CONVERSAZIONE CON NORMAN GOBETTI E PAOLA MAZZARELLI
di Gianfranco Petrillo
Mi trovo davanti a due grandi professionisti della traduzione. Dal punto di vista professionale, solo in superficie si può dire che ciò che hanno in comune è la lingua da cui traducono, cioè “l’inglese”. In realtà, attraverso quella lingua, nella loro vastissima produzione esercitano in italiano la scrittura di una grande varietà di generi, dalla saggistica alla narrativa: più quella che questa per Paola, più questa che quella per Norman. E da una grande varietà di Englishes, di “inglesi”: dai classici ottocenteschi ai contemporanei abitatori e attraversatori del globo, dal linguaggio accademico al colloquiale più ardito, con registri vertiginosamente diversi.
Tu, Norman, vai dalla docufiction, alla saggistica, alla narrativa in grande quantità, ma dentro alla narrativa c’è l’autobiografia, c’è il romanzo storico, c’è la fantascienza, il romanzo contemporaneo. Quella di Paola è un altro tipo di varietà, perché va dalla saggistica, prevalentemente storica, alla narrativa di vario genere, dai classici alla narrativa per ragazzi e per bambini, alle filastrocche per bambini. Poi avete delle nicchie di specializzazione. Per Paola si tratta della montagna e della letteratura di viaggio; per Norman, apparentemente, degli anglo-indiani. Ecco, questa grande varietà, secondo voi, è dovuta a che cosa? Ai casi della vita, al fatto che il mestiere vi porta di qua e di là? Oppure c’è una particolare capacità, da parte vostra, di affrontare un ventaglio così ampio di problemi traduttivi?
Norman Gobetti: Mah, per me è più un caso della vita. Forse quello che mi è capitato di più è che autori che sono principalmente romanzieri hanno scritto libri che non erano dei romanzi e a me è capitato di tradurli. Penso, per esempio, a McEwan, di cui ho tradotto dei brevi saggi sulla scienza, o anche al primo libro di Roth che ho tradotto, che era Chiacchiere di bottega, o all’ultimo, Perché scrivere?, una raccolta di suoi saggi e interviste. In realtà, per quanto riguarda me, ho l’impressione di non avere un amplissimo spettro. Per esempio direi che non mi è mai capitato di tradurre saggistica “dura”, diciamo, cosa che invece altri traduttori che pure traducono anche romanzi, compresa Paola, fanno. Mi sembra di essere sempre un po’ comunque nella sfera della narrativa, che oggi è molto sfaccettata, e spesso sfocia nell’autofiction o nella saggistica diciamo “morbida”. Quindi è forse proprio la natura della narrativa in questo momento a essere meno incasellabile nel romanzo puro. Per quanto riguarda me, lo attribuirei più a questo che a una mia particolare versatilità.
Paola Mazzarelli: Per me è stato un caso, inizialmente. Pensavo che avrei tradotto solo narrativa, perché leggevo prevalentemente narrativa, e al resto non badavo molto. Poi, in realtà, quando mi sono trovata a tradurre (per anni come mestiere unico, o quasi) è capitato che mi venissero offerti altri generi. Siccome di quello vivevo, prendevo «quello che passava il convento», come dico sempre… E mi sono appassionata a un certo tipo di saggistica umanistica colta, però divulgativa, cioè non necessariamente intesa per un pubblico specialistico. Ed è uno dei generi che ho trovato più stimolante e appassionante. Anche il passaggio alla letteratura per ragazzi è stato più o meno casuale. Ho cominciato, mi veniva bene, e tra l’altro lo trovavo facile e anche riposante, al confronto di certa saggistica impegnata, dove prima di tradurre ti spacchi la testa per capire e studiare. Molta narrativa, specie … quella di consumo, mi piace meno. Mi annoia un po’. O forse non la capisco. Adesso cerco di spostarmi un po’ sui classici, che invece fanno parte del mio orizzonte culturale. Per quanto riguarda la montagna, poi, quando ho cominciato a tradurre è stato logico lavorare in quel campo. Io ero anche un’alpinista, e di alpinisti che sapessero tradurre non ce n’erano. O forse uno sì, ma traduceva altro. Come sono apparsa all’orizzonte, gli editori specializzati hanno cominciato a farmi lavorare. Non pareva vero che ci fosse qualcuno che aveva idea di come è fatta una montagna… In quell’ambito mi vengono offerte molte traduzioni anche oggi, ma accetto raramente, o meglio, accetto solo cose che per me hanno qualche particolare motivo di interesse. Però, i libri di montagna sono stati tra le cose più “di successo” che ho fatto. Quelli di un certo valore vengono ripubblicati, e per un traduttore rivendere una traduzione è una bella soddisfazione.
Comunque, affrontare questa grande varietà di temi, di registri, di generi comporta una capacità non soltanto linguistica ma, dovrei dire, culturale, un’ampiezza di orizzonte di tipo culturale che non è da tutti, almeno oggi. Cioè, secondo voi, c’è una differenza tra la vostra impostazione… Apriamo una parentesi indiscreta: voi appartenete a due generazioni diverse. Posso dirlo: per età Norman potrebbe anche essere figlio di Paola. Tuttavia vi accomuna uno stesso modo di affrontare il mestiere, la lingua, la traduzione. Secondo me, condividete in pieno una stessa aura professionale e direi anche culturale in generale. Ecco, c’è differenza invece rispetto alle generazioni successive? Secondo te, Norman?
NG: Mi vengono in mente due cose. La prima è la mia curiosità. Una cosa che mi aiuta molto a fare con gioia e con passione questo lavoro è il fatto che mi interessa quasi tutto. Quindi, quando mi propongono un libro, magari anche di un autore che non conosco, di un autore che non è prestigioso, che non è importante, però magari viene da un’area del mondo che non conosco, per esempio, oppure affronta un tema che non conosco, questo, invece di allontanarmi, mi attrae, nel senso che diventa un’occasione per studiare, per conoscere, per approfondire un argomento. Per cui, ecco, credo che da parte mia questo desiderio di conoscere cose nuove, di imparare cose nuove, sia strettamente intrecciato sia al tipo di libri che ho tradotto, sia appunto al fatto che faccio sempre con passione questo lavoro. Per quanto riguarda la questione generazionale, la sensazione che ho io è che la grande differenza tra le generazioni nostre e le generazioni molto più giovani è che noi siamo cresciuti in qualche modo in un orizzonte culturale che, anche se in realtà era infinito, ci appariva in qualche modo dominabile, in qualche modo finito. Per cui c’era come la sensazione che una persona colta conoscesse almeno vagamente, almeno per sentito dire, tutto ciò che era necessario conoscere. Almeno in ambito umanistico. In ambito scientifico è un altro discorso. Ma almeno in ambito umanistico. E quindi che ci fosse in qualche modo un orizzonte culturale comune in cui poi qualcuno conosceva meglio qualcosa, qualcuno conosceva meglio qualcos’altro, ma che era condiviso, per cui tante cose si potevano in qualche modo dare per scontate…
Ti interrompo un momento. In un’intervista tua che ho letto, mi pare, su «doppiozero», parli di una cultura generale condivisa che ora non esiste più.
