Omaggio alla Catalogna

LA FORTUNA DELLA LETTERATURA CATALANA IN ITALIA

di Laura Mongiardo

Nell’ambito del diffuso interesse per la cultura ispanica – sia europea che sudamericana – che si è propagato in Italia, e non solo in Italia, negli ultimi decenni, un posto a sé occupa l’attenzione per la letteratura catalana, esplicatasi soprattutto verso i due generi narrativi che maggiormente catturano i lettori da un po’ di tempo in qua, quello “al femminile” e il poliziesco, ma anche da altri generi amati, come il romanzo storico.

Diciamo la verità: molti hanno scoperto solo da poco che in Spagna non si parla una lingua sola e non esiste quindi una sola letteratura. Il ritardo di questa scoperta è in parte giustificato dal fatto che ufficialmente queste altre lingue, e quindi queste letterature, spagnole ma non in spagnolo (o meglio, in castigliano: ma anche questo nome è una scoperta recente e di difficile radicamento), sono state riconosciute, e a fatica, solo dal 1975, cioè dalla morte di Francisco Franco e dal crollo della dittatura. Prima infatti – se si eccettua la breve parentesi della Seconda Repubblica (1931-1939), in gran parte insanguinata dalla guerra civile – un potere statale fortemente centralistico aveva represso ogni conato di autonomia di grandi regioni come i Paesi Baschi, la Galizia, la Catalogna e la Comunità valenciana, fino a vietare, come aveva fatto Franco, non solo l’insegnamento, ma perfino l’uso delle loro rispettive lingue: il basco, il galego e, appunto, il catalano. Per più motivi quest’ultimo è però quello che ha maggiore forza culturale e letteraria, legata da un lato al passato di grandezza imperiale del regno aragonese, che nel Medioevo dominò per un paio di secoli gran parte del Mediterraneo occidentale, consegnandolo poi al regno unificato di Spagna, e, dall’altro e ancor più, alla importanza economica e politica del suo territorio di diffusione, che è divenuto, tra fine Ottocento e primi del Novecento, il motore trainante dell’industrializzazione e della modernità in Spagna. Ma prima degli anni novanta del Novecento eventi come la presenza della Catalogna quale ospite d’onore alla Fiera del libro di Torino nel 2002 e alla Buchmesse di Francoforte nel 2007 sarebbero stati impensabili. E i frutti si vedono: nell’ultimo triennio il numero dei titoli catalani tradotti in Italia è rimasto stabilmente alto: secondo dati dell’Institut Ramon Llull, l’istituto per la promozione della cultura catalana all’estero, 131 nel 2009, 125 nel 2010 e 127 nel 2011, con una particolare attenzione ai classici e agli autori contemporanei di maggiore successo.

Lo sviluppo dell’interesse per la Catalogna in Italia

Questo rinnovato interesse spiega anche lo sviluppo di un’intera generazione di catalanisti italiani, sia studiosi e docenti universitari sia traduttori. Ma costoro hanno potuto avvalersi di una tradizione preesistente, sporadica e interrotta sì per decenni, ma di tutto rispetto in quanto legata addirittura ai primi vagiti del comparatismo in Italia. Emblema ne è Arturo Farinelli, che, ventenne, nel 1887 fuggì dal Politecnico di Zurigo, dove i suoi lo avevano avviato agli studi commerciali, e per inseguire la sua “passione spagnola” si rifugiò proprio a Barcellona, dove rimase nove mesi. Riconciliatosi coi genitori, poté tornare a Zurigo, stavolta per intraprendere studi letterari sfociati nella tesi su Die Beziehungen zwischen Spanien und Deutschland in der Literatur der beiden Länder (Le relazioni tra Spagna e Germania nella letteratura dei due paesi). Divenne quindi docente di romanistica all’Università di Innsbruck fino al 1907, quando passò alla cattedra di germanistica a Torino. Ma l’anno prima aveva partecipato al primo Congresso internazionale della lingua catalana e in seguito fu eletto membro dell’Institut d’Estudis Catalans. Come si vede, un percorso esemplare di pioniere del comparatismo, che, in un modo pur disordinato e caotico che suscitò molte critiche già nei contemporanei (a cominciare dal suo grande amico Benedetto Croce), contribuì notevolmente ad aprire la strada allo svecchiamento delle lettere italiane e a promuovere la curiosità per le letterature altrui, consentendo anche di affrontarle, in parte grazie anche proprio alla sua assenza di sistematicità, distaccandosi dal puro metodo erudito di stampo positivistico della scuola storica e con maggiore slancio partecipativo (Podestà 2011; Simone 1953).

