Per un Ulisse ​democratico

di Enrico Terrinoni

Tempo fa ero a Bruxelles nei locali dell’agenzia culturale della Commissione Europea per un incontro di valutatori dei progetti di traduzione letteraria per l’Unione Europea. Il primo giorno il programma prevedeva una seduta comune in cui tutti gli esperti avrebbero dovuto presentarsi, ognuno raccontando qualcosa di sé e della propria esperienza di traduzione letteraria. Arrivato il mio turno, ho reso edotti i colleghi di aver appena tradotto Ulysses, specificando che la traduzione precedente era stata pubblicata per la prima volta nel 1960. A quel punto una traduttrice di un paese baltico mi ha interrotto formulando la seguente domanda (che traduco a memoria): «perché mai avete avuto bisogno in Italia di un’altra traduzione? La precedente non andava bene?» Le ho risposto dicendo che la precedente era per molti versi ben fatta, e anzi, che proprio in questi mesi siamo in attesa di una ulteriore traduzione italiana, questa volta da parte di un grande scrittore, Gianni Celati, che con la sua arte certamente fornirà scelte creative e nuovamente illuminanti ai lettori di Joyce. La mia interlocutrice non mi è sembrata, allora, troppo convinta della risposta, ma immagino che il prolungato scetticismo fosse dovuto al fatto che la sua domanda – devo dire rispondente a un sentire comune quando si parla, in libertà, di traduzione – partiva dall’errata impressione che tradurre un testo possa e debba essere una equazione fissa, da articolare sempre in maniera univoca e unilaterale, e per così dire alla ricerca di una versione autorevole e definitiva del testo originale in lingua altra. (A scanso di equivoci, che la traduzione non sia un’equazione fissa vale per qualunque testo, ma a maggior ragione per un’opera aperta come Ulysses, libro che meriterebbe tante traduzioni, come tutte le grandi opere della letteratura mondiale). Ma come la mettiamo nel momento in cui ci viene richiesto di tradurre un’opera la cui “traducibilità” può esser messa in discussione da varie prospettive, per via proprio della polisemica multitestualità che l’ha reso un mostro sacro della letteratura contemporanea?

In parole più povere, perché tradurlo, e come? Una possibile interrogativa risposta a questa prima domanda potrebbe essere: perché no? In effetti, un traduttore quasi sempre lavora almeno per una delle seguenti ragioni: la passione, il denaro, o il riconoscimento accademico. Io lavoravo, in diverso ordine, per tutte e tre le nobili motivazioni, per quanto qualcuno potrebbe aggiungerne una quarta: il masochismo. Scherzi a parte, quando si ritraduce oggi un testo come Ulysses, in qualunque lingua lo si faccia, lo scenario è quasi sempre complicato dall’esistenza stessa, in quasi tutti i paesi occidentali, di traduzioni precedenti, alcune più autorevoli di altre, ma tutte generalmente impegnate e imprescindibili. Per quanto riguarda l’Italia, come ho già detto, esiste una traduzione divenuta nel tempo un vero classico, fatta da Giulio De Angelis (1999), con l’aiuto di studiosi del calibro di Giorgio Melchiori, Glauco Cambon e Carlo Izzo, e pubblicata la prima volta nel 1960. Questa traduzione è conosciuta come la «traduzione autorizzata», il che è sufficiente a spaventare chiunque tenti di produrre una nuova versione dell’opera di Joyce.

Parlando della «traduzione autorizzata» con riferimento alla mia nuova versione di Ulisse, qualcuno recentemente ha detto: «mandarla in pensione potrebbe essere meno semplice del previsto» (Zaccuri 2011, 28). Quel commento mi è apparso allora fuori luogo, e non solo perché in Italia, dopo la riforma Fornero, in pensione non ci si va più. Che significa, infatti, mandare una traduzione in pensione? Non si tratta soltanto di un pensiero curioso, ma anche di una riflessione basata su un presupposto alquanto dubbio, ovvero che le nuove traduzioni siano destinate a sostituire quelle vecchie, così come, per usare una similitudine sentimentale, i nuovi amanti dovrebbero sostituire i vecchi mariti, o, per buttarla sul tecnologico, gli ebook reader debbano rimpiazzare i vecchi e cari libri in edizione cartacea. Nessuno, mi si creda su questo punto, voleva mandare la grande traduzione De Angelis in pensione, e c’è da credere e da sperare che non ci andrà per molto tempo ancora. La traduzione va considerata, mi si perdoni l’ulteriore similitudine sentimentale, alla stregua dell’amante di un testo originale, e – ce lo ricorda il grande traduttore John Florio (Florio 1904, 5) – per quanto riguarda gli amanti, più ve ne sono e meglio è. È per questo che i traduttori sono spesso a rischio transfert, ma questa è un’altra storia. Insomma, quando mi fu chiesto di lavorare a una nuova versione italiana di Ulysses, la proposta, molto poco sentimentale, devo dire, mi fece «tremare le vene e i polsi», come a Dante di fronte alla lupa.