NG: Sì, il punto è un po’ questo. Quando si parlava con qualcuno, almeno in certi ambiti, si dava più o meno per scontato che se si nominava, per dire, uno scrittore, quell’altra persona probabilmente lo conosceva. E magari se non lo conosceva, uno diceva: «Ma che ignorante!» Ecco, tutto questo mi sembra completamente tramontato. Questo lo vedo soprattutto nell’insegnamento… Mi rendo conto che è assolutamente assurdo dare per scontato che un nome che viene pronunciato sia conosciuto, non perché le persone che ci si trova di fronte siano ignoranti, ma perché la cultura è diventata sterminata ed è diventato assolutamente irrealistico aspettarsi che esista un territorio comune. E quindi ognuno conosce delle cose diverse, o comunque le persone molto più giovani di me tendono a non conoscere le cose io conosco, e a conoscere invece cose che io non conosco. Non so se poi tra loro invece…
Ma non hanno la curiosità che avevi tu, quella di cui parlavi prima.
NG: Non lo so. Credo che però questo discorso della curiosità sia strettamente legato a quello della, come dire?, della visione di una sfera culturale conoscibile nella sua interezza. Cioè, io mi rendo conto che ancora adesso ho come lo slancio a conoscere sempre più cose fino ad arrivare a conoscerle tutte, cosa che è completamente assurda ma è in qualche modo una forma mentis che mi porto dietro, per cui è come se ci fosse una sfera di conoscenza dentro la quale io mi muovo potenzialmente potendo arrivare dappertutto. Ecco, credo che il discorso del tipo di curiosità di cui parlo io sia legato a questo tipo di immaginario, che è comunque solo un immaginario, ovviamente, non ha nulla a che fare con la realtà, mentre credo che, non avendo questa percezione, cioè avendo la percezione di muoversi all’interno di un territorio sterminato, la curiosità sia più legata a degli incontri occasionali, ma senza nessun tipo di possibile immaginario di andare a conoscere tutto. Non credo che le generazioni più giovani non abbiano curiosità. Credo piuttosto che la loro curiosità si giochi in modo molto diverso e sia determinata da un immaginario di quello che è la cultura diverso da quello in cui noi siamo cresciuti, anche se poi non sono passati così tanti anni.
PM: Sono assolutamente d’accordo, ma noi abbiamo questa impressione – anch’io in un certo senso ce l’ho – perché la cultura per noi era – e per quanto mi riguarda è ancora percepita così – un tutt’uno relativamente omogeneo, in cui c’erano dentro tante cose. Mi sembra che oggi per i giovani sia invece un universo sterminato ma frantumato, frammentario, senza ordine. Io non ho mai avuto l’impressione di poter arrivare a conoscere tutto, perché l’universo culturale sempre sterminato era, però, ho, ce l’ho tuttora, la certezza di poter acquisire informazioni nuove e poterle sistemare dentro un ordine che sono in grado di dominare perché so… perché ho un metodo e una struttura di base nella testa. Per quanto riguarda le scienze umanistiche, si capisce.
Anche la lingua?
PM: Certo, un metodo e una struttura – che è anche, alla mia età, una struttura mentale – e naturalmente una lingua. È questo che mi consente di acquisire informazioni nuove e sistemarle, catalogarle, metterle da qualche parte, per cui lo scenario si allarga, ma è uno scenario coerente. La mia impressione invece è che per i giovani oggi non ci sia lo scenario, ci sia una quantità immensa di informazioni slegate che vagano da qualche parte e che loro non riescono mai – o quasi mai – a sistemare dentro un ordine. Questo dipende, a mio parere, dalla scuola, dal corso di studi che hanno fatto, e anche dalla realtà in cui vivono, dal web, dal fatto che lì c’è tutto ma nulla è organizzato e quindi tutto si disperde, tutto sta, in un certo senso, sullo stesso piano. Anche l’altro punto che hai indicato tu, Norman, quello della curiosità, si lega a questo discorso. Io non ho mai avuto paura ad affrontare un autore nuovo, o un argomento nuovo, un po’ perché mi piaceva e mi incuriosiva avere a che fare con una novità, ma anche perché ho sempre dato per scontato di riuscire a dominarlo, cioè a comprenderlo, e quindi anche a tradurlo. Cioè, sapevo come fare a leggerlo nel senso ampio della parola e, se non lo sapevo, sapevo però come trovare gli strumenti per leggerlo, cioè dove andare a pescare le informazioni che mi servivano. Per certi libri ho studiato tantissimo, come penso abbia fatto anche tu. Oggi quello che io riscontro nei giovani – e qui penso in particolare ai giovani aspiranti traduttori della Scuola di traduzione editoriale [dell’agenzia tuttoEuropa di Torino, della quale Mazzarelli è la coordinatrice didattica] – è una capacità di lettura molto superficiale. Certo, sono giovani, ma la vedo superficiale perché appunto quasi sempre manca il retroterra a cui agganciare – e quindi capire – il testo che stanno leggendo.
