di Anna Vanzan
autrice di Simin Daneshvar, Suvashun, una storia persiana, Milano, Francesco Brioschi, 2018 (da Suvashun, Tehran, Khwarezmi, 1969)
Quando ti poni dinnanzi al “romanzo” per antonomasia della letteratura persiana moderna per tradurlo, dovrai necessariamente sacrificare qualcosa, dovrai sforzarti di rendere la magia dell’originale, dovrai far capire ai lettori perché questo romanzo è considerato da milioni di iraniani come il capostipite della loro prosa moderna, qualcosa di unico e inarrivabile. E anche se si tratta di un romanzo, sei consapevole che tutto ciò che riguarda l’Iran è politico, tanto che i lettori che sceglieranno di leggere la tua traduzione lo faranno non solo per abbandonarsi a una narrazione, ma perché comunque vogliono sapere di più di quel paese, della sua storia, delle sue tradizioni, dei suoi costumi.
Già il titolo si presenta problematico: Suvashun è il nome di un rituale antico ed è intraducibile. Vuoi conservarlo, perché è un termine troppo carico di simboli e di significati, cosicché aggiungi «una storia persiana» per aiutare il futuro lettore a orientarsi almeno geograficamente. E poi via per quest’avventura, attraverso la prosa di Simin Daneshvar, semplice e complessa a un tempo: semplice, perché Daneshvar era un’intellettuale che riteneva di dover utilizzare una lingua più vicina possibile a quella parlata, in contrasto alla prosa paludata e spesso incomprensibile in voga da secoli; una scelta politica, vera e propria protesta democratica nei confronti di un regime imperiale e autocrate. Complessa, perché Simin Daneshvar gioca con le parole, rendendo di fatto a volte impossibile non spiegare in nota o nel glossario i diversi strati di significato. E perché la vicenda si snoda fra un dedalo di usanze ancora vive nell’Iran contemporaneo, in cui molti termini sono altamente connotativi, così da richiedere di essere “sciolti” a favore dei lettori, anche dei più consumati.
Certo, tutto non si può svolgere né spiegare: quando nel romanzo ci si riferisce a Mordestan come luogo che ospita i bordelli non occorre certo chiarire che si tratta del quartiere “a luci rosse”; però se si traducesse alla lettera quel nome avremmo «il luogo dei morti», a dimostrazione che, secondo l’autrice, in quel luogo allestito per sollazzare le truppe di occupazione straniere e dove donne e bambine sono umiliate e sfruttate, sono defunti pure gli ideali di libertà e di indipendenza pur così cari agli iraniani.
Pertanto, nonostante il timore reverenziale, sono comunque intervenuta con tagli e compensazioni: tagli, perché il persiano – forse perché la prosa è comunque figlia di un’innata vocazione poetica locale – a volte è ripetitivo, tanto da divenire quasi molesto per le orecchie italiane; compensazioni, invece, quando, per evitare una nota e limitare gli esotismi ho dipanato un termine o una locuzione, ad esempio, traducendo virtualmente tutti i nomi dei piatti locali: l’onnipresente – nella cucina persiana – chelou khoresht, pietanza a base di riso con un intingolo di carne e verdure, è diventato “riso e carne”. A partire dagli anni ottanta Suvashun è stato tradotto in diciassette lingue, con due versioni in inglese, e molti linguisti, semiologi e critici letterari iraniani hanno analizzato alcuni di questi testi per giungere all’implicita conclusione che si tratta di un romanzo virtualmente intraducibile, elevandolo alla statura del canzoniere di Hafez (l’archetipo dell’intraducibilità), consacrandolo, quindi, all’empireo della letteratura persiana. Non so se qualcuno avrà la pazienza di esaminare la mia traduzione in modo asettico, come un corpo morto sul tavolo operatorio, operazione già compiuta per le versioni in altre lingue e che, passato il furore della precisione semantica, finisce per trasformare un pezzo di prosa vibrante e sempre attuale in un ammuffito reperto del passato.
La bellezza di Suvashun sta invece nel suo essere sempre vivo, nella capacità di rappresentare una necessaria ricostruzione della continuità storico-culturale iraniana del Novecento, ammantata di pathos e divina bellezza.