Tradurre l’Ulysses di Joyce, nella mia esperienza, ha significato riflettere a fondo, oltre che sulla pratica da seguire, sui concetti di traduzione e interpretazione in connessione con quella che definirei, in ambito culturale, la memoria di un ritorno. Ritorno in quanto rivisitazione di uno spazio semiotico e culturale che una volta ci era familiare. Ulisse è un testo che permette di ridefinire la traduzione attraverso un suo senso plurale di ambiguità multivocale, ma è anche un viaggio verso e attraverso luoghi virtuali abbastanza noti a chiunque sia nato e cresciuto all’interno di quel che va, forse erroneamente, sotto il nome di cultura occidentale.

Il grande libro di Joyce è infatti per molti versi una metafora del ritorno. La trama stessa, attraverso le sue allusioni, spesso ci riporta a luoghi familiari al lettore occidentale. Ulysses è prima di tutto un ritorno al mito classico, a Omero. Per quanto riguarda il plot si tratta di un semplicissimo ritorno a casa da parte di un personaggio situato a metà tra il comico e il patetico. Il fatto stesso che Bloom alla fine di una giornata molto impegnativa torni a casa dalla moglie, pur sapendo che lei l’ha tradito alle quattro del pomeriggio, fa di lui la versione distorta di un Odisseo moderno, un Ulisse visto attraverso uno specchio incrinato, scriverebbe Joyce (Terrinoni 2012, 36), e prima di lui, Oscar Wilde (Wilde 1963, 376).

Ulysses è inoltre un ritorno in Irlanda da parte dell’esule Joyce, anche se, nonostante l’esilio autoimposto, possiamo sicuramente affermare che lo scrittore di Dublino non ha mai davvero lasciato la sua terra, né col cuore né con la mente. Ma soprattutto, il libro è un ritorno alla vita reale, tramite l’estremizzazione di un realismo a tratti visionario e allucinato, un iperrealismo estremo, che mette una pietra sopra le illusioni e le disillusioni letterarie frammentarie del primo novecento. Tutto questo rende il viaggio immaginario di Ulisse anche un ritorno alla base di ogni tentativo letterario di ritrarre la vita concreta, registrando su carta minuto per minuto, secondo dopo secondo, tutto ciò che accade in un sol giorno per le strade di Dublino nella tarda primavera, in odor d’estate, del 1904.

Se il testo è, come credo, un grande libro di ritorni, sempre presente nel nostro immaginario, nella misura in cui, quando vi si accede da lettori, il rischio è che non se ne esca più, ci si chiede se vi sia una reale necessità, oggi, di ritornarvi, e soprattutto di ritornarvi in traduzione. Ritorno non significa solo tornare in un luogo in cui siamo già stati. Significa tornarvi con occhi nuovi, ri-visitare quei luoghi. E rivisitare gli spazi immaginari di Ulysses è una grande opportunità anche per tornare a noi stessi, alla nostra cultura, affrontare di nuovo e una volta per tutte le identità e le differenze che collegano indissolubilmente le nostre vite.

Ulysses è un libro che appartiene al passato, al presente e al futuro dell’immaginario del lettore moderno. È un libro scritto secondo Joyce come arrangiamento retrospettivo di eventi passati, e si ha sempre l’impressione di vivere in una sorta di presente, in cui futuro e passato ineluttabilmente si fondono per infine confondersi. È certamente un libro da rileggere, un testo a cui tornare, sempre con occhi nuovi. E parlando, appunto, di lettura, la traduzione non solo è una sorta di lettura ravvicinata, attenta ad ogni strato del linguaggio, ma nel suo essere “rilettura” diviene una sorta di riscrittura mentale, essendo in primo luogo sempre una forma di interpretazione. Ma tradurre è anche costruire ponti tra le comunità. Prestare la nostra voce ad autori del passato, rendere le loro parole comprensibili, in una lingua diversa, a una nuova diversa comunità di lettori: tutto ciò fa del traduttore un vero mediatore culturale.

