INTERVISTA A SUSANNA BASSO
di Gianfranco Petrillo
Per fortuna, con la buona stagione e le vaccinazioni il maledetto covid ci ha lasciato un po’ di respiro. Abbiamo potuto guardarci in faccia, Susanna e io, non attraverso uno schermo. Abbiamo potuto conversare, con semplicità. O meglio: la semplicità è tutta sua, la strabiliante semplicità con cui lei sola riesce a dare senso anche alle contorte e banali domande con cui io cerco, invano, di metterla in difficoltà, trovandomi a essere io quello in difficoltà, quello che fino a quel momento non ha capito niente. E capisce meglio ora, oltre a tante altre cose, anche perché «tradurre» chiude, esaurito non solo il suo compito, ma il suo tempo.
Tu hai scritto un libro splendido Sul tradurre, che io consiglierei, non soltanto a chi abbia intenzione di cominciare a tradurre, ma anche ai lettori in generale, a tutti coloro che leggono. C’è una frase, a un certo punto di quel libro, mozzafiato. Una parentesi. È una parentesi semplicissima. Che uno, siccome è una parentesi, può anche saltare inavvertitamente, non accorgersene. La frase è questa: «Un romanzo intero è un’unità di misura dell’eternità».
Sì. Devo commentare questa frase? Sono quegli aforismi che ti escono, ma che poi uno si ritrova…
Nooo. Sono i pedanti come me che si mettono lì a dire: «Ma che cosa ha voluto dire? Ma perché?». Mi azzardo quindi io a dire una delle cose che significa, fra i tanti echi che suscita (è misurabile, l’eternità? e c’è, poi, l’eternità?). Vuol dire, tra le altre cose, mettersi a confronto, tramite il romanzo, con l’esistenza, e col significato dell’esistenza. Per cui il romanzo in questo modo fa parte di una sorta di sistema metrico decimale dell’esistenza umana di sempre, di tutti i tempi, passati e futuri. Se questo è vero, e se per romanzo intendiamo qualsiasi opera letteraria – perché di questo si tratta, giacché, come è stato detto tante volte, anche l’Odissea è un romanzo – ecco, vuol dire che avere a che fare con un testo letterario vuol dire avere a che fare con l’esistenza stessa. È così per te?
Assolutamente, è così. Direi che naturalmente non ricordo in quale circostanza mi sia venuta quella frase, ma se penso a quello che per me è stata, ormai posso dirlo, in tutti questi anni, la traduzione è proprio quello. Cioè, una specie di modo di utilizzare la vita scandendola attraverso quello che, si può dire, sono le vite degli altri, le vite letterarie degli altri. Insomma, la traduzione è per me un lavoro lungo. Non l’ho mai pensato come un lavoro episodico, come una cosa per cui mi concentravo su… è la mia vita. Ecco, è la mia vita. E tutte le volte che sono in ansia per qualcosa – e mi capita sempre più spesso, invecchiando – tutte le cose della vita che mi sommuovono trovano nella traduzione un punto di ripartenza, e trovano nella ricerca della mia lingua per dire la lingua degli altri una pace. Ecco, questo è proprio quello che la traduzione in assoluto mi ha dato di più: la pace interiore. Come una specie di, per dirla anche in modo banale, una specie di meditazione. Se sono seduta alla scrivania a cercare di tradurre il facile, il difficile – non tanto a rivedere, la revisione non è il mio campo – ma a tradurre, è come se tutto quanto si depositasse in un altro modo. Ecco perché i romanzi e le lunghe traduzioni mi rappresentano meglio. Le lunghe traduzioni possono essere Alice Munro e i suoi racconti, beninteso, cioè per lunghe intendo i lunghi progetti di traduzione, non necessariamente i lunghi testi. Sì, certo è quella cosa lì: è misurarsi con la vita in un modo che un po’ la mette in ordine, perché la letteratura mette in ordine la vita, o ci prova in modi eccellenti. E un altro po’, appunto, è, non una via di fuga dalla vita, ma una specie di modo di concentrarsi tranquillo sulla vita.