Naturalmente, qualcosa era arrivato dalla Catalogna in Italia anche prima. Nel 1885, per esempio, l’editore Forzani di Roma aveva pubblicato la traduzione di Luis Suñer (La Atlantide. Poema) de L’Àtlantida di Jacint Verdaguer (1878), un ambizioso poema epico-religioso. Il poema ebbe poi, nel 1916, un’altra versione, con introduzione, per mano di Emanuele Portal: L’Atlantide. Poema catalano, nella meritoria collana dell’editore Carabba di Lanciano «Scrittori italiani e stranieri». Il sospetto che queste traduzioni fossero mediate attraverso il castigliano è insinuato dal caso abbastanza singolare di un altro vigoroso poema, Los Pirineus, di Víctor Balaguer, uno dei massimi rappresentanti della Renaixença, la fase di ripresa ottocentesca e romantica di coscienza “nazionale” catalana. Esso fu pubblicato nel 1892 come Los Pirineos. Trilogia original en verso catalán y traducción en prosa castellana por D. Víctor; seguida de la versión italiana de D. José Mª Arteaga Pereira; acomodada á la música del mtro. D. Felipe Pedrell y de la obra de este último titulada por nuestra música, dall’editore Henrich di Barcellona. Evidentemente il poema ambiva ad avere uno sbocco sulla scena lirica, dove l’uso dell’italiano ovviamente trionfava, tanto che l’anno dopo anche a Madrid, dalla Librería Fernando Fe, se ne diede una versione nella nostra lingua, che ha tutta l’aria, appunto, di basarsi sul testo castigliano: I Pirenei. Trilogia, traduzione in versi italiani di Arnaldo Bonaventura.

Ma solo nel 1913 i lettori italiani cominciarono ad avere nozione della narrativa catalana, con la versione di Dante Zanardelli de La papallona (1882) di Narcís Oller, ritenuto il fondatore del romanzo catalano (Farfallino, Armani e Stein, Roma 1913). E nel 1918 uscì dal sullodato Carabba, a opera di Alfredo Giannini, Solitudine, traduzione di Solitud (1905) di Caterina Albert, della quale avremo modo di riparlare.

Si deve invece al vulcanico Piero Gobetti se nel 1926, purtroppo dopo la sua morte, uscì, nelle sue torinesi Edizioni del Baretti, la prima Antologia di poeti catalani contemporanei 1845–1925, curata da Cesare Giardini. Nello stesso anno uno scrittore allora abbastanza noto, Giuseppe Ravegnani, curava per Firme nuove di Firenze una parallela Antologia di novelle catalane. Giardini e Ravegnani, insieme, producevano l’anno dopo la versione di Josafat, un romanzo del 1906 di Prudenci Bertrana, per la Alpes di Milano. E nel 1928 ancora Carabba pubblicò La Fiera di Montmartre di Vincenzo Brinzi e Salvatore Lo Presti, traduzione di La Fira de Montmartre di Alfons Maseras, uscito appena due anni prima, mentre nel 1933 uscì la prima traduzione di un testo teatrale: Miss Barcellonetta, commedia in tre atti, che Gilberto Beccari e Amato Mori trassero da Miss Barceloneta (1930) di Santiago Rusiñol per la casa editrice Nemi di Firenze.

Lotta contro la repressione e nuova vitalità

La particolare tragedia della Catalogna nella più generale tragedia della guerra civile spagnola, di cui fu corresponsabile il fascismo italiano, fece quindi cadere il silenzio sulla sua letteratura non solo all’estero, ma nella stessa Spagna. La coltivazione della propria lingua e della propria letteratura divenne per i catalani campo di lotta contro il regime franchista. Il periodo della «letteratura dell’esilio» spagnola per gli scrittori catalani assume un significato ancora più forte, da intendersi come reazione al silenzio cui furono costretti nella loro condizione di doppio confino, non solo territoriale ma anche linguistico. Prese corpo una vera e propria resistenza culturale, che sfociò in aperta opposizione al regime, e la letteratura uscì progressivamente dai circoli clandestini per guadagnare sempre più spazi pubblici. Nacquero case editrici e si incrementarono le pubblicazioni in catalano, in un crescendo che culminò nel decennio 1960 con il consolidamento di importanti nomi della letteratura catalana di quel periodo, dalle dichiarate posizioni antifranchiste. La comparsa della casa editrice Edicions62, che prese il nome dall’anno in cui fu fondata, sanciva il ritorno alla pubblicazione di opere straniere in catalano. La produzione in lingua catalana riuscì a conquistare spazi sempre maggiori man mano che, allungandosi fin troppo la vita del dittatore in un mondo in profondo cambiamento, anche il regime era costretto ad allentare la presa.