Ora che le opere di Joyce sono libere da diritti e quindi più facilmente accessibili, c’è da immaginarsi che verranno probabilmente diffuse più liberamente rispetto al passato, il che si spera avrà come risultato non solo la loro democratizzazione, ma anche una pluralità di nuove letture provenienti da specialisti e, si spera, anche da lettori comuni. Tuttavia, una delle motivazioni per cui il capolavoro di Joyce è allo stesso tempo un’opera tra le più influenti e una tra le meno lette dai lettori di narrativa mainstream, è quella che mi piace chiamare la sua impressione di illeggibilità. La domanda è la seguente: si tratta di un’impressione che proviene da una risposta dei lettori al libro, o è stata creata artificialmente da interpreti privilegiati che vengono pagati per leggerlo e per raccontarci della sua grandezza apprezzabile solo da pochi?

Benché il testo sia difficile da avvicinare a cuor leggero, e senza un minimo di impegno, direi tuttavia che alcune tendenze di critica iper-specialista nel settore cosiddetto joyciano hanno indubbiamente allontanato negli anni il pubblico di lettori dal libro, piuttosto che avvicinarli alla grande saggezza presente nel testo. E invece bisognerebbe ricordare che una delle prime cose che Joyce fece, quando il testo fu pubblicato, nel 1921, fu regalarne una copia a François, il suo cameriere preferito al ristorante Fouton di Parigi, e non a un accademico della Sorbona. E a chi si recò da Joyce esclusivamente per incontrarlo e «baciare la mano che aveva scritto Ulisse», lo scrittore rispose: «per carità, questa mano ha fatto anche tante altre cose» (Kiberd 2009, 10).

Dal momento che Ulysses ha circolato ovviamente in molti paesi, soprattutto attraverso le sue traduzioni, ci si chiede se e in quali modi può un traduttore essere autorizzato oggi a tentare un’operazione di democratizzazione del testo. Per quanto riguarda il tradurre opere di questa complessità, è importante capire come sia possibile riscrivere davvero un capolavoro la cui polisemia investe più livelli di senso e al tempo stesso mantenere il suo messaggio di un umanesimo universale e democratico. Come si può cercare di tradurre un testo che è divenuto negli anni una chiave per la comprensione della nostra variegata natura umana, senza mettere troppo di sé e del proprio innato narcisismo nel testo di arrivo?

E poi, gli specialisti ci assicurano che Ulysses è un libro divertente, e lo riteneva un testo comico anche Joyce stesso – come sappiamo da una intervista rilasciata a Djuna Barnes per Vanity Fair qualche mese dopo la pubblicazione (Barnes 1922, 65). [Curiosamente, la stessa rivista, in versione stavolta italiana, ha rilevato che nella mia traduzione, rispetto a quella storica di De Angelis, il numero delle parolacce è raddoppiato! (Soave 2012, 161)]. Ulysses è certamente, e in primo luogo, un testo comico, ma la sua comicità è a scoppio ritardato, la si capisce solo in un secondo momento, quando ci riflettiamo su. È una comicità carsica, corrosiva, che una volta compresa non ci abbandona più. Pensate alle scene del “Cimitero”, in cui l’ebreo Bloom si prende gioco del rito cattolico sfiorando tutta una serie di tabù in maniera assolutamente ironica – forse al limite dell’offensivo per il lettore credente (Terrinoni 2011).

Tuttavia questa comicità si scontra, come dicevo, con la difficoltà testuale. La difficoltà di Ulysses, secondo Declan Kiberd – curatore dell’edizione Penguin, e mio professore durante gli anni di Dublino – non si basa su snobismo, ma sul desiderio di un artista radicale di sfuggire alle reti del mercato. Il critico sostiene inoltre che chiunque legga Ulysses potrebbe essere un esperto, almeno nel senso che chiunque presenzi a un evento sportivo si sente in diritto di avere un parere valido su ciò che traspare (Kiberd 2009, 25).