Però poi c’è qualcuno che ti tira per la giacchetta e dice: «Ma tradurre tu in realtà poi lo fai per campare». Questi sono bei voli eterei, ma la sostanza poi è che bisogna fare tante cartelle al giorno, ci sono delle scadenze, c’è un rapporto fra numero di cartelle e quattrini guadagnati.
Sì, sì, certo. Be’, con tutta la più grande ammirazione che io da anni provo per i colleghi che questo fanno, cioè traducono per campare… Sto pensando a Norman Gobetti, a Yasmina Melaouah, Ada Vigliani, Maurizia Balmelli, per fare i primi nomi che mi vengono in mente…
Per parte mia potrei aggiungere almeno Claudia Zonghetti, Cristiana Mennella, Leonardo Marcello Pignataro. Ma in realtà ci sono forti differenze di situazione dall’uno all’altro. Non si può fare un solo fascio.
Comunque sono quelli che fanno di mestiere solo i traduttori. Sono questi che io chiamo i traduttori puri, cioè quelli che di mestiere, e di unico mestiere, si dedicano alla traduzione. Io non ce l’ho mai fatta, anche per una mia pusillanimità di vita, forse, che mi arriva dall’educazione ricevuta. Ci vuole un lavoro e poi ti puoi dedicare a un’attività. Quindi il lavoro per me è stato – un lavoro amatissimo per altro – quello dell’insegnante. Di quello io vivo. E ho un’attività, che è la mia passione, che non sono mai riuscita a concedermi come unica attività della vita, anche se questo non significa che non guardi al numero delle cartelle e ai soldi che arrivano, perché certo che ci campo anche. Però non è mai quella la mia fonte di reddito del quotidiano. La mia fonte di reddito del quotidiano sono i trentotto anni di scuola statale.
Certo. E così si arriva a un’altra domanda. A un certo punto c’è una specie di dissociazione, chiamiamola pure così. Quella che tu chiami «l’attività», il secondo mestiere, che poi è la prima passione, è fatta di astrazione. Astrazione dall’esistenza, quindi, anche. Ti barrichi «dietro un muro di dizionari», l’hai scritto nel libro. Sei tu sola, «le frasi e io». E il mondo può essere solo attraverso la frase. Cioè, il tuo rapporto col mondo è solo attraverso la frase?
Allora: la traduzione è un andirivieni, cioè allena agli andirivieni, perché da questo si parte e là si torna, e si va avanti e indietro. La mia gestione della vita è stata un andirivieni anche nel quotidiano: io vado avanti e indietro, sono andata per tutti questi anni avanti e indietro, tra un lavoro che mi costringeva a un contatto prezioso con generazioni di ragazzi, quindi con tutto quello che a poco a poco mi ha lasciata indietro. I ragazzi sono la realtà che ho incominciato a frequentare quando ero ragazza, quando avevo venticinque o ventisei anni, e ho vissuto tutto il percorso fino a sentirmi sempre più lasciata indietro dalle loro competenze, da sogni che io non potevo seguire, da cose… però con il privilegio di restare in contatto, perché la scuola comunque ti mette in contatto, anche se dolorosamente, con le tue progressive inadeguatezze di vita, generazionali. Il percorso sulla traduzione invece è stato molto diverso perché io ho cominciato ad affacciarmi alla traduzione su testi di un certo tipo e sono andata verso la traduzione di pochi autori, sempre gi stessi, quindi su percorsi linguistici e artistici che diventavano consolidati, o almeno il mio rapporto con le loro lingue diventava sempre più consolidato. Quindi mentre i ragazzi sono una specie di voliera in cui ciascuno canta la sua canzone e quando arrivi a casa sei stanco morto di tutto ‘sto cantare, il canto della traduzione è diventato sempre più limitato ad alcune voci. All’inizio erano molto più varie.