Dentro questa grande varietà però tu, Norman, hai una sorta di una specializzazione. Sei visto, dall’esterno, come traduttore soprattutto di testi sempre in lingua inglese, sì, ma di autori di area che viene chiamata oggi post-coloniale, soprattutto asiatica. Il principale è Amitav Ghosh, che traduci con Anna Nadotti e che ti ha aperto, spalancato questo mondo, ma gli si possono aggiungere Mohsin Hamid, Adiga Aravinda, Uzma Aslan Khan e altri. Io collegherei questa tua, chiamiamola così, “specializzazione” all’altro versante che stai coltivando ormai da alcuni anni, che è Philip Roth, di cui hai tradotto numerosi romanzi, ma al quale assocerei altri autori molto meno noti, come Ralph Ellison, Michael Punke, Alan Weisman, Pete Dexter e altri, che hanno in comune un forte impegno conoscitivo della realtà contemporanea. Questo mi fa dire che in realtà l’area di tuo interesse, e anche un po’ di passione personale, è più ampia che non il semplice post-coloniale. Consentitemi una parentesi: secondo me il post-coloniale è un tema su cui insistono gli studiosi di teoria della traduzione di area anglosassone perché hanno la coscienza sporca dei loro imperi, mentre invece la tua passione è più ampia, è una passione che possiamo definire politica. È così?
NG: Sì. Però farei una premessa: nella mia esperienza non è che il traduttore si tracci una strada interamente a propria scelta e di propria volontà, ma molto è anche dovuto al caso, a quello che ti viene affidato, ecc. Poi sicuramente tende ad accadere che, quando si traduce un autore e l’editore è contento del lavoro che hai fatto, magari l’editore poi ti affida altri libri di quell’autore o libri di autori che in qualche modo vengono considerati affini all’autore che hai tradotto, e quindi si crea poi questa, tra virgolette, specialità, che non necessariamente dipende da una propria particolare inclinazione. Nel mio caso, però, è vero che mi sono particolarmente congeniali alcuni degli autori che ho tradotto, e Ghosh sicuramente… Anche se Ghosh è più un autore che traduce Anna Nadotti e che molto generosamente lei condivide negli ultimi anni con me. Poi ci sono altri autori, come per esempio Mohsin Hamid e Aravind Adiga, di cui ho tradotto praticamente tutti i libri e che in qualche modo possono appartenere a una sfera assimilabile a quella di Ghosh. Fatta questa premessa, io ridirei in termini leggermente diversi quello che dicevi tu, Gianfranco. Intanto per me questi non sono autori post-coloniali. Condivido quello che dici: questa etichetta del post-coloniale mi sembra più un’etichetta per lavarsi la coscienza che qualche cosa che corrisponde alla realtà della cultura oggi, quando esistono semplicemente autori che provengono da parti diverse del mondo, che, per quanto riguarda la sfera della lingua inglese, essendo l’inglese parlato in molte parti del mondo in seguito alla storia del colonialismo britannico, finiscono per essere indiani, pakistani, statunitensi, australiani, irlandesi, nigeriani, eccetera, tutti posti che fanno parte della storia coloniale della Gran Bretagna, Stati Uniti compresi. Io non ho mai capito perché un autore statunitense non è post-coloniale, invece un autore canadese è post-coloniale. Quindi, dal mio punto di vista, Roth è un autore post-coloniale tanto quanto lo è Ghosh, o tanto quanto lo è Adiga. E in un certo senso anche Martin Amis o McEwan sono autori post-coloniali, nel senso che vengono da un paese che è stato un paese colonizzatore e quindi sono immersi in quella storia tanto quanto altri autori che oggi vivono in Pakistan o in Nigeria. Quindi quello che, direi, mi entusiasma, mi appassiona, quello che sento profondamente politico, profondamente legato a quelle che sono le mie convinzioni, il mio approccio al mondo, è questo orizzonte, come dire, non provinciale, cioè l’idea che la cultura viene da tutto il mondo e il punto di vista sulla realtà è molto più sfaccettato di quello a cui eravamo abituati in passato. Se da una parte possiamo nutrire una qualche nostalgia per il mondo di cui parlava Paola – tra l’altro molto meglio e più chiaramente di come ne ho parlato io –, un mondo in cui avevamo la sensazione che tutto potesse essere sistematizzato, che tutto potesse in qualche modo rientrare in un orizzonte che avevamo la sensazione di comprendere… ecco, da una parte il fatto di vedere che questo si sgretola ci addolora e ci fa sentire un po’ sperduti, ma dall’altra parte questo ordine era anche basato su delle profonde menzogne, per esempio la menzogna che esistesse un punto di vista, quello europeo, sul mondo, e gli altri punti di vista fondamentalmente non esistessero, o se esistevano fossero del tutto secondari. Questa cosa è saltata, sta saltando, ed è una delle ragioni, oltre a quelle che dicevi giustamente tu, Paola, per cui oggi l’orizzonte è frantumato. Ma questa frantumazione in un certo senso è più vera di quella che era la nostra sensazione di un orizzonte coerente. Per me questi autori – Ghosh sicuramente, anche per la sua mirabile capacità di trasmettere tutto questo, ma anche altri – mi hanno aperto gli occhi su come certe storie possono essere raccontate tenendo conto di altri fattori e di altri punti di vista. Davvero se uno legge la trilogia di Ghosh, pubblicata in italiano da Neri Pozza, sulla guerra dell’oppio non può più vedere la storia del colonialismo con gli stessi occhi…
Anche per te, Paola, c’è qualcosa che ti coinvolge personalmente in quello che traduci, che ti appassiona?
PM: Per me sempre, sempre, in tutto quello che traduco. Se questo manca, un libro non lo traduco. Ma di fatto non succede mai. E ci sono diversi livelli, diciamo così, dell’appassionamento. La prima è il fatto stesso di tradurre, cioè di cercare e trovare le espressioni, il ritmo, l’andamento per dire il più esattamente possibile quello che va detto in quel preciso momento… Ma su questo non mi dilungo, perché credo sia nell’esperienza di ogni traduttore. Il piacere di scrivere, no?… In secondo luogo, ogni libro porta qualcosa – anzi, di solito molto – di nuovo, cose che non conoscevo e che imparo lavorandoci e riflettendoci sopra. Non intendo solo un contenuto o una lingua, o meglio, quell’insieme delle due cose che costituisce il testo che traduco. È che io sono curiosa e mi appassiono anche a ciò che sta dietro il testo, le ragioni per cui esiste, il senso che ha il fatto stesso che esista. Cioè, di fatto, il suo portato culturale, che poi è anche sempre un portato politico in senso ampio. Perché i libri nascono in un contesto storico preciso. Però, per rendertene conto, hai bisogno di quel quadro di riferimento di cui dicevo prima. Se non ce l’hai, e quindi in fondo non capisci il senso di quel libro, perdi l’essenziale, e sono convinta che anche la tua traduzione perda l’essenziale… In realtà qui sto girando intorno al punto che resta fondamentale: quello della lettura profonda del testo, di cui si diceva prima. Ti faccio un esempio che è di questi ultimi anni. Io non traduco quasi mai autori importanti come quelli di Norman… anzi, ultimamente non ne ho tradotto proprio nessuno. Però ho tradotto molta letteratura americana per ragazzi scritta nella prima metà del Novecento, e per la precisione prima della prima guerra mondiale o tra le due guerre. E lì, forse proprio perché si tratta di letteratura “di genere”, letteratura minore, in un certo senso, il portato culturale e politico è evidentissimo. Il fatto è che quando lo scopri, quella “scoperta” ti si riverbera addosso, nel senso che ti dice qualcosa di te e del mondo in cui stai…
Forse soprattutto nella letteratura per ragazzi, e non per caso… Puoi fare qualche esempio?