In questo momento storico, quando le opere di Joyce hanno la possibilità di circolare più facilmente, intellettuali e operatori culturali, tra cui ovviamente includo gli editori, hanno la grande opportunità di rispondere a questo appello di democrazia lanciato dall’Ulysses di Joyce, un testo nato per emancipare la propria gente dal giogo mortale dell’oppressione politico-coloniale britannica e da quello spirituale della Chiesa Cattolica Romana, per dirla con le parole del suo autore. Ulysses avrebbe dovuto liberare i suoi lettori dalle ipocrisie di un’era e di una società ancora troppo influenzata da una serie di valori che Joyce considerava catene morali. Riecheggiando Marx ed Engels, i suoi lettori non avrebbero avuto niente da perdere se non le proprie catene.

Dopo questo prolisso excursus, in cui ho tentato di collocare culturalmente, storicamente, e se vogliamo politicamente l’operazione di una riproposizione, o meglio, di un ritorno a Ulysses oggi, credo che si possa passare finalmente alla questione più interessante, ovvero come ho provato ad affrontarne la traduzione.

Nel riscrivere un testo mantenendone intatta quella che ho definito la sua apertura e ambiguità, caratteristiche che lo rendono universale e quasi a-storico pur nella sua profonda storicità, c’è bisogno di adottare una molteplicità di approcci che possono alla fine produrre risultati assai distanti da quanto il mercato della traduzione sembra richiedere. I recensori fino ad ora sono stati concordi nel ritenere la mia traduzione più popolare, meno arcaicizzante, e meno aulica, s’è detto, della precedente. In più si è sottolineata la comicità di questa nuova versione – che va di pari passo con la sua popolarizzazione – e si è scritto che il mio testo è attento alla cultura di origine, quella irlandese, e alla sua lingua: l’Irish English. Per quanto mi riguarda, credo che la pratica di tradurre Ulysses dimostri come l’unica traduzione possibile di un testo aperto sia una traduzione aperta, sempre in equilibrio tra fluidità testuale e interpretazioni mutevoli.

Ulysses, se mi è permesso l’aggettivo, è un testo “plurale”, plurale come l’universo, secondo il poeta portoghese Fernando Pessoa (1966, 64). Ed è ancor più plurale quando viene tradotto. È plurale, nel senso che intendeva Borges quando suggerì che un testo originale a volte può essere infedele rispetto alla sua traduzione (Waisman 2005, 13). Vorrei allora discutere alcuni brevi passaggi del libro e le scelte da me operate all’interno di questa strategia plastica e inclusiva, sempre consapevole della mutevolezza proteiforme del linguaggio joyciano, e mirando immancabilmente alla creazione di una resa testuale che dovrebbe essere quanto più aperta, ambigua, transitoria e instabile possibile.

Il primo esempio è l’incipit del libro: Stately, plump Buck Mulligan (Joyce 2000, 76). A differenza della versione di De Angelis (1999, 5) – «Solenne e paffuto» – e dell’«Imponente e grassoccio» di quella in progress di Celati (2012, 25), di cui sono usciti stralci in anteprima sul «Sole 24 Ore» lo scorso agosto, io individuo in questo incipit un paradigma testuale importantissimo in Ulysses, ovvero il parallelo shakespeariano, e per questo traduco: «Statuario, il pingue Buck Mulligan» (Terrinoni 2012, 33). Le differenze, in apparenza minime, tra le varie versioni, sono invece fondamentali, e direi, strutturali. Per spiegare la mia scelta, radicalmente diversa dalle altre due versioni, c’è bisogno di considerare che in Ulysses siamo abituati a vedere Stephen paragonato ad Amleto, ma una sua lettura alternativa, o meglio, parallela, non può mancare di osservare come il libro si faccia letteralmente conoscere ai suoi lettori con un altro confronto, forse anche più rivelatore, ovvero quello tra Buck Mulligan e Falstaff. La spiegazione è da ricercarsi nella prima parte di Henry IV, in cui il grasso cavaliere si riferisce al principe Hal dicendo: banish plump Jack and banish all the world (Shakespeare 1996, 431). Il plump Buck di Joyce è una versione moderna del plump Jack di Shakespeare, ovvero Falstaff stesso. L’allusione shakespeariana aiuta a connotare il personaggio inserendolo in un contesto di riferimenti alle opere di Shakespeare che si andrà gradualmente a delineare con sempre più precisione nel testo. Più nello specifico, Buck Mulligan viene nel libro presentato a più riprese come un buffone, un clown, un fool, un jester, persino nel vestire, e anche se il personaggio di Falstaff non può esser definito tale, va tenuto presente che il suo ruolo fu molto probabilmente – secondo innumerevoli critici – scritto da Shakespeare per quello stesso attore che interpretò tutti i maggiori fool dei suoi primi play, ovvero l’attore comico Will Kempe. Non è un caso, infatti, che nel nono episodio di Ulysses, in cui Falstaff viene citato esplicitamente, di Mulligan si dirà che è «un buffone d’un giullare» dal cranio «ben pettinato» (Terrinoni 2012, 227) – in inglese wellkempt (Will Kempe?). Riguardo poi al ritmo dell’attacco, si è scelto di mantenere la fondamentale pausa segnalata in inglese dalla virgola – originariamente scelta anche da De Angelis, ma poi sostituita con una congiunzione nelle versioni più recenti. Tale posizione della virgola può segnalare, in inglese, la presenza di avverbi collocati in positio princeps. Va considerato, infatti, che stately può avere sia funzione aggettivale sia avverbiale. Benché nella mia versione si sia apparentemente optato per l’aggettivo qualificativo, questo in tale posizione permette comunque di rispettare il fenomeno grammaticale di scambio (enallage) con cui pare sussumere una funzione avverbiale, potenziandone al contempo l’efficacia predicativa.