La lotta identitaria dei catalani trovò in Italia una ricezione particolarmente attenta, di cui si fece interprete il filologo romanzo Giuseppe Tavani con la pubblicazione, nel 1968, di Poesia catalana di protesta per l’editore Laterza di Bari. Nell’amplissimo spettro dei suoi interessi, Tavani ha dedicato gran parte del suo lavoro alle lingue iberiche: insignito di laurea honoris causa a Santiago de Compostela, Barcellona e Lisbona, è stato tra l’altro vice presidente della Asociació Internacional de Llengua i literatura catalana e socio fondatore e vicepresidente dell’Associazione italiana di studi catalani (Aisc).

Caduto il regime in Spagna, nel 1977 Giuseppe E. Sansone dava per Einaudi la sua traduzione di una raccolta di Elegies de Bierville, di Carles Riba, risalente al 1942. Poeta e filologo, due anni dopo Sansone offrì anche, per Newton Compton di Roma, un’antologia di Poesia catalana del Novecento, che resta ancor oggi un punto di riferimento per il lettore italiano

Purtroppo non ebbe grande fortuna la collana «Poeti e prosatori catalani» della casa editrice aquilana Japadre, per la quale uscirono, entrambi nel 1989, solo due titoli: una traduzione di versi del grande poeta Salvador Espriu, Cristallo di parole, curata da Giulia Lanciani, e Cronaca del giorno ripetuto, di Pere Calders (Cròniques de la veritat oculta, 1955), uno dei maggiori rappresentanti della ripresa letteraria catalana, a cura dello stesso Giuseppe Tavani, che ancora una volta rendeva così omaggio alla resistenza catalana in un narratore che aveva combattuto in difesa della Repubblica e aveva poi trascorso lunghi anni d’esilio in Messico.

Era cominciato frattanto anche il recupero della letteratura catalana classica, di epoca aragonese. Nel 1978 fu tradotto per la prima volta il (celebre per i catalani) Llibre d’Amic i Amat (1283) del grande teologo e mistico duecentesco Ramon Llull, noto in Italia come Raimondo Lullo (Vera Passeri Pignoni, Il libro dell’amante e dell’amico, Città armoniosa, Reggio Emilia), tradotto poi una seconda volta dalla teologa Adelaide Baracco nel 1991 per Città nuova di Roma. Nel 1988 fu la volta del novellatore trecentesco Francesc Eiximenis, di cui Gabriella Zanoletti curò per la Ecig di Genova una raccolta di Racconti e favole tratti dal Crestiá, dal Regiment de la cosa pública e dal Llibre de les dones. Ma solo nel 2010, per esempio, si è avuta la traduzione a quattro mani di Anna Maria Compagna, una studiosa che è membro della Reial Acadèmia de Bones Lletres de Barcelona, e di Núria Puigdevall, docente alla Suor Orsola Benincasa di Napoli, di un breve racconto d’avventura anonimo dell’XI secolo, Història de Xacob Xalabín, che narra vicende storiche dell’impero ottomano del XIV secolo, per le Edizioni dell’Orso di Alessandria.

