di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, autrici di
Lydie Salvayre, Non piangere, Roma, L’asino d’oro, 2016 (da Pas pleurer, Paris, Seuil, 2014)
Nata e cresciuta in un paesino sperduto dell’entroterra spagnolo, quando scoppia la guerra civile, la quindicenne Montse segue il fratello a Barcellona, dove i fermenti anarchici e il sogno libertario sono più forti e dove vivrà l’unica avventura della sua esistenza. Ora che ha novant’anni, quei giorni intensi sono il solo ricordo vivo in una memoria che si sta sfaldando. E vivo è il racconto che ne fa, così come vivace è il linguaggio che usa per esprimersi: un misto di spagnolo e francese, la lingua di adozione che a fatica ha fatto sua dopo che la Storia l’ha catapultata in una cittadina del sud-ovest della Francia. Come ricreare in italiano la lingua di Montse? Avevamo pensato di cercare, nella realtà e nella rete, parlanti ispanofoni, per ascoltarli e imitarli. Ma questa strada ci avrebbe portato a creare un linguaggio caricaturale, oppure, al contrario, troppo credibile: uno sguardo alla critica d’oltralpe ci aveva convinte che all’orecchio dei lettori francesi la lingua di Montse suonava piuttosto come una sorta di lessico famigliare.
Abbiamo quindi imboccato una via diversa. Analizzando le parti in fragnol ci siamo rese conto che erano sempre abbastanza corrette dal punto di vista morfologico e sintattico. La coloritura spagnola era data soprattutto dalla radice delle parole, mentre le desinenze rispettavano le regole della grammatica francese. Così abbiamo provato a lavorare nello stesso modo sull’italiano. Abbiamo tradotto le frasi in fragnol in un italiano impeccabile. Poi abbiamo cominciato a giocare con il lessico, sostituendo, dove pensavamo funzionasse meglio, alla radice italiana quella del termine spagnolo corrispondente. Ecco allora «gritare», «entendesti», «sbabeare» (un misto fra «sbavare» e babear), e ancora: «barbarità», «bassare», «apacigarmi» derivati da barbaridad, bajar e apaciguar. La maggiore vicinanza fra italiano e spagnolo ci ha costrette a volte a spostare i giochi linguistici in punti diversi del testo. Così come sono stati necessari adattamenti nel lavoro fatto sulle frasi idiomatiche. Montse a volte storpia modi di dire francesi oppure li confonde. È il caso di tomber à pic nommé nato dall’unione di tomber à pic e tomber à point nommé (equivalenti entrambi a «cadere a fagiolo»), che in italiano è diventato «cascare a fagiano». O di tête de litotte, storpiatura di tête de linotte, una testa piccola come quella di un fringuello, tradotto con «testa di rana».
Ma non è stata di certo la sola difficoltà. Il libro è stilisticamente complesso. Suddiviso in due parti molto diverse tra loro, l’una al presente (come in presa diretta), l’altra al passato (quando ormai la consapevolezza dei personaggi quasi coincide con quella dell’autrice e del lettore), approda a una scrittura più tradizionale solo dopo aver tentato di far emergere e dialogare, attraverso molteplici espedienti stilistici, le tante voci di quell’incredibile estate. L’autrice fa un uso abbondante dell’anafora che, alternata alla correptio, serve da raccordo tra i vari blocchi di cui si compone il testo; consente inoltre divagazioni e poi riprese di una stessa scena da un punto di vista diverso. Svariati sono i registri stilistici (derivati per lo più dal parlato), con passaggi repentini dall’uno all’altro; numerosi i discorsi diretti, che riproducono dibattiti politici, comizi, chiacchiere da bar, litigi in famiglia, confidenze fra adolescenti, e sono riportati senza far uso dei segni diacritici che normalmente permettono di individuare le battute (a volte le frasi degli interlocutori si succedono così rapidamente da farci dimenticare chi sia a pronunciarle, oppure si interrompono a metà di una parola); quindi l’indiretto libero, inframmezzato a sua volta dal dialogo che tutto contiene: quello fra Montse e sua figlia Lydie, che fa da cornice al romanzo. Infine c’è la lingua dei Grandi cimiteri sotto la luna (i cui stralci fanno da contrappunto storico al racconto soggettivo di Montse), con cui Bernanos racconta gli orrori della guerra civile spagnola visti coi propri occhi.
Ci auguriamo di essere riuscite a rendere ugualmente piacevoli entrambe le parti, così dissimili tra loro da averci fatto dubitare a volte che fosse davvero lo stesso il libro che stavamo traducendo.