Il secondo esempio è tratto dal quarto episodio ed è una frase grammaticalmente sconnessa di Molly: It must have fell down (Joyce 2000, 145). Qui, nell’inglese, abbiamo un “errore volontario”, e prima di tradurlo faremmo bene a tener presente l’ammonimento di Stephen Dedalus nel nono episodio di Ulysses, là dove dichiara: «Un uomo di genio non commette sbagli. I suoi errori sono volontari e sono i portali della scoperta» (Terrinoni 2012, 205). La traduzione De Angelis, come anche quella di Celati stando alle bozze pubblicate sul «Sole», decidono di non riprodurre questo “errore blando”, rendendolo in italiano corretto – De Angelis (1999, 88): «Dev’essere cascato»; Celati (2012, 25): «Dev’esser caduto». Al contrario, io ho ritenuto, come molti colleghi stranieri, di dover ricreare un qualcosa di stonato nella versione italiana, proprio poiché gli “errori” in Ulysses hanno una portata rivelatrice. Talvolta infatti, in Ulysses, l’ambiguità è affidata appunto ad apparenti errori, sviste, o stranezze grammaticali. Molly in inglese avrebbe dovuto dire «it must have fallen down». Trattasi di errore abbastanza comune anche tra i parlanti di lingua inglese, come dimostrerà una banalissima ricerca mirata su Google. Ora, il problema nella riproduzione degli errori risiede nello status per certi versi differente che questi hanno in italiano e in inglese. Nella nostra lingua spesso gli errori grammaticali hanno uno status molto più marcato rispetto all’inglese, e bisogna stare attenti a non dare l’impressione che chi parla sia, per così dire, un analfabeta. C’era in questo caso bisogno di un “errore blando”, e la mia scelta – «avrà cascato» (Terrinoni 2012, 89) – tenta di ottenere questo effetto traslando la svista grammaticale, chiaramente grave, sulla scelta dell’ausiliare “avere” anziché “essere” – come vuole il predicato intransitivo – ma mitigando questa scelta con la soluzione “colloquiale” per to fall, ovvero ‘cascare’ – in luogo del più canonico ‘cadere’, certamente più marcato. In questo modo, credo, viene a riprodursi un errore che però non ha lo status di gravità che avrebbe avuto, che so, un «avrà caduto». Ma questa, forse, è una questione di gusti.

