L’ostello della lontananza

NEL LAVORO DI TRADUZIONE CONFLUISCE TUTTA LA MIA STORIA

di Isabella Vaj

Solo ciò che è umano può essere davvero straniero,
il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento.

Wisława Szymborska
(traduzione di Pietro Marchesani)

L’ospitalità dello straniero

Antoine Berman evita una definizione di traduzione e preferisce offrire una nuova metafora, accogliendo le parole del trovatore provenzale Jaufré Rudel: l’auberge du lointain (Berman 1995), l’ostello della lontananza, il luogo dove lo straniero trova ospitalità, dove la comune umanità, pur nella confusione delle lingue, garantisce l’incontro e lo scambio. La traduzione è questa esperienza di condivisione della propria umanità con lo straniero. Ce lo ricorda un proverbio afghano: «Le montagne, per quanto alte, non possono mai raggiungersi. Gli uomini invece sì». Perché gli uomini non sono ancorati alla terra. Lo straniero ci regala il suo mondo che noi possiamo mettere in dialettica con il nostro, rendendo malleabile la nostra identità. Permettendoci di conoscere «il gusto degli altri».

Khaled Hosseini è a Roma per l’uscita sugli schermi italiani del film Il cacciatore di aquiloni, una traduzione cinematografica diligente della trama del romanzo, che, a mio giudizio, non trova una propria intima necessità.

«Sono la sua controfigura italiana», mi presento. Uso double.

Lo scrittore mi guarda per qualche secondo senza capire, poi con un sorriso negli occhi dice: «Lei ha prestato la sua voce alla mia».

Mi colpisce l’elemento di provvisorietà, di non autenticità, implicito nel verbo prestare. È pur vero che senza una voce italiana, per quanto eco attutita, la sua non sarebbe mai arrivata alle centinaia di migliaia di lettori del nostro paese. Mi accontento.

La nostalgia

Sono convinta che il traduttore debba essere una sorta di doppio, di controfigura che si sostituisce all’autore là dove questi non può arrivare: a me è toccata la fortuna di indossare i panni di Khaled Hosseini e di recitare l’acrobazia linguistica necessaria per trasferire in italiano la sua duplice cultura: quella della patria d’adozione, gli Stati Uniti, e quella dell’Afghanistan, il paese d’origine (Vaj 2009a). Lo scrittore, un Ulisse esiliato sull’isola di Ogigia, seducente ma estranea, ambienta i suoi romanzi nell’Itaca dei ricordi dove spadroneggiano Ciclopi e Lestrigoni. La narrazione gli consente di vivere nella fantasia il nostos, il ritorno, impossibile nella realtà.

Khaled Hosseini non sarà mai più afghano come i suoi connazionali che hanno vissuto in Afghanistan gli ultimi trent’anni di guerre ininterrotte. Ha studiato e vissuto negli USA gran parte della sua giovane vita, incapace di eludere il senso di colpa per la fuga dal suo paese. Esilio significa costrizione a ricordare, dice Edward W. Said, e il modo in cui si ricorda il passato determina la nostra visione del futuro; lo scrittore palestinese aggiunge che non è possibile alcun ritorno al passato senza ironia (Said 2000, 32). Se Hosseini ha fatto i conti con il proprio passato – ricordo la bellissima pagina de Il cacciatore di aquiloni (Vaj 2004, 374-375) sul perdono del padre da parte di Amir, l’io narrante – non è certo l’ironia la stoffa di cui è fatta la sua narrazione. Che l’esilio diventi una forma dell’anima ce lo ha detto Dante con versi supremi: «Lascerai ogne cosa diletta / più caramente …»

Dopo l’11 settembre Hosseini ha assunto il punto di vista politico dell’establishment americano: ha creduto che sarebbero state le bombe americane prima e della NATO poi a riportare la pace nella sua terra devastata da un ventennio di guerre. Il suo indefettibile ottimismo lo porta ancora oggi ad avere una percezione positiva del presente e del futuro dell’Afghanistan, anche se è intellettualmente troppo onesto per chiudere gli occhi di fronte all’inadeguatezza del governo di Hamid Karzai e alla perdita di popolarità della guerra afghana tra gli americani; non sottovaluta il caos in cui potrebbe cadere il paese quando nel 2013 le truppe della NATO torneranno a casa (Staglianò 2011). Il caos sembra essere il destino storico del Centro Asia (Rashid 2008).