PM: Be’, La casa nella prateria di Laura Ingalls è un esempio chiarissimo: una serie di otto volumi, scritta col manifesto intento di costruire una mitologia della frontiera a uso dei ragazzini americani, e non solo. Ma lo stesso discorso vale anche per Pollyanna di Eleanor Hodgman Porter, edita come l’altro da Gallucci, un libro che in apparenza riprende temi classici, un po’ dickensiani, ma che per il fatto stesso di essere stato scritto in America nel 1913 diventa un manifesto. Da questo punto di vista la letteratura minore è spesso molto interessante. Un discorso simile vale per la letteratura di viaggio e per quella alpinistica, specie di esplorazione … Lo sguardo di un viaggiatore è sempre lo sguardo di una cultura su un’altra. Tutta la letteratura alpinistica e di esplorazione inglese dell’Ottocento e di tutta la prima metà del Novecento è prodotta dalle generazioni che nel frattempo costruivano l’impero. Quello era l’occhio con cui scalavano le vette himalayane, attraversavano i deserti, raccoglievano esemplari botanici per i Kew Gardens. Non tenerne conto significa non comprendere il senso di quello che quegli autori raccontano e che stai traducendo. E come dice Norman per Ghosh, anch’io penso che dopo aver letto/tradotto un libro, non puoi più guardare il mondo con gli stessi occhi. Però, vedi che torniamo al discorso di prima. Se non hai un quadro di riferimento, come fai a rendertene conto? Finisce che leggi (e traduci) l’alpinismo dell’Ottocento come se fosse l’alpinismo di oggi, dove valgono meccanismi completamente diversi, come quelli della commercializzazione turistica della wilderness.
Stabilita questa cosa in comune, ci sarebbe ancora molto da dire, per esempio sui vostri problemi circa la lingua, lo stile, i registri, i singoli autori ecc., però avete avuto in passato, e avrete ancora in futuro, occasione di parlare di queste cose, mentre qui ce ne interessano altre. Dal punto di vista esistenziale voi avete almeno altre tre cose in comune: una è che siete entrambi torinesi doc. Questo secondo voi ha influito sulla vostra formazione, sulla vostra cultura, sulle vostre scelte?
PM: Io non ho idea, se questo… Be’, certo, sulla mia cultura sì… Per esempio, per la parte alpinistica, è ovvio. Vedevo fin da bambina le montagne là davanti e la maggior parte degli amici dell’adolescenza, oltre a voler fare la rivoluzione, aveva esperienza di montagna… Non è soltanto la “torinesità”, ma, se vogliamo, è anche l’origine borghese che ha segnato la mia vita, perché se ho fatto il liceo classico era perché in casa era abbastanza ovvio che avrei fatto il liceo classico, non si ponevano grandi alternative. Al massimo, forse, lo scientifico. E altrettanto ovvio era che avrei fatto l’università e via di seguito.
Ma, scusa, essere entrata da ragazzina all’Einaudi non ha contato niente nel tuo futuro?
PM: Da ragazzina? No, ero già all’università, e alla Einaudi spolveravo i libri, tipo addetta alle pulizie…
Aver conosciuto fin da ragazzina quell’ambiente non ha contato?
PM: Sì, ma è stato un caso. Ha contato quando ho deciso di mettermi a tradurre, perché conoscevo, o meglio, alcuni anni prima avevo conosciuto, delle persone che sono state in grado di aiutarmi. . . Allora forse devo spiegarlo. All’Einaudi sono arrivata per puro caso…
Però l’Einaudi era a Torino…
PM: Però l’Einaudi era a Torino, certo. Però essere transitata alla Einaudi da ragazza non ha minimamente inciso sulla mia decisione, parecchio più tardi, di abbandonare l’insegnamento e mettermi a tradurre. E anche a quel punto non ha contato nulla, dato che poi per Einaudi non mi è mai riuscito di tradurre un libro… No, il punto è un altro. Io venivo da una famiglia borghese, colta ma di non lunghissima tradizione culturale, però. I miei nonni non erano laureati, per esempio, anche se i miei genitori sì, e non appartenevano alla borghesia delle professioni liberali. E ricordo che da bambina sognavo di conoscere persone che stavano nel mondo dei libri, che lavoravano nei libri, che scrivevano libri, perché pensavo che sarei diventata scrittrice anch’io. Ed ero affascinata dalle case in cui si respirava un’atmosfera più intellettuale che in casa mia, affascinata e anche un po’ intimorita da certi compagni che leggevano Thomas Mann quando io non sapevo neanche chi era. A lavorare all’Einaudi sono finita grazie a una di quelle compagne, di famiglia più intellettuale della mia. Il lavoro che facevo all’Einaudi era spolverare i libri. Questo facevo, non facevo nient’altro: spolveravo e catalogavo i libri d’arte di un immenso magazzino polverosissimo dove poi si cercavano le immagini per le copertine. Poi è vero che era l’epoca in cui, mettendo la testa fuori da quel magazzino polveroso, vedevo passare Elsa Morante oppure Calvino, Ernesto Ferrero e Nico Orengo. Ho conosciuto quegli scrittori di vista, nel senso letterale della parola: li vedevo passare. Loro non vedevano me, però. Poi ho conosciuto la futura moglie di Ernesto, Carla Sacchi, che era arrivata a Torino da poco e che ogni tanto veniva a pranzo a casa mia perché non aveva amici al di fuori della casa editrice. Con i Ferrero ci siamo poi ritrovati molto tempo dopo, quando in quel mondo che mi attirava tanto da bambina finalmente ci stavo davvero. Traducendo..