Il terzo esempio è probabilmente uno dei luoghi più complicati da comprendere per il lettore di Ulysses, e di riflesso uno dei più difficili da tradurre per via delle sue molteplici allusioni: Sardines on the shelves. Almost taste them by looking. Sandwich? Ham and his descendants mustered and bred there (Joyce 1992, 278). Siamo nell’ottavo episodio, e Bloom è affamato di fronte a una vetrina piena di pietanze. De Angelis coglie soltanto alcune delle allusioni presenti, e riproduce un testo che è solo in parte comprensibile, proprio perché è solo in parte compreso. Ma c’è da credere che la colpa in questo caso non vada ascritta al traduttore o ai suoi revisori; o meglio: c’è da riconoscere che se traduzioni successive hanno colto più significati, ciò è spesso dovuto alle scoperte della critica joyciana, che negli anni hanno permesso di chiarire luoghi in precedenza poco limpidi. In questo caso la soluzione del dilemma la fornisce un libro di note a Ulysses pubblicato dopo la primissima traduzione De Angelis, ma ovviamente prima della mia e di quella di Gianni Celati (Gifford 1988, 179). Eccovi la versione Mondadori: «Sardine sugli scaffali. Sembra di sentire il sapore a guardarle. Un tramezzino? Prosciutto e sua progenie panati e senapati qui» (De Angelis 1999, 234). Il tutto, nell’originale, gravita intorno alla confusione ingenerata dal termine Ham, che in inglese indica sia il prosciutto cotto sia il figlio di Noè che noi chiamiamo Cam. La soluzione generale del dilemma va ricercata in una filastrocca americana che recita: Why should no man starve on the desert of Arabia? Because of the sand which is there. How came the sandwiches there? The tribe of Ham was bred there and mustered. (Gifford 1988, 179). I pun riguardano, quindi, la tribù di Cam, il prosciutto cotto, il sandwich, la sabbia, il pane, la mostarda, i verbi allevare e radunare, e chi più ne ha più ne metta. Eccovi dunque la mia traduzione: «Sardine in mostra. A guardarle si sente quasi il sapore. Sandwich? Insacco e i suoi discendenti ammastardati e allievitati lì» (Terrinoni 2012, 187). In soldoni, ho tentato di riprodurre al meglio il subdolo termine Ham con una invenzione che si discosta dal testo ma ne mantiene, credo, la polisemia, e anche i campi semantici, seppure con qualche lieve traslazione. Il mio ‘Insacco’, rimanda infatti, anziché al figlio di Noè e al prosciutto, al figlio di Abramo, appunto Isacco, e al mondo degli insaccati (spero che sia i biblisti sia i salumieri mi scusino). Il resto del passo è un gioco sui termini “ammassare” e “mostarda”, e “allevare” e “lievitare”, che rimandano sì ai campi semantici di partenza (mustered: mustard, passato di to muster; bred: bread, passato di to breed), ma creano degli ibridi in italiano. Tuttavia, mi sembrano sicuramente riconoscibili – benché, c’è da ammetterlo, appaiano assai meno naturali dell’originale, in cui i significati confluiscono senza ostacoli nei termini utilizzati senza apparire forzati.

Il quarto e penultimo esempio è forse la crux principale di Ulysses. I critici si sono spesi, e si spendono tuttora moltissimo, per chiarirne i mille rimandi (Gifford 1988, 163). Il dilemma è il seguente: U.P.: up (Joyce 2000, 262). Si tratta di un biglietto recapitato a Denis Breen da non si sa chi e per il quale il destinatario si adira talmente da voler sporgere denuncia contro anonimi. È quindi certamente un insulto, e anche grave. La traduzione De Angelis in questo caso è un po’ deludente perché non formula soluzioni, traducendo letteralmente con: «S.U.: su» (Joyce 1999, 215). Io sono partito da un ragionamento di tipo storico-politico-culturale e ho tradotto: «P.U.: pu» (Terrinoni 2012, 175), riservandomi, però di fornire una spiegazione completa dell’enigma in nota. La mia versione segue l’interpretazione che vuole l’originale UP essere la sigla del movimento religioso dei Presbiteriani Uniti (UP: United Presbyterian), uso registrato nell’Oxford Dictionary of English. La spiegazione del perché questa etichetta risulti offensiva per un cattolico risiede in un uso del tutto particolare e tipico di Dublino, secondo cui persino la parola protestant può essere usata anche in senso spregiativo – più o meno come accade a Roma con l’aggettivo “laziale”. In Irlanda, soprattutto nel Nord, la maggioranza dei protestanti sono presbiteriani, discendenti dei coloni scozzesi a cui sono state assegnate le terre irlandesi durante le varie fasi della colonizzazione britannica.