È fuori luogo giudicare uno scrittore per come si schiera politicamente, ma è lecito valutare le sue azioni come uomo. Khaled Hosseini da anni collabora con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR); ha istituito una fondazione per raccogliere fondi a favore di alcune organizzazioni non governative che in Afghanistan si occupano di assistenza ai profughi. Il suo punto di vista sulle condizioni attuali del paese, in particolare per quanto riguarda l’istruzione e la condizione delle donne, è prudente, ma positivo. Del resto sappiamo che i cambiamenti culturali sono infinitamente più lenti di quelli politici.

L’ottimismo di Hosseini è stato forse uno degli elementi del successo dei suoi romanzi: la vulnerabilità dell’Occidente, messa a nudo dall’attacco alle Torri Gemelle, ha creato un diffuso senso di sgomento e di precarietà che solo una speranza di pace, per quanto velleitaria, può attenuare. Ci sono tante ragioni per cui essere grati a Hosseini, ma c’è n’è una che apprezzo in particolare: non ha approfittato del suo immenso successo per ammannire ai suoi lettori un romanzo all’anno. In un mondo di chiassosa avidità come il nostro, come non essere ammirati dal suo silenzio?

La nebulosa del passato

Forse perché in questa fase della mia vita la nostalgia di una patria perduta richiama la nostalgia della giovinezza perduta, mista al desiderio di non fare del passato uno stucchevole estraneo, ho voluto rievocarlo con compassione. È stato questo doppio sentimento che mi ha dettato non solo il tono della traduzione dei romanzi di Hosseini, ma anche le pagine autobiografiche de Il cacciatore di storie (Vaj 2009b), il companion book che ho scritto in omaggio alla grande cultura afghana e nello stesso tempo ai ricordi che quel mondo remoto ha resuscitato dalla nebulosa del mio passato.

Viene spesso ripetuto che la traduzione riflette ciò che il traduttore è in quel momento della sua vita. In realtà quello stesso momento condensa l’intera storia di una vita.

L’università mi ha insegnato poco di essenziale. Le cose che contano le ho imparate al liceo, le devo soprattutto alla mia insegnante di lettere, la glottologa Carla Schick, che mi ha trasmesso la passione per la lingua, la consapevolezza della sua storicità e dei suoi aspetti tanto di libertà individuale quanto di norma fissata dalla tradizione (Schick 1960).

Per carattere sono vittima di una contraddizione insanabile: il desiderio di approfondire la conoscenza di un’unica materia – la lingua italiana – e una irriducibile curiosità per molti campi del sapere: lingua inglese, lingua araba, arte islamica, archeologia. Curiosity killed the cat: come dimenticarlo?

Ho rinunciato all’insegnamento davanti alla mia incapacità di sanare lo scollamento tra scuola e vita che mi veniva rimandato dagli studenti. Quando il mattino mi infilavo in metropolitana, mi chiedevo perché mai mi ostinassi a credere all’utilità di conoscere l’inglese. Essendo pacifista mi sono rifiutata di far violenza a chi trovava lo studio una perdita di tempo: io non ho mai smesso di considerarlo il più grande dei privilegi. Ho rinunciato. Eppure mi ero dedicata alla didattica dell’inglese trasfondendo la mia esperienza tra i banchi in alcuni fortunati testi scolastici per la Casa Editrice Lattes di Torino.

Ho pensato allora che fosse per me più gratificante tornare a studiare; e per dare un fondamento scientifico alle mie conoscenze empiriche acquisite sul campo, soprattutto sugli scavi della città romana di Luni (La Spezia), mi sono specializzata in archeologia a metà degli anni Ottanta, collaborando poi a lungo con l’Istituto di Archeologia dell’Università Cattolica di Milano.

Il jinn della curiosità mi ha ripreso all’inizio degli anni Novanta spingendomi a vedere chiaro nel funzionamento delle lingue semitiche della cui misteriosa alterità da sempre sentivo favoleggiare. Mi sono perciò diplomata in lingua araba e cultura islamica all’ISMEO di Milano (ora ISIAO). Ho così scoperto che ciò che noi chiamiamo predicato nominale in arabo viene definito complemento di stato e va in caso accusativo! Ho scoperto che la costruzione paratattica non presuppone un pensiero elementare, ma conferisce ordine e ritmo alla scrittura. Ho scoperto che la ripetizione non solo non è considerata un elemento fastidioso, ma un tratto stilistico elegante. Come sempre l’altro, straniero ma non estraneo, ci pone di fronte ai nostri limiti, aprendo prospettive impensate.

