Poesia, Economia, Editoria e altre rime tempestose

UN NUMERO MONOGRAFICO SULLA TRADUZIONE DI POESIA IN ITALIA
A CURA DI FRANCO NASI

POESIA, ECONOMIANon molto tempo fa, ad un convegno sulla traduzione, una giovane traduttrice e consulente editoriale, con buona esperienza e solida reputazione, all’interno di un discorso articolato e pieno di buon senso pratico, aveva detto che un libro di narrativa non vende di più o di meno se la traduzione è più o meno buona. La bontà della traduzione, a suo dire, è una variabile che incide poco sulle vendite. Contano di più il nome dell’autore, la capacità che una copertina ha di attrarre l’attenzione dell’acquirente, la distribuzione capillare, un passaggio televisivo dello scrittore ecc. Aveva aggiunto anche che, visti i tempi spesso impossibili e le tariffe inqualificabili imposte da certi editori, non valeva la pena di perdere le notti su certi passi o certe parole difficili. In fondo una parola in meno in un romanzo non è così determinante, e non è neppure gravissimo dimenticarsi di tradurre una frase complicata.

Mentre la giovane traduttrice e consulente editoriale scandiva il suo discorso con il piglio sicuro e deciso di chi ha le idee chiare, ho pensato che in effetti spesso compriamo a scatola chiusa. Acquistare libri tradotti, non si sa quanto bene, è un po’ come scegliere una confezione di marmellata negli scaffali di un negozio. Se ci si fida dell’aspetto artigianale della confezione, dei colori pastello dell’etichetta, del nome della ditta, magari si pensa di aver scelto una marmellata bio. Se poi, a casa, leggendo con attenzione, si scopre che non lo è, ci si rimane male, anche se la confettura non è tossica e, alla fine, forse, non fa nemmeno troppo male.

Poco dopo la conferenza, per caso, mi sono imbattuto in una lettera che Leone Ginzburg scrive a Giulio Einaudi il 27 ottobre 1941. Nella lettera si parla proprio del rapporto qualità della traduzione-vendite del libro. L’editore poco prima aveva scritto spazientito a Ginzburg perché questi ritardava la consegna della versione di Guerra e pace. E lo minacciava dicendogli che se entro una settimana il testo non fosse stato inviato, si sarebbe andati in stampa senza l’ultima revisione del traduttore. La risposta di Ginzburg è da manuale:

Voi vi proponete di stampare senza che io le veda delle bozze in cui ci sono, per nomi geografici o per termini tecnici, varie espressioni in sospeso; per di più, volete che io non rilegga neppure un lavoro, certo fatto con grande coscienza e migliorato considerevolmente, ma pur sempre soggetto a distrazioni (parole omesse ecc.) che Voi non potreste riparare. Voi mi minacciate di continuare la composizione su un testo non rivisto da me. La minaccia la fate a Voi stessi. Non crediate che le Vostre edizioni si vendano perché lo struzzo è simpatico alla gente: si vendono perché sono accurate e leggibili; quando ci siano libri mezzi corretti e mezzi scorretti, quando il rispetto del lettore verrà meno, il lettore Vi abbandonerà. (Ginzburg 2004, 92)

Antonio Scurati, ne Il tempo migliore della nostra vita, commenta questa lettera sottolineando come qui, per Ginzburg, ci fosse in gioco non solo il successo economico di una casa editrice, ma qualcosa di assai più profondo: «La dignità di ogni singolo libro diventa per Ginzburg la dignità della cultura, la difesa del testo quella dell’uomo» (Scurati 2015, 145). In questo «uomo» mi piace vedere non solo il traduttore o la traduttrice, ma anche l’autore o l’autrice tradotti.