La mia soluzione consente, inoltre, di far slittare l’insulto anche sul piano scatologico (“pupù”), oltre a indicare, tramite percorsi onomatopeici, l’atto stesso di insultare una persona non a parole, ma a gesti, simulando l’atto dello sputo «pu!». Anche in questo caso la traduzione da un lato (secondo e terzo significato) si discosta molto dall’originale, mentre dall’altro (primo caso), si avvicina a uno dei possibili significati del testo. Va da sé che in circostanze del genere, le soluzioni possono essere multiple – come dimostrano le traduzioni in tante lingue. L’importante è inseguire un effetto, e questo ho provato a fare con la mia scelta.

Vorrei in conclusione parlare brevemente del monologo di Molly, la parte del testo che, in virtù della grafia del tutto inventata che, insieme al revisore Carlo Bigazzi, ho scelto di utilizzare, risulta certamente il più “defamiliarizzante”, nel senso che intendeva Boris Tomaševskij (1925) per defamiliarizzazione. Nel tradurre il monologo di Molly, la prima domanda che mi sono posto è stata se Joyce intendesse o meno il suo monologo finale in termini di defamiliarizzazione, ovvero, se volesse o no scioccare il lettore non soltanto dal punto di vista contenutistico e della tecnica letteraria associativa, ma anche dal punto di vista visivo e grafico, abolendo, come fa, non solo l’interpunzione, ma anche gli apostrofi. La mia risposta è stata «sì» – e si è trattato di un «sì» simile a quello che conclude il magistrale monologo. Joyce voleva scioccare i suoi lettori a tutti i livelli, e la mia scelta ortografica va nella stessa direzione, mirando a riprodurre effetti defamiliarizzanti simili a quelli dell’originale. Abbiamo, dunque, certamente osato molto sia dal punto di vista grafico che grammaticale, reinventando nuove ortografie, forzando la sintassi, e così via. Si tratta di ricreazioni rischiose, ma giustificate anche dal fatto che “Penelope” è per certi versi un testo orale e non risponde alle usuali regole della scrittura, grafia inclusa. Nel monologo finale, lo status dell’inglese letterario si disfa nei meandri mentali di Molly Bloom. Il suo modo di parlare, il suo idioletto, diremmo, è di per sé un nuovo linguaggio basato più sulla lingua orale che su quella scritta. Tutto ciò mi ha convinto a optare per scelte estreme su diversi livelli: tipografico, lessicale, sintattico e, infine, musicale, per rispondere allo stile orale del capitolo. Tali scelte estreme producono certamente un testo molto straniante per il lettore italiano. Si tratta di un effetto, come ho detto, che trovo appropriato allo stile dell’originale “Penelope”, la conclusione finale di un racconto che sconvolge le strutture della lingua inglese e mina la stabilità delle nostre stesse aspettative letterarie.

L’eloquio di Molly aspira alla condizione dell’oralità, libero com’è dalle restrizioni della scrittura come noi le conosciamo. Quelli che nell’originale sembrano veri e propri errori ortografici, sono spesso tentativi di rincorrere la velocità non scritta del pensiero, segnalata principalmente appunto dalla mancanza di apostrofi. Nella mia traduzione italiana ho mantenuto l’assenza di apostrofi dell’originale, finendo per produrre effetti simili rispetto al testo di Joyce. Il tentativo di riprodurre in italiano la stessa velocità tramite l’assenza di apostrofi, ha costretto, quindi, alla creazione di nuove parole tramite fusione. Si tratta di parole ricreate, o meglio inventate, alcune delle quali suggeriscono nuovi significati, come «danni» al posto di «d’anni», oppure «cera» invece di «c’era», che mi sembrano parallele ai vari hell/he’ll, e wed/we’d dell’inglese.

Talvolta, poi, sono stati aggiunti inusuali accenti, atti a scandire il ritmo serratissimo della narrazione, ma anche a segnalare gli allofoni. Eccone un esempio:

sì e tutte quelle stradine strane e le case rosa e blu e gialle e i giardini delle rose e il gelsomino e i gerani e i cactus e Gibilterra da ragazza dove ero un Fiore di montagna sì quando mi sono messa la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o dovrei portarla rossa sì e come mà baciato sotto le mura moresche e ò pensato bè lui o un altro che cambia e poi gliò chiesto con gli occhi di chiederlo ancora sì e poi me là chiesto se volevo sì dire sì mio fiore di montagna e prima lò abbracciato sì e lò fatto stendere su di me per fargli sentire i miei seni tutti profumati sì e il suo cuore che impazziva e sì ò detto sì lo voglio Sì. (Terrinoni 2012, 741)