L’ultima svolta nella mia attività lavorativa è avvenuta una decina d’anni fa quando ho avuto la fortuna di un incontro casuale, quanto determinante, con una redattrice della casa editrice Piemme, ora di Rizzoli, che mi ha offerto di tradurre narrativa inglese e americana: un caso che mi ha riportato alle origini. Come ci ricorda Woody Allen in Whatever Works, la vita è insensata, ma esiste il caso che talvolta può essere fortunato. Così è stato per me.

Perché indulgere a questi spudorati dettagli autobiografici? Perché nel mio lavoro di traduzione inevitabilmente confluiscono le mie esperienze culturali, ma soprattutto il mio modo di sentire la vita, gli affetti, la letteratura, la lingua. In tre parole: la mia storia.

Farò un solo, piccolo, ma spero significativo esempio di come la formazione archeologica mi ha aiutato a evitare errori. Ritrovo mud brick invariabilmente tradotto con «mattone di fango», un’espressione errata con una connotazione spregiativa, mentre mud brick si riferisce in modo neutro a un particolare materiale edilizio diffuso in tutto il mondo: il mattone crudo, vale a dire argilla mista a paglia, essiccata al sole. Nei paesi dove non esiste buona pietra da taglio, ma non solo, sono diffuse le costruzioni in mattoni crudi, che non sono necessariamente indice di un’edilizia povera o primitiva: il sontuoso palazzo ex-sultanale di Say’un, nello Yemen, e la celebre moschea Sankoré di Timbuctù, Mali, sono costruiti in mattoni crudi. In mattoni crudi è costruita la kolba sulle colline di Herat dove Mariam, la protagonista di Mille splendidi soli, è segregata assieme alla madre.

Non so se il lettore italiano, incontrando l’espressione «mattone crudo», abbia idea di cosa si stia parlando. La lettura dovrebbe incoraggiare l’uso del vocabolario – oggi anche, con prudenza, di internet -, ma questo spesso contrasta con la prassi delle redazioni che tendono a non ‘disturbarÈ il lettore e a offrirgli un linguaggio omogeneizzato.

Il traduttore non è onnisciente e spesso non ha il tempo di documentarsi come sarebbe opportuno. Del resto il misero riconoscimento economico impedisce a chi vive di traduzione di dedicare tempo alla ricerca e quindi di curare la precisione del proprio lavoro. Se mud brick richiede una piccola ricerca, per tradurre correttamente the Northern Alliance («l’Alleanza del Nord» e non «l’Alleanza settentrionale», come capita di leggere) basterebbe dare un’occhiata a un quotidiano.

A proposito della kolba di Hosseini, nella traduzione si è posto un problema: in italiano la ‘a’ finale ha trascinato con sé il femminile, anche se in farsi non esiste il genere grammaticale. Un problema analogo, ma più facilmente risolvibile, si pone per i sostantivi stranieri di genere diverso dagli equivalenti italiani. Per esempio: jihàd è maschile in arabo, ma la vulgata quanto approssimativa traduzione «guerra santa» ha prodotto l’opinabile «la jihàd».

La letteratura dell’esilio

Sono molto attratta dalla narrativa scritta nel segno dell’esilio, dove letteratura e vita si fondono. La brutalità del nostro tempo – forse di ogni tempo – con l’imposizione di un predominio economico che genera disuguaglianza e miseria nei paesi più deboli, ma non solo, con le sue guerre e pulizie etniche, con l’imposizione di versioni radicali quanto antistoriche delle religioni, ha generato e continua a generare un inarrestabile flusso migratorio. Lo straniero è tra noi, ha assottigliato le paratie della nostra sicurezza, ci costringe a ridefinirci: diventa un dovere sottrarci a quella che Said definisce la retorica dell’identità (Said 2008, 631).