In un mercato frenetico come quello odierno, dove i libri restano nelle librerie sempre di meno e sono trattati alla stregua di vasetti di marmellata industriale, le preoccupazioni di Ginzburg sembrano provenire da un passato rurale, inattuale, in gran parte sotterrato o, nella migliore delle ipotesi, sotto traccia o underground. Tuttavia c’è un piccolo settore del mercato editoriale, il cui apporto al fatturato globale delle case editrici è quasi irrilevante, in cui sembra che a dettare il ritmo di produzione siano ancora i tempi artigianali del “fatto in casa”. Mi riferisco ai libri di poesia e alle loro traduzioni, che costituiscono l’oggetto di questo numero monografico della rivista.

In una grande libreria lo spazio occupato dai libri di poesia sembra proporzionale alla quota di mercato che questi prodotti hanno. Secondo le statistiche 2015 dell’Istat (che coprono gli anni 2013-14), in Italia sono pubblicati 61.966 titoli all’anno. Di questi 2.014 titoli (3,3% del totale) sono di poesia e teatro (rubricate purtroppo insieme), con una tiratura media di 904 copie a titolo (0,5% del tirato totale) (Istat 2015). Questo significa che se nelle librerie troviamo, quando va bene, un piccolo stand con due, tre metri lineari di libri di poesia, non abbiamo altro che una rispettosa proporzione dello spazio che questo genere occupa nel mercato editoriale e nell’economia degli imprenditori.

A guardare questi dati viene un po’ di tristezza e di malinconia, ancor più accentuata dalla consapevolezza che tutto si potrebbe risolvere facilmente seguendo il consiglio di Alessandro Carrera che, in un libretto frizzante sin dal titolo (I poeti sono impossibili. Come fare il poeta senza diventare insopportabile), scrive: «Se tutti quelli che si lamentano che nessuno legge poesia comprassero almeno un libro al mese, la crisi dell’editoria di poesia sarebbe finita. E se poi lo leggessero, sarebbe finita anche la crisi della poesia» (Carrera 2016, 79).

Ma il rovescio della medaglia può mostrare altro: proprio perché il mercato è così disinteressato a questo genere, mentre è attentissimo alle biografie delle icone pop di turno o ai libri di cucina, la poesia può vivere in una sorta di mondo a sé, dove i tempi sono quelli più umani, dove il best seller quasi non esiste, e dove le traduzioni, perché in genere fatte più per passione e amore del testo da tradurre che per il vantaggio economico, si preoccupano della «dignità del singolo libro», che è certo dignità della cultura e degli attori coinvolti, uomini e donne, traduttori e tradotti.

Oltre a questa marginalità economica, la traduzione della poesia ha un paio di anticorpi che fungono da antidoto alle irriverenze del mercato usa e getta: uno è esterno ed è il testo a fronte, l’altro è interno ed ha a che fare con la natura stessa della poesia.

Il testo a fronte entra sempre più come consuetudine editoriale in Italia a partire dalla prima metà del Novecento, prima con Sansoni e poi, dagli anni quaranta, con la collana «Fenice» di Guanda, come mostra Giulia Iannuzzi nel suo saggio qui proposto sull’editoria. Se è veicolo per la conoscenza delle specificità del testo fonte, funge anche, in qualche modo, da freno inibitorio per il traduttore. Per sua essenza, l’atto traduttivo non può che essere un allontanamento dal testo di partenza, se non lo fosse non potrebbe essere che mera copia o duplicazione, e quindi non certo una traduzione; ma sapere che il lettore può facilmente controllare in che direzione questo allontanamento è avvenuto, secondo quale coerenza stilistica, semantica, metrica, ritmica è stato redatto il nuovo testo, può essere una sollecitazione indiretta a un rigore e a una coerenza traduttiva. Nessuno pretende che una traduzione poetica sia fedele (questo termine ormai è giustamente bandito da ogni discorso critico minimamente serio sulla traduzione), ma è ragionevole pretendere che sia almeno rispettosa del testo di partenza e coerente con un progetto traduttivo consapevole.

