Reminiscenze e borbottii / 13

Il vecchio lettore

Questa volta per prima cosa il vecchio lettore deve cospargersi il capo di cenere e chiedere umilmente scusa ai giovani e non giovani lettori. Nel penultimo numero di «tradurre» si è sbilanciato ad attribuire l’avverbio endecasillabico «precipitevolissimevolmente» niente di meno che a Dante Alighieri (sarebbe lui l’«esponente dell’avanguardia primotrecentesca» ecc.). Ha fatto cioè una cosa che un vecchio lettore ormai dovrebbe ritenere idiota: si è fidato della memoria, che gli ha fatto collocare in Malebolge ciò che invece gli deriva – ora meglio gli sovviene – da un’antica consuetudine infantile con il detto «chi troppo in alto sal cade sovente / precipitevolissimevolmente»; il quale, apprende ora con un anno di ritardo, compare invece in un poema di tal Andrea Agostino Casotti del 1734 (e Wikipedia attibuisce invece l’invenzione dell’avverbio a un certo secentesco Francesco Moneti). E lo apprende da un suo coetaneo! il quale, evidentemente, è molto più saggio di lui, ma per fortuna gli vuol bene e invece di sbertucciarlo pubblicamente lo ha affettuosamente avvisato: dovrebbe tenerla lui questa rubrichina! Il vecchio lettore deve ora augurarsi che questo incidente non gli faccia perdere quel po’ di stima con cui alcuni in questi anni l’hanno seguito.

Per concedere almeno un parziale perdono, chi legge si consoli qui con la storia di padre Moneti (1635-1712), astronomo, astrologo e poeta, che naturalmente il vecchio lettore deve all’amico coetaneo di cui sopra (e dove lui l’abbia presa qui conta poco; la voce relativa nel Dizionario biografico degli italiani, comunque, c’è): piuttosto celebre in vita, oltre che per i suoi versi satirici, soprattutto per la pubblicazione ogni anno, dal 1684 fino alla morte, di un almanacco astronomico-astrologico (Apocatastasi celeste), Francesco Moneti si rifiutava di viaggiare a cavallo o in carrozza perché aveva pronosticato a sé stesso una morte per caduta. Effettivamente caduta fu, ma da una scala.

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Tra fine Ottocento e inizi del Novecento si è definitivamente consumata la formazione umanistica di tipo enciclopedico, di cui era riflesso l’aspirazione dei filosofi a creare un “sistema” in cui si potesse trovare risposta a qualsiasi quesito si ponesse all’uomo. Ci si avviò allora alla definizione degli specialismi disciplinari, sanciti dalle relative cattedre universitarie, in cui costringere persone dai molteplici e vivi interessi ad aggirarsi, pressoché prigionieri, dentro quelle gabbie, rinunciando a ogni altra manifestazione dello spirito loro. Fu così che Pasquale Jannaccone smise di occuparsi di critica letteraria e Salvatore Cognetti de Martiis si ridusse a tradurre Plauto come hobby, l’uno e l’altro per dedicarsi con successo agli studi di economia politica.

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In questi mesi il covid-19 ha imposto spesso il ricorso all’espressione “da remoto”. Ovviamente si tratta di un calco, ma può apparire una riesumazione. Remoto è ormai termine desueto sia in senso fisico sia in senso cronologico. Nel primo caso riflesso del restringimento del globo e dell’ampliamento delle possibilità di comunicazione e di viaggio, interrotti ora ma non soppressi dalla pandemia, nel secondo riflesso della sempre più scarsa consuetudine col passato. L’uso linguistico è una spia delle modificazioni del sentire comune. S’è già detto della scomparsa del trapassato remoto. Ma sta scomparendo, appunto, anche il passato remoto, sostituito colloquialmente sempre più spesso anche al Sud, dove ha resistito più a lungo mentre al Nord è sparito da tempo, dal passato prossimo. Da più di un decennio, ormai, i giovani che devono scrivere di cose remote nel tempo si trovano in ambasce: il passato remoto è ormai desueto, il passato prossimo è ancora avvertito appunto come prossimo, inadatto al remoto. La via di fuga è il presente storico. Ahimè! Tempo difficilissimo da usare, atto alla esposizione giornalistica, immediata, poteva talvolta irrompere in una narrazione di fatti remoti come scatto di vivacità, per descrivere un episodio improvviso di breve durata, ma mal si presta alla rendicontazione distesa, lunga, non diciamo poi sintatticamente complessa, ché tale impresa è ormai sempre più rara. Ne scaturiscono immagini talvolta comiche, ma soprattutto il ricorso frequente, ridicolo e pressoché inevitabile, al futuro per dar conto di quanto accade successivamente al momento da cui inizia l’azione narrata, imprimendo così al racconto un carattere di meccanica predestinazione tanto involontaria per chi scrive quanto inavvertitamente angosciosa per chi legge.