Si diffonde la letteratura dello sradicamento, della provvisorietà, dell’assenza di una “casa”, dell’abbandono della lingua materna. Dove non è assente il pericolo del melodramma e della coloritura folkloristica. Khaled Hosseini, come testimone dell’esperienza storica fondamentale del nostro tempo, rimane precariamente in bilico.

Sul piano linguistico irresistibili sono per me le brevi incursioni nella lingua materna dell’autore, quando l’inglese d’adozione è così culturalmente lontano dalla realtà dell’esperienza da diventare inespressivo, pur in presenza di equivalenti linguistici. Harami è la creatura nata fuori dal matrimonio da un rapporto socialmente illecito (haràm), sul harami si riversa il disprezzo e la condanna ipocrita della comunità, mentre in inglese bastard o l’italiano “bastardo” ha finito per essere solo un blando insulto non più legato al suo valore semantico; nan, cibo, e per antonomasia pane, il nutrimento per eccellenza, la base dell’alimentazione della maggioranza della popolazione afghana; hamshira, sorella, è chi beve lo stesso latte, analogo al nostro ‘compagno’, chi mangia lo stesso pane con un altro. E che dire di jan (a Kabul) o jo (a Herat), approssimativamente ‘caro’, posposto al nome proprio, in segno di affetto rispettoso. In nessuna lingua occidentale esiste un equivalente concettuale e quindi linguistico.

Per lo scrittore queste parole non sono semplici strumenti tecnici, cariche come sono di realtà vissuta, fatta di emozioni e di ricordi. Dal suo esilio Miljenko Jergović scrive: «… qualcosa può andare anche perduto, ma la lingua, la lingua è oggi l’immagine fedele dell’esperienza, quello che nella vita non c’è non esiste neppure nell’esperienza» (Jergović 2002, 204).

I titoli

Di regola il titolo di un romanzo viene scelto dalla redazione della casa editrice, non dal traduttore. In un primo momento infatti il romanzo di Hosseini doveva intitolarsi Gli aquiloni di Kabul, perché il nome della capitale afghana avrebbe attirato l’attenzione dei potenziali lettori. Era l’inizio del 2003, quando la missione Enduring Freedom faceva ancora nutrire infondate speranze. Non so perché alla fine sia passato il titolo da me proposto. Penso che sia un buon titolo e che abbia contribuito, anche se in modo del tutto marginale, al successo italiano del romanzo. A differenza del titolo abbandonato mantiene il riferimento a Hassan, il personaggio cardine della storia, il kite runner di Amir.

In italiano non esiste un equivalente linguistico di kite runner, perché non esiste il gioco afghano dove il kite flier lancia l’aquilone (in italiano potremmo chiamarlo l’aquilonista) e con il proprio filo smerigliato taglia quello degli aquiloni nemici in una guerra senza regole, secondo una consolidata consuetudine di anarchia ludica. Il suo compagno, il kite runner, ha il compito di inseguire e recuperare l’aquilone tagliato intuendo in quale direzione lo trascinerà il vento. In questo Hassan non ha rivali, come un cacciatore sa annusare la pista imboccata dalla sua preda.

Nelle altre lingue neolatine i traduttori si sono trovati di fronte alla mia stessa difficoltà e hanno optato per titoli poetici, rinunciando però al riferimento a Hassan. In francese il titolo è Les cerfs-volants de Kabul e in spagnolo Cometas en el cielo. Non può che rendermi fiera il fatto che le traduzioni catalana e rumena, uscite un paio d’anni dopo quella italiana, abbiano proposto un calco del mio titolo, rispettivamente El caçador d’estels e Vanatorii de zmeie.

Mille splendidi soli (Vaj 2007) è la traduzione letterale di A Thousand Splendid Suns. È curiosa la storia di questo titolo raccontata da Hosseini stesso (Hosseini 2007, 371). È un prestito da un verso di Saeb-i Tabrizi, il più grande poeta persiano del XVII secolo. Conoscendo l’originale, lo scrittore sa che la versione inglese di Josephine Davis è così infedele da renderlo irriconoscibile per i lettori di madrelingua farsi, tuttavia l’accoglie con piacere, perché la trova «bella». Khaled Hosseini è uno scrittore, non un traduttore. Per lui l’abbellimento non è un elemento nefasto della traduzione e come tale da evitare. È un valore da accogliere. Dopo aver letto il romanzo, come non vedere nel titolo quasi un risarcimento per l’atroce destino delle donne afghane?