NG: Mi fa sorridere questa cosa di spolverare libri, perché anche questo ci accomuna. Perché anche io da ragazzo facevo questo lavoro, non all’Einaudi, ma a Palazzo Nuovo, all’università, perché avevo una ditta, che avevo ereditato da mio padre, che faceva lavori per le biblioteche dell’università, e uno di questi lavori era proprio spolverare i libri. Quindi, insomma, evidentemente qualche cosa vorrà dire, questa…
PM: Il futuro traduttore, possiamo dirlo ai ragazzi…
Deve spolverare i libri…
PM: Sì, anche perché, spolverando spolverando, uno qualche cosa leggeva…
NG: A me istintivamente viene da rispondere di sì alla domanda di Gianfranco. Cioè, sicuramente questa torinesità io la sento, la sento moltissimo, sento che mi ha influenzato moltissimo, la lego anche a certi aspetti del mio carattere, che corrispondono abbastanza… non tutti, insomma, ma alcuni, a certi stereotipi…
Il tuo cognome sarà anche pura omonimia, come è, ma certo non sembra casuale…
NG: Sì, poi c’è questa omonimia… Mi viene di nuovo da ricollegare il fatto di essere cresciuti in una città come Torino al discorso che facevo prima, della sfera della conoscenza. Nel senso che ho la sensazione di essere cresciuto in un posto che dal punto di vista culturale era abbastanza grande ma non certo infinito. Ecco, probabilmente anche questo ha contribuito un po’ a questo mio immaginario di muovermi in una sfera culturale che in qualche modo potevo non dico dominare, ma appunto conoscere, e che non era né così piccola da essere soffocante e da creare il desiderio di voler fuggire assolutamente, come probabilmente capita a chi cresce nei posti più piccoli, ma neanche così grande come può essere quella di una vera metropoli, in cui hai subito la sensazione di essere immerso in qualche cosa di sterminato. Anche l’ambiente culturale, intellettuale di Torino era un ambiente abbastanza grande ma non enorme, per cui, bene o male, le persone più o meno si conoscevano, ma non erano così poche da essere quattro gatti che si conoscevano tutti. E quindi c’era la sensazione di potere in qualche modo esplorare un territorio, entrarci… Poi io, rispetto a Paola, direi che ci sono entrato più tardi e più dall’esterno.
Hai però avuto l’esperienza dell’«Indice», un pilastro della cultura torinese, dove hai lavorato per qualche tempo
NG: Sì, però dopo l’università. Sicuramente l’«Indice» è stato l’ambiente in cui mi sono poi formato anche dal punto di vista delle relazioni con quel tipo di mondo. Però, ecco, anche all’«Indice» c’era un po’ questo essere in un ambiente che era aperto, grande, ma assolutamente non sterminato, che aveva comunque un orizzonte ben preciso.
PM: No, volevo dire che è vero che io sono nata e cresciuta a Torino, da padre piemontese e madre bresciana, ma mio padre, per una sua scelta legata al lavoro, ha sempre voluto stare fuori dall’ambiente torinese, e quindi noi da ragazzini siamo cresciuti sì a Torino, ma frequentando fiorentini, famiglie che venivano dal Sud eccetera, e pochissimi piemontesi. Torinesi quasi nessuno. Io vedevo quel mondo di cui parli… o meglio, capivo che c’era, ma mi sentivo estranea. Tutto il liceo l’ho vissuto in questo modo, sentendomi estranea a un mondo che intuivo e al quale ambivo. È stato dopo, all’università, che ho cominciato a frequentare ragazzi che avevano il mondo delle professioni liberali alle spalle, magari da due o tre generazioni, e che in fatto di libri e cultura sapevano molto più di me, conoscevano la musica classica, andavano ai concerti con gli spartiti sotto il naso, leggevano gli intellettuali contemporanei… Gli anni dell’università sono stati quelli dello scatto, in cui attraverso quel gruppo di amici ho cominciato a leggere la letteratura europea. Però avevo già letto nell’infanzia e nella prima adolescenza tutto quello che si poteva leggere di libri per ragazzi.
NG: Mentre parlava Paola, mi veniva in mente che io in realtà, anche se ho lavorato all’«Indice», anche se collaboro ormai da più di vent’anni con l’Einaudi, in realtà sento comunque, nella mia vita personale, nella mia vita privata, di non fare parte di quell’ambiente. È un ambiente in cui lavoro, che frequento, all’interno del quale ho anche degli amici, ma non direi che poi la mia vita si svolge all’interno di quell’ambiente.
Mi sembra ora importante toccare un altro tema che condividete, che è l’insegnamento, e anzi la passione per l’insegnamento. Perché entrambi voi svolgete con passione il compito di trasmettere un mestiere che è un mestiere di bottega, come Paola ha detto in più occasioni. E lo condividete anche collaborando tra voi. Vorrei sapere qualcosa di più circa questa vostra passione. Secondo voi, da che cosa deriva e a che cosa punta?
NG: Deriva, secondo me, innanzitutto dal fatto che, essendo il mestiere del traduttore un mestiere normalmente solitario, in cui in concreto non si hanno relazioni quasi con nessuno, se non saltuariamente con i redattori o i revisori, nasce naturalmente, a meno che uno sia proprio un assoluto misantropo, un desiderio di condivisione, di relazione, anche in ambito lavorativo. Per cui, nel momento in cui io ho cominciato a insegnare, ho sentito che in qualche modo questo compensava l’altro aspetto – che poi pure è un aspetto che amo e di cui certo non mi lamento –, il fatto di non avere colleghi, di svolgere il mio lavoro sempre in solitudine. Quindi questo è un elemento essenziale, perché questo in qualche modo fa anche accumulare un’energia, un desiderio di condivisione, che poi esce fuori nel momento dell’insegnamento. Io mi interrogo spesso su questo: perché mi piace tanto, perché ho questa sensazione di euforia, di pienezza, nel momento in cui insegno? C’è forse anche un motivo non molto nobile, che è quello che in quel momento ci si trova in una posizione di potere, in cui le persone che hai di fronte sono in qualche modo costrette ad ascoltarti e a darti retta, sono un pubblico che tu hai di fronte, di fronte a cui ti puoi esibire, e di fronte a cui puoi anche, come dire, lasciarti andare ai tuoi talenti istrionici, che siano o meno benvenuti da chi ti è di fronte. Insomma, questo aspetto, non molto nobile, dell’insegnamento penso che esista e che vada preso in considerazione. Dopodiché c’è anche la sensazione di entrare davvero in relazione… anche se sicuramente non c’è una reciprocità dal punto di vista delle dinamiche di potere, nella situazione della classe c’è uno scambio energetico, diciamo, tra chi è da una parte e chi è dall’altra della cattedra (a parte il fatto che io tendo a non stare dietro alla cattedra, ma a muovermi per l’aula). Ma sicuramente c’è la sensazione che passi qualcosa, che succeda qualcosa che io spero vada al di là della pura soddisfazione narcisistica mia di potermi esibire di fronte a un pubblico: la sensazione che in qualche modo si stia crescendo insieme. Poi credo che l’euforia venga dal fatto di trovarsi in un setting, in una sorta di sfera protetta in cui succede qualche cosa di intenso (un po’ come capita facendo teatro), una sorta di realtà potenziata in cui ci sono dinamiche relazionali più intense, più forti, determinate proprio dai confini di quel setting, di quella particolare situazione un po’ fuori (almeno per me) dalla quotidianità.