Ma tornando alla cattiva intenzione della mia domanda precedente: non c’è il rischio che appunto, però, questo secondo mestiere sia una specie di fuga da quel sistema metrico decimale di cui pure il romanzo è parte integrante?
Il secondo mestiere vuoi dire l’insegnamento?
No, ufficialmente il secondo mestiere, l’hai detto tu, è la traduzione. Poi ci torniamo, sulle priorità.
Sì, io credo di essere costituzionalmente incapace di fughe. E quindi non riesco a risponderti: «Sì, scappo di qua per andare là» o viceversa. Nel senso che non sono una che fugge. Perché non riesco: sono una che sta.
Stavo per interromperti perché chi legge queste tue risposte potrebbe pensare: «Ah, ecco, quindi leggere è un bel modo per chiudere gli occhi rispetto alla realtà, e a tutto il male e il ribollire di dramma che c’è nella realtà, per rifugiarsi in questa sorta di mondo incantato che…»
No, no. Sono proprio vasi comunicanti. Sono vasi comunicanti. E devo dire che tutto quello che mi porto dentro, anche di agitazione delle mattine a scuola, si deposita nella traduzione. E l’astrazione della traduzione poi io spero almeno in parte di riportarla, cioè quello che dentro la traduzione mi arriva di comprensione del dettaglio, del dettaglio del testo che è il dettaglio della vita, il dettaglio appunto dell’avere la pazienza di stare ad aspettare la frase che non viene e che poi forse verrà, questa cosa qui io spero di trasferirla in certi atteggiamenti anche didattici. Quindi non sono due mondi stagni, sono mondi che nella mia esistenza vanno e vengono. Diciamo che uno dà all’altro qualcosa. Sono complementary opposites, in un certo senso, perché da una parte c’è tanto rumore di tutti i tipi e nell’altro c’è molto silenzio, ma questo rumore e questo silenzio si parlano, attraverso i miei tentativi di far funzionare qualcosa nell’uno e nell’altro.
Ma questo vale per qualsiasi testo? Tu prima giustamente hai richiamato l’attenzione sul fatto che ti sei man mano concentrata su alcune voci, su alcuni autori. Ma tu pensi, quindi, che tutti i testi, cioè, qualsiasi traduttore alle prese con qualsiasi testo possa avere questo tipo di esperienza?
Sì. Risposta secca, sì. Qualsiasi testo. È la traduzione, è il processo della traduzione che genera uno stato di vitalità interiore della lingua, o di sospensione silenziosa del testo. E questo ti succede per qualunque testo, dal più semplice al più complesso, dal contemporaneo al classico, dalla saggistica al testo per ragazzi. E’ il movimento mentale intorno alla lingua che ti porta lì, che ti porta a un’astrazione fertile.
Allora siamo al punto: quindi, questo secondo mestiere è però esistenzialmente il primo ambito di vita. O no?
Sai, a volte ho pensato che… Se penso di nuovo – perché ovviamente con gli anni mi sono rapportata molto ad altri colleghi, ho visto come fanno, come sono traduttori gli altri traduttori – c’è una cosa che io ho veramente lasciato fuori dal mio mondo della traduzione, cioè gli autori. Io non conosco… Cioè, mi è capitato di incontrarli, mi è capitato di “conoscerli”, lo metto fra virgolette, perché conoscerli è una roba seria, insomma… Ma se penso a molti miei colleghi, i miei colleghi riescono a instaurare rapporti che vanno oltre il loro rapporto con il testo e all’incontro con l’autore. Molti miei grandi colleghi fanno questa cosa. A volte ho pensato che io l’aspetto della relazione umana ce l’ho a scuola. Io con i miei studenti mi rapporto sulle questioni della vita che entrano anche nella letteratura inglese, visto che quello insegno, ma in realtà io sono lì in quanto ci relazioniamo. Nella traduzione mi sento con un testo e quindi non solo non ho mai sentito il desiderio o il bisogno – anche se il bisogno di avere un confronto per sapere: «Cosa vuol dire questo?» l’ho sentito tantissime volte – ma non ho mai sentito quel bisogno e quindi anche quella predisposizione, la capacità di investire energia intellettuale… Perché questi rapporti che molti miei colleghi instaurano con i loro autori prevedono un investimento di energia intellettuale notevolissima. Adesso sto pensando ad Anna Nadotti, che ha delle relazioni intense e profonde, di scrittura, di scambi… E io non ce l’ho mai avute. A volte mi sono sentita un po’ come bambina, in un mondo in cui gli adulti a un certo punto andavano verso la conoscenza paritaria. E a quest’età mi posso dire che forse è proprio una cosa che non ho cercato, per la quale non mi sento predisposta.