L’altro antidoto è interno, ed è peculiare a questo genere letterario. Lasciare fuori una parola in una poesia, come forse, secondo alcuni, potrebbe succedere invece in un romanzo, è impensabile. La poesia vive della relazione essenziale fra ogni suono, ogni sillaba (e non solo nelle poesie a forma chiusa naturalmente): togliete «chiara» a «Dolce e chiara è la notte e senza vento» e il lento fluire dell’endecasillabo si inceppa, e con lui la meditativa quiete della sera, e l’allusione a una tradizione poetica, e in definitiva la poesia. Così Valerio Magrelli ci racconta nel suo intervento lo sforzo traduttivo per tenere insieme in un nuovo testo quei legami indissolubili e a volte del tutto arbitrari che si stabiliscono fra senso e suono in una rima del testo fonte, nel caso in esame una quartina giocosa di Yves Bonnefoy. Ma ogni lingua e ogni cultura letteraria trova modalità differenti per cucire quella trama di rimandi interni che rendono la poesia un particolarissimo insieme compatto e organico. Claudia Pozzana, ad esempio, analizzando i problemi che si incontrano quando si traduce la poesia cinese in italiano, indica come non solo le relazioni fonetiche, ma anche le parti che compongono i vari ideogrammi vadano a costituire sensi e connotazioni imprevisti, impensabili in una lingua come l’italiano. Rima, metro, figure fonetiche, ideogrammi, disposizione delle lettere sulla pagina, allusioni, ambiguità, tutte insieme danno vita alla poesia che vive proprio di questa fitta rete di complicità. Difficilmente una traduzione potrà riformulare questo intreccio di relazioni, e tuttavia nessuna traduzione potrà a cuor leggerlo trascurarlo.

Per tradurre la poesia, forse in misura maggiore rispetto ad ogni altro genere letterario, sono necessarie la pazienza e la precisione di un chirurgo, che sa bene che trascurare anche solo una piccola vena può causare la morte, ma nello stesso tempo è necessaria anche la temerarietà di chi sa che, come diceva Calvino, la traduzione è una sorta di «miracolo» (Calvino 1982, 1826-7) che può appunto rimettere in vita un testo, che senza traduzione sarebbe morto per chi non conosce la lingua e la cultura in cui quel testo è stato pronunciato.

Ma l’obiettivo di questo numero di «tradurre» non è tanto quello di entrare nel merito della riflessione su che cosa è la traduzione, o su come si può tradurre, o sui modi in cui si è tradotto nella storia. Ci sono state e ci sono per questo riviste specialistiche e pubblicazioni autorevoli che hanno raccolto studi e contributi fondamentali. Ci è parso che mancasse invece nell’attuale dibattito attorno alla traduzione della poesia un discorso critico, sostanziato da qualche rilievo il più possibile sistematico, anche se certo non esaustivo, sul rapporto tra editoria e poesia straniera in traduzione relativamente soprattutto agli ultimi decenni. Così, dopo un primo intervento propiziatorio, in cui Valerio Magrelli, come in una sorta di iniziazione, ci accoglie nel suo laboratorio traduttologico, la rivista si occupa, in una prima parte, del mondo editoriale, ripercorrendo con Giulia Iannuzzi le vicende delle collane di poesia in traduzione nell’editoria italiana del Novecento e raccontando con Mario Marchetti il piccolo scaffale di poesia straniera, con gli autori “canonici” presenti nella formazione di molti italiani. Accanto a questi saggi, due interviste a due importanti traduttori, studiosi e “protettori” della poesia in traduzione come Franco Buffoni (intervista rilasciata il 17 luglio 2015) e Nicola Crocetti (27 settembre 2015), che con le riviste da loro dirette, rispettivamente «Testo a fronte» e «Poesia», non solo hanno offerto ai lettori italiani la possibilità di conoscere e leggere centinaia di poeti stranieri, ma sono stati capaci di creare e mantenere attivi per più di venticinque anni due strumenti essenziali sia per la teoria della traduzione sia per la divulgazione della poesia. A queste testimonianze si aggiunge quella di Fabrizio Dall’Aglio, poeta e redattore della casa editrice Passigli, che assieme a diverse altre realtà appartenenti a quella che si usa chiamare piccola editoria di qualità hanno fatto e fanno moltissimo per la sopravvivenza e la qualità della poesia. Avremmo voluto inserire anche una riflessione articolata del direttore editoriale di una grande casa editrice, ma forse per imperizia nostra o forse perché in effetti anche il tempo che possono dedicare a un segmento così marginale del loro mercato è marginale, non siamo riusciti ad averla.