Diversi critici hanno apprezzato i rischi di questa riscrittura azzardata e ai limiti dell’italiano, giustificata, credo, dalla “tecnica trascendentale” di Joyce stesso – per usare un paragone musicale lievemente oscuro. Qualcuno si è proclamato irritato. È stato in un caso obbiettato che la scelta di riprodurre le forme dell’indicativo presente del verbo avere senza le h etimologiche è ingiustificata. Altri hanno detto che sono retaggi delle avanguardie. Mi ha stupito che nessuno abbia notato come le strane grafie adottate nel monologo, oltre a trovarle nei vari Dossi, Govoni, Palazzeschi, erano forme normalmente utilizzate, ad esempio, nelle lettere degli emigranti che scrivevano alle loro famiglie in Italia. Inoltre, secondo la grammatica della lingua italiana di Luca Serianni, «oggi appaiono grafie non certo erronee, ma di uso raro e di tono popolare» (cfr. Accademia della Crusca 2002). Queste forme grafiche poi, soprattutto in letteratura, venivano normalizzate da molti editori. Riflettevano tuttavia una “popolarità” del linguaggio del tutto peculiare e preziosa, ed è proprio con questo eloquio popolare che ho deciso di fare il mio elogio alla popolarità di Molly.

Nei fatti, la “a-grammaticalità” della “mia” Molly può, sì, suonare molto defamiliarizzante, soprattutto alla luce del fatto che sia la Molly della «traduzione autorizzata» che quella di Celati, stando ancora alle bozze divulgate, hanno sicuramente un eloquio più raffinato e ripulito. C’è da chiedersi quale fosse allora l’eloquio di Molly in Ulysses: popolare o più raffinato? Ad esempio, di recente un blog letterario (http://ilibrintesta.wordpress.com/2012/01/22/un-nuovo-ulisse-in-italiano/, 22 gennaio 2012) ha fatto notare che, riguardo all’episodio finale, la «traduzione autorizzata» ingentilisce l’espressione his lovely young cock there so simply, che diviene «l’uccellino così innocente», mentre io sarei apparentemente più diretto avendo tradotto: «quel suo bel cazzo giovane così naturale» (vedi blog: I libri in testa). Ora, qualunque traduttore dall’inglese sa che « cock è, tra i sinonimi gergali di ‘pene’, forse il più volgare, come nell’espressione cock-sucker, ad esempio. Il fatto che Molly usi questo termine, e non stia pensando a un “uccellino”, la dice lunga su quale fosse il suo eloquio.

In conclusione, in una traduzione accettabile di Ulysses si deve, a mio parere, lasciare l’ultima parola al lettore, e credo che una versione improntata alla riproduzione dell’ambiguità, nel senso che William Empson dà a questo concetto, aiuti i lettori a formarsi una propria opinione e a diventare a loro volta degli esperti. Ritradurre un “testo aperto” non significa solo cambiarne la natura, trasformandola in qualcosa d’altro, ma è anche un modo per rimodellare la nostra percezione del mondo possibile creato dal libro, in letture e traduzioni precedenti. Tradurre l’intraducibile è un tentativo di localizzare e identificare il profilo sfumato di nuove identità. Per usare strumentalmente la celebre metafora di Stephen Dedalus in “Nestor”, il secondo episodio di Ulysses, ritengo che tradurre sia come sostare su un “molo”, ovvero su un «ponte in disappunto» (Terrinoni 2012, 53) e gettare un occhio a lidi lontani al fine di immaginare incontri possibili, per poi attendere nuovi scambi sociali e comunicativi con quell’Altro di cui non sappiamo nulla, per dirla con Amleto.

Direi che una buona traduzione deve essere al tempo stesso flessibile e inflessibile, diventando così infedelmente fedele. Ciò permette di mediare tra culture e comunità di parlanti per oltrepassare i limiti narcisistici dell’individualità, nel tentativo di raggiungere nuovi orizzonti culturali e letterari. Solo quando la traduzione raggiungerà lo stato della comunicazione, cioè quando la sua funzione comunicativa verrà finalmente a realizzarsi, quel ponte in disappunto toccherà, nell’immaginario collettivo, l’altra sponda.

Bibliografia

Accademia della Crusca 2002: http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=4275&ctg_id=44

Barnes 1922: Djuna Barnes, James Joyce, in «Vanity Fair», March 1922

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