Il boom degli anni novanta

Ormai le lettere catalane avevano fatto ingresso anche nell’accademia. Nel 1990 Anna Maria Saludes i Amat, docente di letteratura catalana a Firenze, faceva conoscere agli italiani le Poesie futuriste (Belforte, Livorno) del poeta d’inizio secolo Joan Salvat-Papasseit, morto poco più che trentenne nel 1924, ma reso popolare negli anni sessanta dagli autori della Nova Canció, l’ondata di creatività musicale che animava allora la ripresa identitaria catalana, i quali ne avevano messo in musica alcuni componimenti. A favorire la diffusione della produzione letteraria della Catalogna contribuiva in quegli anni anche la ripresa di interesse per le proprie radici storiche che fermentava nelle due grandi isole mediterranee, la Sicilia e la Sardegna, che avevano vissuto nel Medio Evo la dominazione aragonese. Si spiega così l’iniziativa assunta dalla stessa Assemblea regionale siciliana nel 1988 di affidare alla grecista Olimpia Musso la traduzione di Antígona (1955) di Salvador Espriu. Ancor più sentito, quell’interesse, in Sardegna, dove tuttora, ad Alghero e dintorni, il catalano è lingua viva. Non è un caso, infatti, che, accanto a Farinelli, tra i pionieri degli studi catalanistici in Italia va collocato anche Pier Enea Guarnerio, di lui più anziano, il quale – giovane professore di scuola media in Sardegna proveniente da Milano negli anni settanta dell’Ottocento – fu il vero iniziatore dello studio della lingua sarda e in quest’ambito si avvicinò anche al catalano. Anche lui, divenuto docente universitario e comparatista, era presente al congresso del 1906. La consapevolezza di queste radici indusse nel 1994 il poeta e prolifico traduttore Ignazio Delogu a presentare, per l’editore Erbafoglio-Astra di Quartu Sant’Elena, una raccolta di Poeti catalani del XX secolo. Ma soprattutto è emerso uno studioso, docente, scrittore e traduttore come l’algherese Antoni Arca, che, tra l’altro, di Josep Pla, fluviale scrittore, di simpatie franchiste ma essenziale nella modernizzazione della lingua catalana, ha tradotto L’illa de Sardenya (1921) e Cartes d’Itàlia (1955): il primo, col titolo L’isola di Sardegna, per La Celere di Alghero nel 1990, e il secondo, Cara Italia. Lettere e cartoline di un tempo che fu, per la Edes di Sassari nel 1994. Nel 1991, di Carles Duarte i Montserrat, un poeta e filologo che in Sardegna è di casa (lo si ritrova coinvolto in varie pubblicazioni in sardo o sul sardo), Arca aveva già presentato con traduzione italiana a fronte le opere poetiche La pell del somni, per la stessa Edes, e, per la Calic di Alghero, La pluja del temps. L’anno seguente era la volta di Trivella, la traduzione del romanzo Rovelló, scritto nel 1969 da Josep Vallerdù, che in Catalogna fu trasformato in fortunata serie televisiva.

Come si vede, fin qui si interessavano alla produzione letteraria catalana solo coraggiosi editori minori. Le case editrici maggiori andavano molto caute. Nel 1976 gli Editori riuniti di Roma, allora all’apice di una storia oggi tristemente finita, avevano fatto un’incursione in terra catalana con la traduzione, per mano di Ettore Finazzi Agrò, di Bearn o La sala de les nines (1961) di Llorenç Villalonga (La sala delle bambole), un forte e ironico romanziere di Maiorca. E un’altra aveva provato nel 1985 la ben più forte Rizzoli grazie ad Angelo Morino e Sonia Piloto de Castri con Le storie naturali, traduzione di Les històries naturals (del 1960) del prolifico Joan Perucho, già affermato fuori della Catalogna e quindi probabilmente considerato poco rischioso dalla casa milanese. I due traduttori, entrambi torinesi, si dedicarono però prevalentemente alla letteratura iberoamericana.

I catalani rimasero e rimangono, tranne rare eccezioni, terreno di caccia dell’editoria minore anche a partire dagli anni novanta, quando, come si diceva in esordio, furono in parte favoriti dalla voga dei generi “femminile” e poliziesco. Accontentiamoci intanto di un primo elenco di pubblicazioni di quegli anni: Donatella Siviero, con Un bellissimo cadavere barocco (Tullio Pironti, Napoli 1990) traduce Un bellíssim cadàver barroc (1987) di Josep Piera; la stessa Siviero, che oggi insegna all’università di Napoli lingua e letteratura catalana, per lo stesso editore ha tradotto nel 1994 il Diccionari per a ociosos di Joan Fuster (Dizionario per gli oziosi); di Joan Bross Mau Mau Sarenco Githai tradusse per Adriano Parise di Colognola ai Colli sia i coraggiosi Poemes civils, del 1961 (Poemi civili), sia Fregoli (Via Fregoli), del 1969, entrambi nel 1997. Nello stesso anno la Sellerio, molto attenta alla produzione spagnola su impulso di Leonardo Sciascia, pubblicò Morte di dama, traduzione di Nancy De Benedetto da Mort de dama (1931) di Llorenç Villalonga. Il libro era aperto da un’utile introduzione di Giuseppe Grilli, che si veniva affermando in ambito accademico e editoriale come uno dei massimi esperti della letteratura contemporanea catalana. Quanto a De Benedetto, recentemente, nel 2008 ha raccolto per Tullio Pironti di Napoli una bella antologia, Il mare tra noi. Scrittori catalani raccontano.