Debolezze e sogni

Nonostante la consapevolezza che è dovere del traduttore resistere alla tentazione della traduzione etnocentrica, in un caso mi sono lasciata prendere dal piacere di una reminiscenza letteraria.

Ne Il cacciatore di aquiloni, un russo ubriaco sbraita un antico canto di nozze afghano: Ahesta boro, Mah-e-man, ahesta boro.

Hosseini traduce: Go slowly, my lovely moon, go slowly.

Ero perfettamente consapevole di prendermi una libertà traducendo «Cammina lenta, o mia graziosa luna, cammina lenta», ma non potevo parlare dell’errare della luna senza affidarmi alla voce di Leopardi. So che nell’idillio «graziosa» significa «benigna» e non si riferisce alla bellezza dell’astro. Lovely avrebbe potuto essere tradotto in modo diverso, ma ho pensato che quell’aggettivo leopardiano avrebbe evocato nel lettore italiano un’immagine di cieli limpidi e senza vento, rendendo ancora più disgustoso il berciare del soldato russo avvinazzato. Anche il traduttore ha le sue debolezze e non è sempre facile non lasciarsi irretire dal proprio contesto culturale e dai propri sogni.

I nomi di persona, gli intraducibili, esercitano su di me un grande fascino. Mi incuriosisce quanto della nostra identità è affidata al nostro nome. Ne Il cacciatore di storie ho dedicato un intero capitolo ai nomi che Hosseini sceglie per i personaggi dei suoi romanzi, cercando di scandagliare le ragioni delle sue scelte (Vaj 2009b, pp. 79-93).

Studiando quei nomi, quasi tutti di derivazione coranica, ho scoperto che nessuno chiama per nome Baba, il padre di Amir; neppure Rahim Khan, l’amico intimo che conosce debolezze e segreti dell’uomo. Il suo nome proprio rimane nascosto, come sconosciuto rimane al credente il centesimo nome di Dio, «il nome più bello di Allah». Mi è sembrato che questa assenza di nome suggellasse il fatto che per Amir Baba è Dio.

In Mille splendidi soli c’è un personaggio che si chiama Tariq, il bambino pashtun che ha perso una gamba su una mina antiuomo. È un nome che mette in moto la fantasia e su cui si possono avanzare solo ipotesi. Nella Sura del sopravveniente di notte (Corano, LXXXVI) tariq è «chi sopravviene di notte», «è astro d’aguzzo chiarore», come traduce Alessandro Bausani (1988, p. 469), un’entità misteriosa che brilla nell’oscurità. Nel romanzo di Hosseini il ragazzino Tariq, di sera prima di coricarsi, saluta Laila, indirizzando con la torcia fasci di luce verso la finestra della sua piccola amica. È stato chiamato di proposito «il sopravveniente di notte»? Non lo so, mi affido a un sogno.

Il mondo delle barbe bianche

Gran parte della popolazione afghana è analfabeta, ma non ignorante. Le «barbe bianche», gli anziani, sono sapienti che conoscono a memoria non solo la genealogia della propria tribù, ma centinaia di versi sia in pashto, la lingua dei pashtun, sia in dari, la lingua dei tagichi, perché gran parte degli afghani è bilingue. Esiste ancora una civiltà del racconto, perché l’oralità è il principale modo della comunicazione.

Anche la lettura conserva aspetti che in Occidente si sono perduti almeno dal IV secolo, quando il nordafricano Agostino, sbalordito, sorprende Ambrogio, il vescovo transalpino di una Milano cosmopolita, che legge in silenzio, solo con gli occhi.

Amir legge ad alta voce Il libro dei re, un poema epico persiano del X secolo, all’analfabeta Hassan, il bambino hazara che da autodidatta imparerà a leggere e a scrivere e potrà a sua volta leggere i versi di Jalal ad-Din Rumi e di Omar Khayyam a Rahim Khan ormai quasi cieco.