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Quando si interroga Google in italiano circa una persona (quando si googla un nome, direbbe più sbrigativamente un anglofono), compare a destra una finestra che offre immediatamente i dati essenziali circa quella persona, primi fra tutti la data della nascita (il “lieto evento” per definizione, in barba al contino recanatese) e quella del «decesso». C’è da meditare su questo termine. Analoga è la risposta in francese (décès), spagnolo (fallecimiento) e portoghese (falecimento). Gli anglofoni vedono died, ossia «morì», i germanofoni gestorben, ossia «morto/a» (Anzi, la Wikipedia tedesca non manca mai di accompagnare il testo dei suoi biografati con l’immagine della loro tomba). È, in un certo senso l’ufficializzazione internazionale dello scaramantico interdetto diffuso tra i latini nei confronti delle parole “morte” e “morire” e “morto”, alle quali da noi si preferiscono termini meno espliciti e crudi: mancato, scomparso, deceduto e simili. Basta non nominarla e la morte, la mort, la muerte non esiste: semplicemente non c’è.

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Su un muro di Torino – e forse su più muri, e non solo a Torino – campeggia a caratteri cubitali la scritta «SALVINI FASCISTA… MUORI». Per il vecchio lettore è un atroce tuffo negli anni più bui vissuti dalla sua generazione dopo la guerra, gli anni in cui i muri erano costellati di scritte simili, accompagnate da disegni di spranghe, chiavi inglesi, mazze da baseball chiodate, pistole, mitra, PS=SS, OKKIO AL KRANIO…: una trista litania che sarebbe stata solo stucchevole se non avesse avuto riscontro concreto in sequestri, “gambizzazioni”, rapine, assassinii a sangue freddo. Fu un sollievo, quando, pressoché di colpo, col cosiddetto “riflusso” («Devo essermi perso il flusso», commentò il grande Cipputi), cominciarono a prevalere i cuori trafitti che annunciavano «Ale ti amo», «Tu e io una cosa sola», «Tu e io tre metri sopra il cielo», «PERDONAMI ROBE NON LO FARO MAI PIU» et similia, divenuti però presto anch’essi una litania, dolciastra questa, per fortuna incruenta, certo, ma altrettanto stucchevole.

In realtà quella sensazione di ritorno al passato è infondata. In quella scritta non c’è una minaccia di violenza, c’è un auspicio. E’ un malaugurio, un ricorso all’incantesimo, una formula magica, riflesso speculare dell’esorcizzazione della parola morte di cui s’è detto sopra. Nasce dalla inconsapevole speranza nella magia nutrita da una o più miti (se non negli stadi) generazioni formatesi con Harry Potter, sensibili alle ingiustizie e agli insulti alla natura e agli animali come agli esseri umani, ma restie all’iniziativa politica. Se l’iniziativa politica corrispondesse inevitabilmente alla violenza, dovremmo rallegrarcene; ma se questa rinuncia alla lotta sul campo democratico è di fatto supina rassegnazione allo status quo e incomprensione del fatto che dalla politica non si può prescindere e che gli auspici magici sono solo macabre parole al vento vanamente deturpanti i muri, allora bisogna allarmarsi.

Ma poi c’è un’altra differenza: Salvini non è fascista – etichetta abusata in quegli anni bui e oggi sempre meno pertinentemente ripetuta – perché il fascismo è passato, come lo sono il comunismo e il socialismo. La sua insidia, la sua minaccia è diversa, forse altrettanto pericolosa, certo altrettanto odiosa, ma non ha che alcuni attributi del fascismo. Foss’anche fascista Salvini, comunque, quella scritta rivela la pigra subalternità a uno schema idiota e, esso sì, con l’appello alla morte, sostanzialmente fascista. Il vero coraggio democratico dovrebbe dettare la spinta all’organizzazione per contrapporre alla minaccia salviniana la costruzione di un futuro diverso. Come alcuni giovani hanno del resto saputo fare, con ironia e fattività.

Ma qui – se anche il vecchio lettore fosse tanto rimbambito da non capirlo da solo, per fortuna c’è qualcuno disposto a illuminarlo – si spalanca il vero baratro che divide questi nostri tempi da quelli della violenza – quando a predominare rispetto a essa era in realtà una partecipazione democratica di massa quale non si è mai vista né in questo paese né in altri – e questa nuova generazione da quella sua che vi si oppose: oggi il futuro non è speranza, è previsione di sciagure planetarie davanti alle quali i giovani si sentono inermi, non solo materialmente ma anche metaforicamente.