E puoi specificare di nuovo perché?
Perché ce l’ho risolta altrove. Perché la mia relazione nell’umano secondo me non passa attraverso un testo, un testo sul quale io lavoro. Se lavoro su un testo penso che sia per lo più tutto lì quello con cui mi raffronto. Se invece ho una classe di fronte, anche quando faccio laboratori di traduzione, è diverso. Perché nel laboratorio di traduzione ho comunque venti persone, quindici persone davanti con le quali scambio opinioni e qualsiasi cosa, parole, sulla traduzione. Ma mentre traduco io non so… Per questo in fondo tradurre Jane Austen alla fine della mia vita di traduttrice mi sta dicendo questo: è una vita che traduco Jane Austen. Cioè, è una vita che sto seduta con qualcuno che non c’è. Qualcuno che non c’è e che io non sto cercando, perché ce l’ho lì quello che devo trovare. Dopodiché ho avuto degli incontri felicissimi e leggo avidamente le cose che dei miei autori escono, interviste… Non è che voglia dire…
Non è che ti disinteressi?
Non è disinteresse per le loro vicende. Però a me è successo così, e forse appunto la risoluzione di questa parte della relazione io ce l’ho nell’altro mio mestiere.
E qui faccio una domanda, permettimi di dire, apparentemente banale. Ma allora per te tradurre è un mestiere o un’arte? Lo so, formulata così è banale, però mi fido di te, della tua perspicacia. So che non la prendi banalmente.
No, no, no. È una domanda difficile, in realtà. Continuo a pensare che sia un mestiere. È un mestiere in cui chiedo all’autore, ai testi degli autori che traduco, di accompagnarmi nella mia lingua. È un mestiere nel quale io riesco ad approdare a quello che mi sembra di conoscere grazie a un’arte che però è dell’altro. Cioè, per me c’è ancora comunque proprio una specie di faglia che separa il mio lavorio sulla lingua dell’altro e il dettato artistico dell’altro. Lo sento.
Ma potrebbe essere però arte tua, quella. Cioè, c’è un dettato… Tu parli, nel libro, addirittura di «invidia del testo». Però potrebbe essere il tuo lavorio esso stesso, in sé, creazione artistica parallela e autonoma. O no?
Può darsi. Può darsi, non lo so. Quando io parlo di invidia, io parlo di invidia del testo. E l’invidia del testo mi viene dal fatto che è già stato detto molto bene. E il testo si è già trovato tutte le parole per dirlo. E quindi la mia invidia nasce dal fatto che capita a tutti i traduttori di sentirsi in affanno rispetto a qualcosa che è giudicato di per sé compiuto, per sua natura.
Guarda, lo riporteremo come tu lo dici molto bene nel libro: «Ogni traduzione non può che offrirsi al testo come desiderio del testo, inarrivabile traguardo e punto di partenza del mestiere».
Esatto.
Tu sei stata, con Paola Mazzarelli e con Giulia Baselica, soprattutto voi tre, le vere ideatrici della rivista «tradurre», coloro che hanno pensato per prime, che hanno avuto il desiderio e hanno pensato anche che fosse necessaria una rivista sulla traduzione. Questa rivista è nata, è vissuta, ormai ha dieci anni d’età. È una buona rivista. Non tocca a me dirlo, ma lo dico: è una buona rivista. Eppure, è stata quello che tu pensavi che dovesse essere?