Nel 1999 dopo era Einaudi a presentare El jardí dels set crepuscles (1989) di Miquel de Palol, affidato alla perizia, allora incontaminata, di Glauco Felici (Il giardino dei sette crepuscoli). Ancora: Patrizio Rigobon ha tradotto nel 2001 per la Biblioteca del Vascello di Roma, come Il libro dei cavalieri, Llibre de cavallaries di Joan Perucho; El mar, di Blai Bonet (1958), tradotto da Alfonsina De Benedetto nel 2002 (Il mare, Mauro Baroni, Lucca); Cavalls cap a la fosca (1975) tradotto in Cavalli verso le tenebre da Stefania Maria Ciminelli nel 2003 per La Nuova frontiera di Roma. Nel 2004 Anna Maria Compagna, che insegna linguistica all’Università Federico II di Napoli, ha tradotto per la romana Carocci La faula (1987) di Guillem Torroella (La favola).

Tra i generi contemporanei di maggior successo esaminiamo qui solo la fortuna italiana dei romanzi “al femminile”.

La fortuna della narrativa “al femminile”

All’interno della Renaixença letteraria catalana spiccano dei nomi femminili, come quello di Dolors Monserdà, animatrice di opere di carattere sociale e femminista accanto all’agitatrice Carme Karr i Alfonsetti, sua amica, e cronista, tra l’altro, dei fatti della Setmana Tràgica, una delle prime manifestazioni operaie spagnole, repressa nel sangue a Barcellona nel 1909. È infatti l’atmosfera propiziata dal decollo industriale barcellonese a spiegare il sommovimento culturale di quegli anni, noto in campo letterario col termine di Modernisme, e al suo interno anche una prima presa di coscienza femminile. Monserdà pubblicò il suo primo romanzo, La Montserrat, nel 1882, quando era ancora recente l’avvento del romanzo in Catalogna a opera di Narcís Oller, di cui risente della influenza naturalista. La Montserrat, che a tutt’oggi non risulta tradotto in italiano, dava spazio ad alcune riflessioni sulle prime avvisaglie di femminismo circolanti a Barcellona e dintorni.

Ma le donne catalane non poterono, a differenza di quelle di altri paesi industrializzati, sviluppare gradualmente la propria emancipazione con l’affermarsi della modernità, a causa della repressione clerico-monarchica prima e, poi, del franchismo, che abolì anche le fondamentali conquiste che in materia di diritto familiare e infanzia erano state assicurate dalla Repubblica negli anni trenta. Da qui i tratti che caratterizzano la letteratura femminile catalana, ai quali per anni, fino alla caduta della dittatura, fu imposta un’immagine di donna modellata sul topos di madre e moglie devota voluto dalla cultura clericale franchista (Charlon 1987, 9-11). Non a caso, sono solo sei le narratrici che pubblicano romanzi nell’epoca precedente l’avvento della Repubblica, ma una sola ottiene attenzione abbastanza tempestiva in Italia. E non è un caso nemmeno che, probabilmente sul modello di George Sand e di George Eliot, Caterina Albert i Paradís abbia assunto uno pseudonimo maschile, Víctor Català, per pubblicare Solitud nel 1905. La traduzione italiana di Alfredo Giannini è, come s’è detto, del 1918), successiva perciò soltanto a quelle castigliana (1907) e tedesca (1909), ma non è mai più stata rinnovata in Italia, a differenza che in Spagna (1986) e in Germania (2007).