Ma non c’è anche una finalità? Cioè, tu che cosa ti aspetti da questo tuo lavoro di docenza?
NG: Quello che mi aspetterei sarebbe fornire degli strumenti molto pratici, molto concreti, e anche trasmettere una passione a persone che desiderano fare questo lavoro. Di questo, però, di questa finalità, è per me sempre un po’ doloroso parlare, nel senso che si scontra poi con l’oggettiva enorme difficoltà, da parte degli studenti che desiderano fare questo mestiere, di poterlo davvero fare, per motivi che esulano dalle mie responsabilità, è vero… Però è sempre un grande punto interrogativo: che cosa ho davvero trasmesso? quanto quello che ho trasmesso è stato utile? A volte si hanno dei riscontri, a volte ci sono persone che poi riescono a fare quel lavoro e che magari poi ti vengono a dire, magari a distanza di anni, che gli è servito quello che tu gli hai insegnato. Questi riscontri però sono molto saltuari, e nella stragrande maggioranza dei casi rimane quell’enorme punto interrogativo.
PM: Per quello che mi riguarda, direi che la molla principale, anzi, le molle principali forse sono due. La prima è che tutto quello che mi entusiasma e che mi piace, e tradurre mi entusiasma e mi piace sempre e comunque, io vorrei comunicarlo agli altri. O soprattutto, certo, mi piace comunicarlo, cercare di passarlo ai giovani perché penso che per loro incontrare… per chiunque incontrare una persona appassionata di un lavoro, che può in qualche modo spiegare che cosa vuol dire quella passione, possa accendere scintille e possa, forse, renderli altrettanto felici, nel futuro. Cioè, in un certo senso, l’idea di poter essere una maestra, nel senso antico del termine, è una cosa che a me preme molto. Ci rifletto spesso. E faccio tutto quello che posso per “offrire” questa figura ai miei allievi. Naturalmente, perché si crei quel rapporto maestro-allievo che porta frutto e fa crescere entrambi, se pure in modi diversi, ci deve essere anche l’allievo. E questo non è dato per scontato. Questo è il primo motivo per cui insegno. Per lo stesso motivo ho insegnato anche nelle scuole di sci-alpinismo, di alpinismo, di arrampicata, tutte cose che mi piacevano e mi appassionavano, e quindi desideravo comunicarle, cercare di passarle ad altri. Quando abbiamo pensato di mettere in piedi la Scuola di traduzione, c’è stata poi proprio l’idea che fosse diventato assolutamente necessario che a passare il mestiere ai più giovani fossero quelli che lo praticavano davvero. Perché il mondo editoriale stava cambiando, stava diventando quello che è diventato adesso, e cioè un mondo dove è difficilissimo per un giovane avere un rapporto personale con le persone che i libri poi li fanno, all’interno delle case editrici. Quando ho cominciato io era facilissimo: se traducevi un libro, pigliavi il tuo dattiloscritto, andavi a Milano a portarlo al redattore, pranzavi con lui, ci chiacchieravi insieme… fin dalla prima volta. Questo è impensabile nel mondo d’oggi. Quindi mettere in piedi la scuola ha voluto dire anche quello: cercar di passare un mestiere a dei giovani che avrebbero avuto più difficoltà a entrare in rapporto con il mondo editoriale. L’idea della bottega discende direttamente dai due motivi che ho detto; perché credo che questo lavoro si possa insegnare solo nella misura in cui si fa bottega, non occasionalmente, non in un seminario qualunque, ma di giorno in giorno, mettendosi continuamente in gioco, maestro e allievo, e quindi crescendo insieme Però devo dire che a distanza di una quindicina d’anni mi sembra che le cose siano radicalmente mutate e che passare il mestiere… l’idea di poter passare il mestiere, sia diventata quasi una chimera. Non che non sia possibile, ma mi pare molto più difficile da mettere in pratica, a causa di quella differenza di retroterra culturale di cui si diceva prima.
Si torna un po’ alla questione della cultura condivisa o non condivisa. C’è un aneddoto che Norman ci ha raccontato una volta, molto, molto significativo, di quel tuo studente a Pisa che quando tu hai detto: «Certo, per tradurre bene bisogna avere la passione per i libri» o qualcosa del genere…
NG: Prima vorrei dire che quello che Paola dice io ho la sensazione di non essere in grado di farlo. E questo, devo dire, è una cosa che mi addolora moltissimo e che mi mette in grandissima difficoltà, ed è anche il motivo per cui poi riduco le mie ambizioni all’aspetto pratico, concreto… Cioè, sento sempre più, ogni anno che passa, che manca un terreno comune di riferimento e che nulla può essere dato per scontato, neanche, e vengo all’aneddoto a cui si riferiva Gianfranco, la passione per la letteratura, che io invece do per scontata. Un anno, alla fine del corso all’università di Pisa ho detto che, se qualcuno voleva fare il traduttore, il presupposto fondamentale era amare la lettura, amare i libri, e uno studente mi ha detto: «Ma perché non ce l’ha detto fin dall’inizio? Così ci risparmiava la fatica di seguire tutto il laboratorio», lasciandomi di stucco. Perché per lui era una richiesta assurda, che andava esplicitata all’inizio per mettere subito le cose in chiaro. Per me invece era una cosa scontata. Ecco, il fatto che anche questo non sia scontato, e probabilmente, bo’, ci sarà una ragione per cui non è scontato, anche se io non riesco a capirla, mi fa mancare il terreno sotto i piedi. Nel senso che spesso mi verrebbero da dire delle cose, per provare a costruire questo orizzonte di cui parlava Paola, ma non so da che parte cominciare. Ultimamente mi è capitato, per esempio, di citare I fratelli Karamazov, che veniva nominato in un testo che stavamo traducendo, e non era scontato che cos’è I fratelli Karamazov. Ecco, per quanto si vada ai classici più essenziali, anche questi non sono scontati. E allora da dove cominciare? È proprio un altro mondo, un mondo che io ho la sensazione di conoscere pochissimo, in cui tra l’altro è sempre più importante la tecnologia, ambito nel quale io invece mi sento molto inadeguato, in cui mi viene richiesta una competenza che non ho e che non riesco a farmi. Per cui sento che gli studenti tendono a non conoscere le cose che io conosco, io tendo a non conoscere le cose che conoscono gli studenti, e quindi da dove cominciare per costruire un discorso comune? Ecco, questo mi sta mettendo sempre più in difficoltà. Naturalmente, comunque, ora l’avvertenza che per diventare traduttori bisogna amare i libri e la lettura la faccio subito, a inizio corso.