Se con tutti questi interventi si è cercato di ricostruire un panorama generale, con un secondo gruppo di saggi si è cercato di scandagliare in modo più dettagliato la situazione seguendo specificamente alcune letterature. Si è chiesto a traduttori e studiosi delle diverse letterature di ricostruire un quadro di quanto è stato tradotto e delle case editrici che si sono occupate di quella particolare letteratura, degli autori più frequentemente tradotti, di quelli esclusi o ignorati, dei traduttori, delle strategie più frequenti, delle difficoltà che un traduttore può incontrare affrontando lingue e culture a volte molto lontane. Così, ora, è possibile avere un’idea meno approssimativa, e per certi versi sorprendente, della quantità di traduzioni poetiche (antologie, ritraduzioni di classici, volumi di poeti “emergenti”) che sono disponibili, se non in libreria, di certo nelle biblioteche italiane. E questo grazie ai preziosi e generosi contributi di Massimo Bacigalupo per la poesia anglo-americana, Giulia Baselica (russa), Bruno Berni (danese e paesi scandinavi), Massimo Bonifazio (tedesca), Francesca Corrao (araba), Valerio Nardoni (spagnola), Claudia Pozzana (cinese), Roberto Merlo (romena), Jean Robaey (nederlandese), Fabio Scotto (francese), Andrea Sirotti (inglese).

Un terzo gruppo di interventi racconta invece, in prima persona, di esperienze particolari di traduzioni, come quella “estrema” di Bruno Berni, con la corona di sonetti di Inger Christensen, o quella dall’italiano al francese delle poesie di Tommaso Di Dio ad opera di Joëlle Gardes.

Chiude il numero una rassegna di recensioni di titoli usciti di recente sulla traduzione poetica con scritti di Francesco Fava, Sara Sullam, Franco Nasi, Ornella Tajani e Gianfranco Petrillo.

L’obiettivo, dunque, non è stato quello di fare il punto su che cosa è o, tanto meno, deve essere la traduzione della poesia. Ma piuttosto di vedere la traduzione della poesia da un altro punto di vista, quello della sua presenza nel mondo editoriale. Se è possibile trarre qualche conclusione da questa ampio scandaglio, verrebbe da dire che a fronte di tanta vitalità, un po’ clandestina, un po’ underground, forse c’è spazio ancora per qualche manufatto letterario che non sia di plastica, che rispetti la dignità del testo, del tradotto e del traduttore, e che segua i ritmi più intimi del fare. C’è spazio per un poiéin, un fare con le parole, che attraverso il pudore, che è rispetto e ammirazione dell’altro, sia un atto ecologico nei confronti di un mercato editoriale spesso cinico, e un atto di affetto e di attenzione per la nostra lingua e, perché no, per la nostra mente.

Riferimenti bibliografici

Calvino 1982: Italo Calvino, Tradurre è il vero modo di leggere un testo, in Saggi, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, pp. 1825-1831

Carrera 2016: I poeti sono impossibili. Come fare il poeta senza diventare insopportabile, Roma, Sossella

Ginzburg 2004: Leone Ginzburg, Lettere dal confino 1940-1943, a cura di Luisa Mangoni, Torino, Einaudi

Istat 2015: La produzione e la lettura dei libri in Italia, Periodi di riferimento anni 2013-15, http://www.istat.it/it/archivio/145294

Scurati 2015: Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita, Milano, Bompiani