Allora, per cominciare direi che io la ritenevo una rivista desiderabile. Non so se necessaria, ma desiderabile. Era un mio desiderio. Come sapete, ero un po’ refrattaria alla lettura dei testi teorici sulla traduzione. Capita a tanti traduttori sul campo di dire: «La teoria è un’altra cosa», poi si leggono i testi teorici e ci si appassiona. Quelli buoni sono sensazionalmente interessanti, ricchi, fecondi. Però il mio desiderio era sentire un traduttore che parla. In tutte le conversazioni che io ho avuto con traduttori ho sempre avuto la sensazione che sia difficile dire sciocchezze quando si parla di traduzione, quando si parla davvero di traduzione. Perché sono cose così legate al meccanismo con cui noi scopriamo il mondo, cioè la parola, che è difficile che non sia intelligente, perché nasce dal bisogno intelligente di capire la realtà. Questa è una realtà testuale e l’altra la realtà materiale, ma è la stessa cosa. Quindi mi piaceva, ho sempre pensato che fosse desiderabile leggere un po’ queste conversazioni, questi discorsi fra traduttori. Io ho avuto la fortuna appunto di farne tanti, di discorsi con i traduttori, e di essere sempre ripagata in termini di stimoli. Questo mi sembrava non so se necessario, ma sicuramente desiderabile e interessante per chi fosse interessato. E la rivista è secondo me decollata in modo davvero… Anzi, e poi a un certo punto ha raggiunto livelli veramente molto alti e vari, una bella varietà. Anche grazie effettivamente all’attenzione che qualcuno in particolare ci ha messo di non chiudersi verso una lingua, di non chiudersi verso una sola cosa, un solo modo della traduzione. Quindi, devo dire appunto quello che poi ho già detto: c’è stato, c’è negli ultimi anni da parte mia una sensazione – che vale per tutti i mestieri che faccio – di una specie di allontanamento, non so se dal desiderio, ma un allontanamento dal sentirmi dentro alle cose in quel modo.
C’è stato un allontanamento da ciò che era desiderabile per te? Che cosa fosse esattamente desiderabile per te è importante riuscire a capirlo, non perché si possa fare, almeno per quanto mi riguarda, un’altra rivista, ma perché questo ci aiuta a capire meglio anche qual è l’ambito generale nel quale ci muoviamo. Questo discorrere di traduzione, che è sempre un arricchimento, ha un senso più generale nei confronti di quel sistema metrico decimale e anche dell’esistenza stessa? Qual è questo senso? Se noi riuscissimo a, non dico a codificare, ma perlomeno a definire l’ambito di questo senso…
Allora: un po’ devo dire, Gianfranco, che secondo me c’è stato un tempo, non solo nella mia vita, ma anche nella vita dell’interesse per la traduzione, in cui questa cosa era più desiderabile perché era meno esistente. Cioè, nel frattempo davvero la traduzione ha occupato spazi di tutti i tipi, dall’accademico al non accademico, dai festival di tutti i generi, dai Saloni del libro… Dovunque c’è stato, da un certo punto in poi, uno spazio dedicato alla traduzione che prima non c’era. Quindi la rivista nasce sull’onda, sullo slancio di questo desiderio del mondo della traduzione, ma anche del mondo dell’editoria, di recuperare un interesse vivo sulla questione. Nel frattempo sono passati tanti anni e questo bisogno o desiderio si è consumato, nel senso migliore della parola. In parte questo. E in parte effettivamente l’accademia assorbe gli stimoli del mondo dell’editoria in un modo che personalmente trovo sì molto interessante, ma che non mi appartiene. E quindi ne rimango fuori. Leggo con grande piacere certe cose, tutte quelle che riesco, che non sono troppo accademiche. Quello di cui parlavo io era: «Dialoghi con…».
Ecco, credo di aver capito. Quindi probabilmente sarebbero state opportune interviste più numerose?