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Bambini, cani, gatti, fiori di prato, farfalle, animali esotici, piatti pretesi prelibati inondano quotidianamente milioni e milioni di telefonini. Il vecchio lettore è fieramente, talvolta astiosamente, avverso a questo dilagante culto delle immagini che, favorito dalla facilità e immediatezza del mezzo, viene sostituendo a velocità spaventosa l’uso della parola e riducendo le persone a zombie balbettanti, se non afasici, e passivi. L’immagine è sacra quando imprescindibile e dice l’ineffabile, non quando superflua. La parola e, più, la parola scritta è la più grande conquista dell’uomo e ne fa un essere pensante e critico. Nulla può sostituirla. Se essa si perde, si perde l’umanità.

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A ben vedere, nel pensiero liberista, così pragmatico così sostanziale, si nasconde una fede nella trascendenza. In tempi di crisi, il pensiero economico classico si consola: lasciamo fare, i rami secchi scompariranno, le aziende deboli chiuderanno, e, alla ripresa che immancabilmente verrà, tutto rifiorirà più rigoglioso di prima; si perderanno posti di lavoro ora per averne più numerosi poi. L’osannato individuo scompare: chi si trova in mezzo alla strada in seguito alla crisi, privo non solo di mezzi ma spesso anche delle competenze per affrontare l’innovazione imposta dalla crisi, non conta più. C’è una Provvidenza che lo trascende e al suo posto renderà felici altri, fin quando non toccherà anche a loro. A parte l’ovvia considerazione che c’è sempre un limitato numero di individui a cui invece non tocca mai – e sono spesso coloro stessi che provocano e gestiscono le crisi – questa fede prevede un inferno (a cui condannare i reietti meno abili e meno fortunati), un purgatorio (per coloro che si arrangeranno in qualche modo) e un paradiso (per coloro che non si lasciano travolgere ma esercitano abile surf sulle onde delle crisi). Su questa terra, sì sì, su questa terra! proprio come faceva la fede nel socialismo.

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Dedicato agli appassionati di fantasy.

This story, which I admit to be in its brevity a fairly complex piece of work, was not intended to touch on the supernatural. Yet more than one critic has been inclined to take it in that way, seeing in it an attempt on my part to give the fullest imagination by taking it beyond the confines ot the world of living, suffering humanity. […] But I could never have attempted such a thing, because all my moral and intellectual being is penetrated by an invincible convinction that whatever falls under the dominion of our senses must be in nature and, however exceptional, cannot differ in its essence from all other effects of the visible and tangible world of which we are a self-conscious part. The world of the living contains enough marvels and mysteries as it is – marvels and mysteries acting upon our emotions and intelligence in ways so inexplicable that it would almost justify the conception of life as an enchanted state. No, I am too firm in my consciousoness of the marvellous to be ever fascinated by the mere supernatural, which (take it any way you like) is but a manufactured article, the fabrications of minds insensitive to the intimate delicacies of our relation to the dead and to the living, in their countless multitudes; a desecration of our tenderest memories, an outrage on our dignity.

Così scriveva Joseph Conrad esattamente cento anni fa in una Author’s note premessa alla seconda edizione di The Shadow-Line. A Confession, cioè La linea d’ombra. Per i pochissimi che dovessero avere difficoltà a leggere l’inglese, ecco una traduzione la più letterale possibile:

Questa storia, che ammetto essere nella sua brevità opera certamente complessa, non è stata concepita per dare nel soprannaturale. Eppure più di un critico ha teso a vederla tale, vedendovi da parte mia il tentativo di concedere alla mia immaginazione il massimo orizzonte, spingendola oltre i confini del mondo dell’umanità che vive e soffre. […] Ma io non avrei mai potuto tentare una cosa simile, giacché tutto il mio essere, morale e intellettuale, è intriso dell’invincibile convinzione che tutto ciò che cade sotto il dominio dei sensi deve esistere in natura e, per quanto eccezionale, non può differire nella sua essenza da tutti gli altri effetti del mondo visibile e tangibile di cui noi siamo parte consapevole. Il mondo dei viventi contiene già abbastanza meraviglie e misteri, meraviglie e misteri che agiscono sulle emozioni e sull’intelligenza in modi tanto inesplicabili da giustificare quasi la concezione della vita quale condizione incantata. No, sono troppo fermo nella mia consapevolezza del meraviglioso da farmi affascinare dal mero soprannaturale, che (comunque lo si voglia prendere) non è che un artefatto, il prodotto fabbricato da menti insensibili alle intime delicatezze del nostro rapporto coi morti e coi vivi, nella loro inarrivabile moltitudine, dissacrazione dei ricordi più cari, insulto alla nostra dignità.