PM: Quello che dice Norman mette in difficoltà anche me. E sempre di più. In questi ultimi anni ci ho riflettuto molto. Non lo so, non so da dove si possa cominciare. Nel tempo io ne ho avuti parecchi di studenti che sono usciti dalla scuola, e poi hanno cominciato a tradurre, spesso aiutati da noi docenti perché, come si diceva una volta, “meritevoli”, cioè, nel caso specifico, in grado di fare questo mestiere, seppure con tutte le ingenuità e le inesperienze inevitabili all’inizio. E non c’è soddisfazione più grande per me che vedere i miei ex allievi tradurre per editori ai quali io magari non ho mai avuto accesso, vincere premi – è accaduto anche questo – o tradurre testi impegnativi e avere successo e riconoscimenti. L’ho già detto, ma posso ripeterlo anche qui: il vero fine di ogni insegnamento è che l’allievo arrivi a superare il maestro. Questo, per me, è il massimo che si possa desiderare se si insegna È vero però che non si può propriamente insegnare a tradurre, nel senso che – come dicevamo prima – la traduzione è un atto squisitamente personale, che coinvolge tutta la persona, e che ognuno compie da sé. Come si fa a insegnare a diventare uno scrittore? Si possono però insegnare – attraverso l’esempio, cioè nella bottega – un atteggiamento, un modo di affrontare il testo, o meglio diversi modi di affrontare il testo, un modo di porsi… per esempio, si può insegnare a contestualizzare, storicamente, un testo. Per noi che traduciamo questo è ovvio. Ma molti dei nostri allievi invece non l’hanno mai sentito dire prima. Però è vero che in questi ultimi anni, proprio sulla base di quella differenza di cui abbiamo parlato prima, del fatto che non si può più dare niente o quasi niente per scontato, anch’io mi pongo il problema di che cosa fare, da dove partire. E un po’ ci lavoriamo, a scuola, con i colleghi, cercando di rivedere, nei limiti del possibile, quelli che in altri contesti si chiamerebbero i “programmi”. Però siccome sono ottimista penso che si debba seminare, seminare, seminare, a fondo perduto. Perché poi il famoso seme che cade sul terreno fertile un giorno darà frutto…
NG: Volevo aggiungere ancora due cose su questo punto. La prima è che poi chiaramente ci sono le eccezioni, cioè ci sono persone che invece per qualche motivo hanno una cultura ancora in qualche modo simile a quella che ho io, una cultura che si fonda in primo luogo sui libri, sui classici, e con cui quindi evidentemente provo subito un’affinità inaspettata, e probabilmente queste eccezioni continueranno a esistere. E io mi sono fatta l’idea che le persone che poi riescono davvero a lavorare siano un po’ queste, cioè quelle che comunque, in qualche modo, vivono ancora nel mondo della letteratura, e la conoscono davvero in modo più passionale, più profondo. Quindi quello che adesso io dico agli studenti è: «Il presupposto è questo. Se non avete questo presupposto, lasciate perdere. Se invece ce l’avete, è una bellissima notizia per voi, perché, siccome sempre meno persone ce l’hanno, se voi ce l’avete, avete una grande probabilità di poter fare questo lavoro». E l’altra cosa che volevo aggiungere è che questo discorso della mancanza di un terreno comune lo sento nel modo più macroscopico per quanto riguarda i libri, ma in realtà lo sento anche quando il testo su cui si sta lavorando porta magari ad affrontare questioni più di tipo esistenziale, che riguardano la vita dei sentimenti, la vita psicologica di una persona. Ecco, anche su questo in realtà ultimamente sempre più sento di non poter dare per scontate delle cose. Nel senso che, per esempio per quello che riguarda i rapporti tra uomini e donne, la visione della sessualità e dei sentimenti, mi rendo conto che io sono abituato a parlare di queste cose in un certo modo che è sempre meno attuale, sempre meno in sintonia con come le persone più giovani vivono questi ambiti. Quindi anche questo, che in un certo senso potrebbe essere considerato una sorta di minimo comun denominatore dell’esperienza umana, sento che sta cambiando molto. E anche questo mi fa sentire spiazzato, nel senso che spesso mi rendo conto di dire delle cose che per me non significano la stessa cosa che per chi mi sta ascoltando.
