Tradurre a 32 mani

IN UNA SCUOLA PER TRADUTTORI, UN VERO LIBRO PER UN VERO EDITORE

di Paola Mazzarelli

Nella scuola per traduttori editoriali dove insegno, la seconda metà del corso (pari sulla carta a 300 ore di lavoro, cioè al 50% delle ore totali; ma in realtà se ne fanno di più) è dedicata, come oggi si usa nelle scuole professionali, a uno stage che simula il più possibile una vera esperienza di lavoro. Nel nostro caso, si tratta della traduzione collettiva da parte degli allievi di un testo di prossima pubblicazione presso un editore nazionale. Spetta al traduttore incaricato di seguire lo stage il compito di reperire il testo da tradurre, organizzare e coordinare il lavoro, seguirne le varie fasi e provvedere, con un’adeguata revisione finale, a che la stesura definitiva risponda a «standard professionali», come recita la convenzione che la scuola stipula con l’editore. In altre parole: fare in modo che l’editore possa contare su quella che semplicemente si direbbe un’ottima traduzione.

Ogni anno all’interno della scuola vengono tradotti in questo modo due libri, uno per ognuno dei due corsi: quello di inglese, ogni anno; e quello di francese, spagnolo o tedesco, che ruotano di anno in anno. È mio compito seguire lo stage del corso di traduzione dall’inglese. Dell’esperienza maturata nell’arco di una decina d’anni tratto nelle pagine che seguono.

Primo scoglio: scelta del testo e rapporti con gli editori

Il primo momento, e per certi versi il più delicato, del mio lavoro consiste nel trovare il testo da tradurre. Per avere la garanzia che la traduzione venga pubblicata, il testo deve rientrare fin dall’inizio nei piani editoriali di un editore e dunque deve essere proposto dall’editore stesso, o quanto meno con lui concordato. Un lavoro di questo genere ha senso se offre un’esperienza quanto più vicina possibile alla realtà del mestiere: si lavora per un committente e la traduzione approda sui banchi delle librerie. Inoltre, poiché la paternità della traduzione verrà riconosciuta agli allievi, tutti citati nel colophon, il lavoro potrà essere inserito in curriculum. Per molti di loro sarà la prima pubblicazione, sia pure a molte mani.

Poiché la traduzione è ceduta gratuitamente all’editore sulla base di un accordo che lo libera da ogni vincolo, assicurativo o di altro genere, nei confronti della scuola e da ogni impegno futuro nei confronti dei traduttori, sarebbe lecito supporre che giungano ogni anno parecchie proposte. Che addirittura vi sia gara tra editori per assicurarsi una buona traduzione gratuita. E che dunque si possa scegliere il testo più adatto. Non è così.

Ho constatato che editori grandi e piccoli mostrano una curiosa indifferenza, quando non una vera e propria diffidenza, nei confronti della proposta della scuola. Ci vuole un paziente lavoro preliminare, che svolgo da anni alle fiere del libro, per intessere rapporti personali di fiducia e conoscenza tali da convincere un editore della serietà della proposta e della qualità della traduzione offerta. È interessante notare che mai nessun editore ha chiesto di vedere le traduzioni in passato oggetto di stage, come parrebbe logico da parte di chi volesse farsi un’idea della qualità del lavoro, né un elenco degli editori coi quali la scuola ha lavorato. Di fatto, dunque, mi vengono offerti testi da tradurre solo dietro mia sollecitazione e solo dagli editori coi quali ho precedentemente stabilito rapporti personali. Non vale nemmeno, a garanzia della qualità del lavoro finale, il mio curriculum personale di traduttrice.

Quali editori? Tendo a escludere a priori i grandi editori. Un grande editore non è il partner ideale per uno stage come questo: ha di solito piani editoriali troppo rigidi, tempi troppo stretti, testi – almeno per quanto riguarda l’inglese – troppo lunghi e redattori troppo oberati di lavoro e troppo poco personalmente interessati al vantaggio della casa editrice per assumersi la responsabilità di qualcosa che esca dalla norma. Cerco il testo, dunque, tra editori piccoli o mediopiccoli, che hanno piani più flessibili, tempi più lunghi e maggiore disponibilità, e che sono pronti, a fronte di un palese vantaggio economico per la casa editrice, ad accettare di buon grado le minime, ma necessarie, formalità burocratiche richieste.