La scrittura di Hosseini conserva una qualità narrativa che abbrevia la distanza tra chi racconta e chi ascolta, come se lo scrittore parlasse direttamente al suo lettore-ascoltatore, recuperando il valore sacro della parola orale. La memoria è la biblioteca di dotti e di analfabeti, si dice. Molti personaggi conoscono a memoria i classici persiani e li citano per esprimere i propri sentimenti. Il professor Rasul, collega della madre di Amir, aveva sperato che i talebani avrebbero riportato la pace nell’Afghanistan distrutto dai signori della guerra, ma così non è stato, e per dare voce alla propria delusione recita un verso di Hafez: «L’amore sembrava così semplice, ma poi arrivarono le pene».

Amir è imbattibile allo sherjangi che si gioca a scuola: uno studente recita un verso e il suo rivale in sessanta secondi deve rispondere con un altro verso che inizi con la lettera con cui termina quello del compagno. È pensabile un simile gioco in una scuola italiana?

Hosseini ha conservato dunque il registro dell’oralità e, come un antico aedo, sa incantare l’ascoltatore-lettore, avvincendolo con il racconto. Il suo interesse di narratore è catturato dai sentimenti che muovono i personaggi, mentre lo stile è il risultato di un’adesione al loro mondo emotivo profondo, ma elementare. Nelle similitudini emerge tuttavia l’intima conoscenza della raffinata poesia persiana: il viso di Soraya, la futura moglie di Amir, dal nobile naso aquilino ricorda quello delle antiche principesse iraniche e le sue sopracciglia unite al centro si dispiegano eleganti come le ali di un uccello in volo.

Nella nostra società i vecchi sono disprezzati, come se la perdita della giovinezza fosse una colpa. I loro racconti non interessano ai giovani che preferiscono la comunicazione a distanza tramite il computer o il telefono cellulare dove l’interlocutore è sempre assente. La parola priva del gesto, priva dello sguardo. Hosseini ci costringe a riflettere sul valore della presenza dell’altro, dell’ascolto della sua parola, sulla virtù della memoria nella progettazione del nostro futuro.

Forse Khaled Hosseini non è un grande scrittore, ma è certamente un grande narratore. La vera difficoltà della traduzione dei suoi romanzi è stata trovare un registro che rispettasse la qualità “orale” della sua scrittura, che non facesse ricorso all’italiano della tradizione letteraria, ma alla lingua con cui si racconta una fiaba a un bambino o ci si confida a un amico.

Bibliografia

Bausani 1988: Il Corano (traduzione italiana e cura di Alessandro Bausani), BUR, Milano

Berman 1995: Antoine Berman, La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, Seuil, Paris

Hosseini 2007: Khaled Hosseini, A Thousand Splendid Suns, Riverhead Books, New York

Jergović 2002: Miljenko Jergović, Mama Leone, Libri Scheiwiller, Milano (traduzione italiana di Ljiljana Avirović di Mama Leone, Durieux, Zagreb 1999)

Rashid 2008: Ahmed Rashid, Caos Asia, Feltrinelli, Milano (traduzione italiana di Bruno Amato di Descent into Chaos. The United States Failure of Nation Building in Pakistan, Afghanistan, and Central Asia, Viking – Allen Lane, New York 2008)

Said 2008: Edward W. Said, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano (traduzione italiana di Massimiliano Guareschi e Federico Rahola di Reflections on Exile and Other Essays, Harvard University Press, Cambridge MA 2000)

Schick 1960: Carla Schick, Il linguaggio. Natura, struttura, storicità del fatto linguistico, Einaudi, Torino

Staglianò 2011: Riccardo Staglianò, Rivedremo gli aquiloni sull’Afghanistan ma non sarà domani, «Venerdì di la Repubblica», 4 novembre 2011

Szymborska Wisława, La gioia di scrivere, Adelphi 2009 (traduzione italiana di Pietro Marchesani)

Vaj 2004: Isabella Vaj, Il cacciatore di aquiloni, Piemme Milano (traduzione italiana di Khaled Hosseini, The Kite Runner, Riverhead Books, New York 2003)

Vaj 2007: Isabella Vaj, Mille splendidi soli, Piemme, Milano (traduzione italiana di Hosseini 2007)

Vaj 2009a: Isabella Vaj, Khaled Hosseini e il traduttore come controfigura, in «La Fabbrica del Libro. Bollettino di storia dell’editoria in Italia», anno XV, 2/2009

Vaj 2009b: Isabella Vaj, Il cacciatore di storie, Piemme, Milano 2009