Sì, sì. Almeno per me le interviste – sentire che cosa fa, come fa un collega – ovviamente è quello che mi interessa da sempre, perché se io parlo con Paola [Mazzarelli, presente al colloquio] e lei mi racconta anche dell’aspetto della Scuola [la Scuola di formazione in traduzione editoriale dell’Agenzia formativa tuttoEuropa di Torino, di cui Mazzarelli è la coordinatrice didattica], ma anche tutte le volte che abbiamo parlato delle nostre traduzioni andavamo poi sulle parole…
E’ quello, ciò che ti appassiona davvero!
Quello che mi ha sempre appassionato, quello che continuo a trovare meraviglioso del tradurre, quello che continua a darmi del filo da torcere. E trovo che ogni volta ne vale la pena. Ne vale la pena per la sciocchezza come per Ishiguro. Cioè, poco fa parlavo con Paola della traduzione di Ishiguro, di questo Clara e il sole, in cui la voce narrante è una macchina, un androide. E quindi è stato per me davvero difficile, mi ha messa in contatto con la mia difficoltà a non utilizzare la sinonimia. Una macchina parla un linguaggio meccanico e quindi una macchina non conosce sinonimia. Io intanto l’ho visto succedere nel testo a pagina 50 e lì mi son spaventata perché mi sono chiesta se ero in grado di seguire una voce narrante la cui ripetitività era non solo cifra stilistica ma senso del libro. Il senso di quel romanzo è la lingua meccanica, che diventa strumento di cognizione del dolore. E mi sono chiesta se la mia lingua, abituata a tante capriole sulle frasi, poteva…
La tua lingua intesa addirittura come lingua italiana in assoluto? Perché è proprio una caratteristica della lingua italiana, che la distingue un po’, anche, rispetto alle altre: non si dice sempre che l’italiano odia le ripetizioni?
Esatto. Una caratteristica della lingua italiana e devo dire, pensando al mio modo… Se penso alla capacità di trasparenza linguistica di un traduttore come Norman Gobetti rimango ammiratissima. Alla sua capacità di aderire in modo cristallino alla pagina senza che questa ne risenta. Perché poi non è che appunto si legga una pagina goffa. Al contrario, è come se tutto… Anche come Ugo Mursia. Mi ricordo la traduzione di Cuore di tenebra di Ugo Mursia: avevo avuto quella stessa sensazione. Lì c’è la traduzione e addirittura c’è il testo a fronte, ed è un miracolo. Un miracolo. C’è esattamente scritta la stessa cosa. Io non sono mai stata quel genere di traduttore. Ho sempre avuto questa specie di bisogno di lavorio, che con gli anni si è poi smorzato, è andato verso un: «Ci lavoro, ci lavoro, ci lavoro», per poi tornare alla cosa iniziale. Però quello è. E quindi è questa la cosa che mi incanta della traduzione: che dopo trentacinque anni ti danno un libro, leggi le prime venti pagine, dici: «Sì, ho capito»…, e non hai capito niente! Non hai capito niente, perché al quarto capoverso dici: «Io non so se sono in grado, non so se ce la faccio a star dietro a questa roba». Questo è il rapporto artistico.
Passiamo all’ultima questione, l’ultimo tema, almeno per me. Tu dici – parlo sempre di quel tuo bellissimo libro – dici, a proposito del lavoro di un traduttore, che va considerato nell’arco della sua esistenza e non si può pretendere una coerenza fra un traduttore esperto e la sua opera di traduttore quando era giovane. Mi sto spiegando male, ma tu dici qualcosa di questo genere. Ma, più importante in sé, dici, a proposito delle traduzioni e ritraduzioni dei classici, che ogni traduzione di un classico è un lavoro temporaneo e significativo di un modo della lettura, che, detto nel mio linguaggio, vuol dire molto semplicemente che bisogna storicizzare.
E’ che storicizzare un classico già…
No, le traduzioni! Non il classico. Il classico è una roba che sta nella storia ma riesce a travalicare la storia e a parlare sempre. Quello è il vero classico, no? A parlare sempre e a chiunque. Ma la sua traduzione no.
