiva di avere più margine di manovra all’interno di un sistema metrico e rimico così rigido.
Se ogni traduzione deve fare i conti con una bussola interna al testo, che indica al mediatore quale sia la rotta da seguire, indirizzandolo volta per volta in misura maggiore verso la forma o il contenuto o il suono, in questo caso l’uso da parte dell’autrice di una forma così rigidamente strutturata non lasciava dubbi sulla direzione da prendere. Ma da prendere con misura, come sempre accade, perché, sebbene stretto in catene formali così forti, La valle delle farfalle è un testo in cui memoria e natura si fondono, vita e morte si inseguono, e la generale atmosfera di tensione lirica dona al testo un’intensità che investe tutti i suoi aspetti.
Sfruttando spesso gli stessi accorgimenti dell’autrice, si è cercato dunque di trovare una soluzione che tendesse a un equilibrio tra la restituzione dei valori formali e l’interpretazione fedele dei contenuti. Con quale esito non sta a me deciderlo.
*Per gentile concessione dell’Autore, ripubblichiamo qui, con qualche precisazione filologica, la Postfazione a La valle delle farfalle (Donzelli, Roma, 2015), un gioiello di “traduzione estrema” da Sommerfugledalen. Et requiem (København, Brøndum1991) di Inger Christensen.
Riferimenti bibliografici
Berni 2012: Inger Christensen, Scale d’acqua, traduzione di Bruno Berni, postfazione di Elisabeth Friis, fotografie di Sara Berni, Kolibris, Ferrara 2012 (da Vandtrapper)
– 2013: Inger Christensen, Lettera in aprile, traduzione di Bruno Berni, postfazione di Elisabeth Friis, Kolibris, Ferrara 2013 (da Brev i April. Digte, København, Brøndum 1989)
– 2014: Inger Christensen, La stanza dipinta. Un racconto mantovano, traduzione di Bruno Berni, Scritturapura, Asti 2014 (da Det malede værelse. En fortælling fra Mantua, København, Brøndum 1976)
Brondal 1940: Viggo Brøndal, Præpositionernes Theori. Indledning til en rationel Betydningslære, Bianco Luno, Copenaghen 1940 (ne esiste una traduzione italiana dall’edizione francese: Viggo Brøndal, Teoria delle preposizioni. Introduzione a una semantica razionale, a cura di Amalia Ricca Ambrosini, Nota di Gian Luigi Beccaria, Silva, Milano 1967)
Christensen 1982: Inger Christensen, Del af labyrinten, København, Gyldendal 1982
– 2000: Inger Christensen, Det er ord alt sammen, in Inger Christensen, Hemmelighedstilstanden, Gyldendal, Copenaghen 2000, pp. 47-59
Crescimbeni 1731: Crescimbeni Giovan Mario Crescimbeni, Comentarj intorno alla sua istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia 1731, I, l. III, cap. IX, «Delle Corone, e d’ogni altra spezie di più Sonetti legati insieme», pp. 211-5, qui p. 214
Larsen 1967: Steffen Hejlskov Larsen, Systemdigtning – et forsøg på en karakteristik og vurdering, in «Vindrosen», 7 (1967), pp. 16-25
Rasmussen Pin, Curti 1987: Inger Christensen, Alfabeto. Poesie, a cura di Inge Lise Rasmussen Pin, traduzione di Inge Lise Rasmussen Pin e Daniela Curti, Giardini, Pisa 1987 (da Alfabet, København, Gyldendal 1981)