PM: Questo che tu senti in certa misura lo sento anch’io. Per esempio, mi sono accorta negli ultimi anni che la mia abitudine di scherzare, le battute che faccio a scuola, l’ironia e l’autoironia che sono per me comportamenti abituali, possono essere totalmente fraintesi, e quindi recepiti come offese. È una cosa che mi lascia sempre esterrefatta. Però adesso so che ci devo stare attenta, perché gli allievi che oggi mi trovo davanti sono estremamente suscettibili, si offendono, e possono arrivare a nutrire nei miei confronti una sorta di rancore sotterraneo di cui io posso essere perfettamente ignara. È che, certo, non si può dare per scontato che ci sia un terreno comune, anche linguistico, anche, o forse essenzialmente linguistico, per cui le parole non vogliono dire la stessa cosa, l’ambiguità non è la stessa cosa, la battuta non è recepita perché le parole significano altro. In fondo è un cerchio, stiamo dicendo sempre la stessa cosa: è una questione di linguaggio, è una questione di cultura, cosa c’è dietro a ogni parola nella storia di ciascuno di noi. Però io penso anche che su questo fronte si debba combattere. Cioè penso che come si combatte per conservare i boschi e i lupi, anche se poi magari mangiano qualche pecora, così al traduttore (e tanto più al traduttore che insegna) competa di combattere per conservare la lingua e la cultura a cui appartiene. A cui tutti apparteniamo, anche i giovani che forse oggi non lo sanno. Naturalmente, non intendo la conservazione sterile, mummificata… Ma è un fatto che per capire dove stiamo andando dobbiamo sapere da dove veniamo… Io questo soprattutto cerco di insegnare ai miei allievi. E siccome lo strumento con cui lavoriamo è la lingua italiana, cerco di insegnare questo atteggiamento di consapevolezza, e quindi anche di riflessione e di studio, nei confronti della lingua. Proprio perché poi possano contribuire a trasformarla come sarà necessario…
Di innovare consapevolmente, più che conservare…
PM: Sì, ma al livello al quale sono i nostri studenti di solito l’innovazione è molto di là da venire. Quello che importa invece è che capiscano la necessità della conservazione, cioè dello studio della lingua, codificata, anche dogmatica se vogliamo, ma che comunque capiscano che va studiata prima di poter innovare. E questo è… credo che sia un po’ l’ambito in cui adesso può muoversi la nostra scuola, più che forse in altri. Ecco, forse di lì si può partire…
Quello che emerge è la conferma che stiamo vivendo un periodo di transizione molto profondo, e molto più forte dei periodi di transizione che pure ci sono stati in passato, nel secolo scorso, diciamo, tra una generazione e l’altra. La transizione da una generazione a un’altra di solito comporta sempre dei problemi, è naturale, ma in questo caso credo che si stia attraversando proprio un periodo di transizione, probabilmente di lunghissima durata, che trasformerà il mondo, se il mondo riesce a resistere alle prove a cui viene sottoposto. Nel mio piccolo anch’io vedo questa cosa, e credo che la nostra rivista, «tradurre», e qui tocchiamo l’ultimo aspetto di condivisione, cioè delle cose che avete in comune… Un po’ figlia della cultura generale condivisa che abbiamo in comune è stata la rivista, la rivista sull’ultimo numero della quale uscirà questa nostra conversazione. Voi siete stati per dieci anni due pilastri di questa rivista, a cui avete partecipato con passione e con proposte, con idee, con lavoro autentico. Non è un caso che Paola, insieme con Aurelia Martelli e Giulia Baselica, abbia curato il numero monografico sull’insegnamento della traduzione, il numero 15, e che in quel numero compaia un articolo di Norman molto efficace, secondo me. Ecco, questa esperienza, questa ulteriore esperienza condivisa che avete fatto con la rivista, che significato ha avuto, secondo voi, che senso ha avuto? Vi chiedo proprio di dire spassionatamente che bilancio ne traete, che significato può aver avuto questa esperienza.
NG: Per me, dal punto di vista personale, la rivista è stata un’occasione per studiare e scrivere delle cose su questioni che mi interessavano, che mi interessava approfondire. Ho cercato di farlo con uno spirito di servizio, cercando di fornire degli strumenti, di fare dei bilanci su cose su cui mi sembrava interessante o utile fare bilanci o fornire strumenti. E poi chiaramente la rivista mi ha regalato cose da leggere interessanti e approfondite su un tema di cui si parla moltissimo ma di solito in modo molto superficiale. Ecco, credo che il pregio indiscusso di questa rivista sia stato l’approfondimento, il fatto di poter leggere articoli lunghi, curati, ben scritti e ben documentati. Per quanto riguarda un bilancio su quello che è stata la rivista più in generale, mi sento incapace di farlo, nel senso che sento di non avere assolutamente il polso di quella che è stata la ricezione della rivista al di là della mia microscopica prospettiva di me come lettore.
PM: Be’, sempre partendo dal fatto che le cose che mi piacciono, mi danno gioia, mi fanno essere quella che sono, io voglio comunicarle agli altri, la rivista è stata per me una forma di comunicazione agli altri di cose in cui io credo e che condivido con un gruppo di persone, un modo di interrogarsi sul tradurre, sulla traduzione, , sul senso più ampio, culturale, della traduzione. Anche un modo per riflettere, naturalmente, perché non è mai stato un lavoro fine a sé stesso, e perciò sterile, ma è sempre stato un lavoro aperto al confronto, e perciò sempre proficuo. Questo vale sia dal punto di vista mio personale, ma anche per quello che io credo sia stato il senso e l’utilità della rivista.
Si fanno un sacco di cose inutili…
PM: Saranno inutili? Ai posteri l’ardua sentenza. Io, quello che ho fatto nella rivista, l’ho fatto perché ci ho visto dentro un progetto utile in senso generale. A chi non so. O meglio, lo so: al lettore della rivista. Chi sia, chi sia stato questo lettore non lo so. Ma il lettore da qualche parte c’era, perché ogni tanto ci arrivavano echi della sua presenza… pochi e rari, è vero, ma arrivavano. E comunque un progetto culturale in cui si crede non deve necessariamente avere dei riscontri immediati… La rivista ha cercato di dire qualche cosa, su che cosa vuol dire traduzione e tradurre, di più ampio e più onnicomprensivo di quello che si intende normalmente. Cioè, ha allargato il campo a una prospettiva essenzialmente storica, che a me sembra fondamentale in ogni atto culturale, e che ho l’impressione oggi si tenda invece, forse volutamente, a trascurare. Io faccio parte del mondo in cui la storia è fondamentale per sapere chi si è, in cui il passato illumina il presente, e la rivista un po’ è stata anche questo. Se poi… Poi forse verranno altre riviste che faranno cose diverse. . E non è detto che non possano essere anche figlie – magari ribelli – della nostra rivista…
A questo punto, in realtà, avremmo mille altri argomenti da trattare insieme… Ma un punto fermo, sia pur provvisorio, bisogna pur metterlo.
Norman è venuto al nostro incontro in bicicletta, come fa sempre per muoversi in città. Al momento di ripartire, gli cade la catena. Per rimetterla su si sporca abbondantemente le mani di morchia. Mentre se le lava, commenta: «Però, è un lavoro in cui non ci sporca le mani, il nostro».
Mestiere da privilegiati, la traduzione?