Allora: la sua traduzione no. Come mi era capitato di dire quando ascoltavo le lezioni di Domenico Scarpa, c’è un canone della traduzione, ormai, no? E quindi esiste anche un canone che contempla la possibilità che una traduzione rimanga “classico”. E quindi c’è una traduzione… da Omero a tutti i grandi classici, ci sono delle traduzioni che sono a loro volta dei classici entrati nel canone della letteratura occidentale. Anche perché la letteratura occidentale è una circolazione, un sistema circolatorio di classici, e quindi ovviamente tutti questi classici sono passaggi di traduzione in traduzione, di tempo in tempo e di canone in canone a seconda delle lingue. Borges parla di alberi genealogici più o meno frondosi. Quello che sicuramente è temporaneo è il fatto che la traduzione invecchia perché non è il testo fonte, e non essendo il testo fonte a un certo punto il testo risente del passaggio del tempo. E quindi, a proposito del traduttore che non è coerente con sé stesso, il traduttore invecchia. Io non sono lontanamente la traduttrice dei miei trent’anni. E con questo non sto dicendo: «Sentissi come traduco adesso rispetto a quando avevo trent’anni!», ma proprio il modo in cui guardo la pagina, il modo in cui mi relaziono con gli autori, i testi, le parole, è completamente cambiato. C’era in me una disinvoltura – e questo lo dico forse già nel libro – una disinvoltura a volte proprio felice, che mi liberava dalla pressione di dire: «Caspita però questo, aspetta un momento… l’ha detto Jane Austen! Sarà meglio che badi a…». E invece allora ero veramente abbastanza libera da questa cosa. Più passa il tempo e meno mi sento libera dal peso dei giganti sulle spalle, che sono da McEwan a… Anche i percorsi che intravedo negli scrittori che traduco, che mi fanno delle domande diverse, delle richieste… McEwan è passato da Bambini nel tempo a Lo scarafaggio: un mondo suo e un mondo mio a stargli dietro.
Volevo specificare una cosa riguardo alla canonizzazione delle traduzioni. A quale canone appartengono le traduzioni? Della lingua in cui sono scritte? Bompiani ha fatto un’operazione secondo me interessante: aveva cominciato – poi, adesso che non è più casa editrice autonoma ma solo un marchio, non so se ha proseguito – a pubblicare le grandi traduzioni canoniche, per esempio l’Iliade tradotta da Vincenzo Monti, sotto il nome di Vincenzo Monti, cioè, come testo di Vincenzo Monti, non di Omero. Quindi appartengono al canone italiano, della letteratura italiana?
Sì, sì, certo, io questo volevo dire. Appartengono ormai al canone d’arrivo. Ed è un canone d’arrivo silente, in qualche modo, perché in realtà tutti abbiamo letto i grandi in traduzione. E tutti i grandi classici sono stati letti da tutti noi in traduzione. Quanti classici abbiamo letto in originale? Se ci va bene, quei quattro o cinque grandissimi che abbiamo avuto la fortuna di poter leggere nella nostra lingua. Tutto il resto, da Madame Bovary a Omero, li abbiamo letti in una traduzione a volte comprata su una bancarella e che ci ha deragliato verso chissà cosa, e a volte invece appunto nelle grandi traduzioni, quelle che si studiano a scuola. Quelle sono entrate nel canone.
Quindi queste traduzioni e la loro lingua hanno influito sul corso della letteratura d’arrivo e sulla storia della lingua?
Assolutamente, io credo di sì.
Questa è una cosa che apparentemente dovrebbe essere ovvia, ma non lo è affatto. Non viene mai tenuto conto dell’impatto che le traduzioni hanno avuto nella formazione di un’intera cultura nazionale, chiamiamola così.