La ripresa di narrativa femminile catalana durante la fase calante della dittatura ha un’esponente di primissimo piano in Mercè Rodoreda, la quale, per altro, non si è mai definita femminista, benché nelle sue opere la critica alla società patriarcale dell’epoca franchista si leghi inevitabilmente a più o meno celate denunce della condizione femminile. E va a merito di Mondadori, certamente attirato dal clima di solidarietà verso il popolo spagnolo che in Italia era particolarmente vivo, la dimostrazione di un interesse abbastanza tempestivo verso la scrittrice, con la pubblicazione nel 1970 di La piazza del Diamante, traduzione di Giuseppe Cintoli di La plaça del Diamant, edita nel 1962. Ma solo verso la fine degli anni ottanta si cominciarono a recuperare in italiani altri testi, per merito principalmente di Clara Romanò – che ha tradotto Jardí vora el mar (1967) nel 1990 (Il giardino sul mare, La Tartaruga, Milano), nel 1991 Via delle Camelie (El carrer de les Camèlies, 1966) per la stessa La Tartaruga, e nel 1993 i Vint–i–dos contes (1958) con Colpo di luna per Bollati Boringhieri, Torino – e di Anna Maria Saludes i Amat, traduttrice di: Aloma (1938) nel 1987 per la Giunti di Firenze; Mirall trencat (1974) nel 1992 ancora per Bollati Boringhieri (Lo specchio rotto); e di Quanta, quanta guerra… nel 1994 sempre per la casa editrice torinese (Quanta, quanta guerra…, 1980), la quale nel 1990 aveva fatto ritradurre alla stessa Saludes i Amat anche La piazza del Diamante. Più recentemente, Giuseppe Tavani si è impegnato a far conoscere l’intera opera di Rodoreda, a testimonianza anche della vitalità di questa grande narratrice, cominciando col riproporre, per La Nuova frontiera di Roma, nuove versioni sia della stessa Piazza (2008), sia di El carrer de les Camèlies (2009), Jardí vora el mar (2010) e Aloma (2011).

Portavoce di un femminismo più radicale fu Maria Aurèlia Capmany, conosciuta in Italia per il romanzo Quim–Quima (1971), trasposizione dell’Orlando di Virginia Woolf, tradotto da Beniamino Vignola per La Rosa di Torino nel 1981 con lo stesso titolo.

Solo la fioritura femminile e femminista degli ultimi decenni ha trovato però, come già s’è detto, eco adeguata anche in Italia, ma solo presso editori minori. Non è possibile soffermarsi su ogni titolo. Dobbiamo accontentarci in questa sede di un semplice elenco in ordine cronologico: nel 1994 Hado Lyria ha tradotto El cant de la joventut (1989) di Montserrat Roig (Amore e ceneri, Anabasi, Milano); nel 1995 per la stessa casa editrice, ormai scomparsa da tempo, La salvatge (1994) di Isabel-Clara Simó è stato tradotto in La selvaggia, da Gianni Guadalupi; la Jaca book di Milano ha fatto tradurre a Patrizio Rigobon (prolifico traduttore, oggi docente a Venezia e presidente dell’AISC dal 2008) La veu melodiosa (1987) di Montserrat Roig nel 1997 (La voce melodiosa); Verso il cielo aperto è la versione di Cap al cel obert (2000) di Carme Riera data da Francesco Ardolino per Fazi nel 2002, lo stesso anno in cui per la Generalitat de Catalunya, presente alla Fiera del Libro di Torino quale ospite d’onore, lo stesso Ardolino, che dal 1996 insegna lingua e letteratura italiana all’Universitat de Barcelona, ha curato Poeti catalani a Torino; Desglaç (1997) di Maria-Mercè Marçal è stata tradotta con Disgelo da Maria Pertile per la femminista Luciana Tufani Editrice di Ferrara nel 2007, che nello stesso anno ha pubblicato La passione secondo Renée Vivien, traduzione di La passió segons Renée Vivien di Maria-Mercè Marçal (1995) condotta da Brunella Servidei; e contemporaneamente Ursula Bedogni, anche lei docente di italiano alla Universitat di Barcelona, traduceva La meitat de l’ànima (2004) di Carme Riera con La metà dell’anima per la romana Fazi; l’anno seguente è uscito da Neri Pozza di Vicenza Un uomo di parola, in cui Beatrice Parisi ha reso Un home de paraula (2006) di Imma Monsó, autrice anche di Pedra de tartera (1985), tradotto dall’ispanista Gina Maneri (Come una pietra che rotola, Marcos y Marcos, Milano) nel 2010, anno in cui Baldini e Castoldi-La Tartaruga edizioni di Milano ha pubblicato Una donna scomoda di Patrizio Rigobon, traduzione di Una dona incòmoda (2008) di Montse Banegas.

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