Anche deformandone, naturalmente, il senso a volte, no? Perché dai grandissimi classici di cui sempre si parla, ma anche a cose molto più vicine a noi, il modo della lettura di un tempo, per esempio un tempo molto molto segnato politicamente come gli anni settanta… Ora ho in mente le traduzioni di Jane Austen di quel periodo: sono traduzioni politicizzate in cui si cerca di portare il testo a una modernità, più politicizzata, che lo snatura. O, almeno, lo snatura rispetto a cosa? Si capisce bene con Shakespeare: tutti i grandi classici sono pieni di gappiness, cioè di vuoti. In questi vuoti si inserisce la lettura del tempo e quindi… Ora faccio un esempio con Shakespeare perché viene bene: La bisbetica domata finisce con un monologo di Catherine, la protagonista, che si sottomette completamente al protagonista. Non c’è una sola indicazione di scena, Shakespeare non ne fornisce. Come si recita questa frase? Come la recita questa donna, la sua sottomissione? Con quale tono di voce? Questa gappiness…
Potrebbe essere ironica.
Potrebbe esserlo, infatti. E per esempio adesso, non so se al National o al Globe, The Taming of the Shrew è stata interpretato in questo modo: un attimo prima del monologo, a Catherine viene passato un foglio. E lei legge questo atto di sottomissione. E lo legge tutto con un’espressione incredula, come se pensasse: «Ma quando mai?». Le espressioni del viso e la lettura di un testo che qualcuno le ha passato… Come a Šostakóvič quando davano i fogli dei discorsi scritti dal partito, e lui leggeva. E nella biografia del musicista si racconta che Šostakóvic era molto attento a sbagliare le pause, la punteggiatura, perché tutti si rendessero conto che stava leggendo un discorso scritto da altri. Era la sua unica possibilità, una traduzione del suo disagio politico in lettura. Ecco, secondo me è questa la potenza: inserire in quegli spazi vuoti del testo un modo della lettura, anche se si rischia appunto di far fare alla Bisbetica domata la parte di una femminista ante litteram, soltanto dandole un foglio in mano e permettendole di leggere quel monologo senza la minima convinzione, per dire.
E sempre a proposito di classici, quindi, non possiamo confrontare le traduzioni diverse di classici e dire: «Una è meglio, l’altra è…», ovviamente. E’ quello che tu dici anche a proposito di Moby Dick nelle traduzioni di Pavese e di Bianchi.
Il sogno sarebbe quello di poterle tenere tutte e consultarle tutte, perché a quel punto consulti la tua lingua. Sarebbe appunto un modo per fare storia della lingua attraverso il modo in cui quella tua lingua ha accolto la grandezza di un testo fermo. Lì sì che vedi tutti i movimenti della lingua e non solo, ma anche della cultura. Pensiamo a quello che sta succedendo adesso con tutto il politically correct: questa terribile, assurda diatriba che c’è stata sulla traduzione della Gorman. Questa cosa dei profili del traduttore. Chi traduce cosa? Attraverso quali strumenti innati? Lì era nata una discussione addirittura ridicola, che però… Il dibattito era grottesco, ma di nuovo parlava di un modo della lettura di oggi delle cose. Quando la traduttrice di Amanda Gorman parla di una faglia generazionale fra i traduttori di un tempo e quelli di oggi bisogna starla a sentire, intanto perché lei è la traduttrice di adesso, a lei stiamo consegnando il mestiere – a lei e a tutte le altre e gli altri. E poi perché sta dicendo una cosa che va dibattuta, non va lasciata andare dicendo: «No, non mi interessa. Io appartengo alla traduzione che è quella…». No! Parliamone. Spiegami bene che cos’è questa faglia generazionale, dove la individui tu, e come ti poni rispetto al testo. Secondo me, è l’ascolto anche del nostro mestiere, che comunque procede. E infatti io non mi sentirei disposta ad accettare una traduzione di quel genere, perché la faglia generazionale la sento, e tantissimo – a partire dal testo – e va rispettata, ascoltata, se possibile senza scontri, ma con un bel dibattito su queste cose.
Però un dibattito ci vuole.
Ci vuole assolutamente.
Benissimo, lasciamo con questo problema aperto: ci vuole un’altra rivista.