Aggiungo, per chiudere il discorso e rispondere a una possibile obiezione da parte di colleghi traduttori, che uno stage di questo tipo, che sia parte di un’esperienza formativa seria e qualificante, è a mio parere l’unica occasione ammissibile per offrire una traduzione gratuita a un editore commerciale. Anzi, proprio da questo punto di vista, è desiderabile lavorare con quei piccoli editori indipendenti che, con ammirevole accanimento, svolgono un’opera culturale indispensabile e meritoria nel panorama editoriale italiano, di solito con scarsissimi se non nulli vantaggi economici.

Quel che passa il convento

Dati i tempi del calendario accademico, le ore di stage sono suddivise, a partire dalla fine di marzo, in quattro o cinque periodi di lunghezza variabile, e con intervallo variabile tra l’uno e l’altro. Poiché l’anno accademico termina intorno a fine giugno, abbiamo a disposizione circa tre mesi. In tale lasso di tempo è difficile lavorare bene su un testo superiore alle duecento cartelle. La lunghezza è dunque il primo requisito del testo che cerco: sotto le cento cartelle sarebbe troppo corto, sopra le duecento troppo lungo.

Il secondo requisito vincola l’editore: il libro deve essere disponibile intorno a Natale, ma la traduzione verrà consegnata al più presto all’inizio di luglio; tenendo conto della revisione finale da parte del traduttore responsabile del lavoro, di solito non prima di metà luglio. Sono tempi di norma improponibili per i grandi editori, ma più che accettabili per i piccoli.

Che tipo di testo scegliere? Ho lavorato con gli allievi su testi di ogni genere. Idealmente, molto dipende dal gruppo con cui si ha a che fare. Di fatto, però, ho in mano il testo ben prima di avere le idee chiare sulle effettive capacità e qualità degli allievi dell’anno. Perciò, dati i due requisiti di cui sopra, accetto sostanzialmente “ciò che passa il convento”. Anche questo diventa un utile spunto didattico: tra sedici persone c’è invariabilmente qualcuno che storce il naso davanti al testo proposto. Colgo il destro per far notare che il traduttore editoriale, specie all’inizio della carriera, non è nella posizione di scegliere ciò che traduce, ma che lavora con uguale serietà su ciò che, appunto, passa il convento. La possibilità di scelta è semmai solo nell’ordine del rifiuto: non si accetta un lavoro che non si ritiene di poter svolgere al meglio. E ognuno saprà, in questo senso, conoscere i propri limiti.

L’esperienza mi ha insegnato, però, che si lavora meglio su testi di narrativa che di saggistica divulgativa. Per sua natura, la saggistica inglese e americana richiede di solito un profondo lavoro di riscrittura da parte del traduttore e un intenso impegno di ricerca. Benché didatticamente molto utili, testi del genere rendono il lavoro di stage troppo complesso perché lo si possa svolgere proficuamente con un gruppo di giovani che abbiano scarsa abitudine alla scrittura. Narrativa o saggistica d’autore consentono invece un’aderenza all’originale che, per quanto difficile da raggiungere per traduttori di scarsa esperienza, è però più facilmente e immediatamente comprensibile: anche l’allievo meno dotato, quando gli venga proposta, riconoscerà la bontà di una scelta che va nella direzione di una manifesta aderenza al testo.

La scuola è molto selettiva. I sedici allievi ammessi ogni anno al corso di traduzione dall’inglese, dove le candidature sono moltissime, sono in grado di affrontare, lavorando insieme, anche testi di notevole difficoltà. Ma poiché l’editore deve ricevere un’ottima traduzione, là dove gli allievi non arrivano toccherà al traduttore responsabile intervenire opportunamente nella fase dell’ultima revisione. Perché il meccanismo funzioni (e gli editori siano disponibili a ripetere l’esperimento) è necessario da un lato essere molto esigenti con gli allievi e non dar loro tregua finché non si raggiunge un risultato accettabile, costringendoli a rifare il lavoro tutte le volte che sarà necessario, dall’altro però essere pronti a intervenire dove e quanto opportuno. L’obiettivo minimo è quello di ottenere dal gruppo una traduzione “presentabile”, cioè di livello grosso modo equivalente a quello che potrebbe garantire un discreto traduttore. In sostanza: una traduzione a cui basti un normale intervento di revisione per diventare una buona traduzione. Gli allievi sanno che il loro lavoro verrà rivisto da un revisore della casa editrice e che lo stage si concluderà davvero quando, uscito il libro, avranno modo di confrontare la loro versione con quella pubblicata (e di imparare ancora qualcosa dal confronto).

Se posso scegliere, preferisco non lavorare su testi – tipo raccolte di racconti e simili – che per la loro struttura si prestano a essere facilmente suddivisi tra diversi traduttori. Lo sforzo, di riflessione e autocritica, necessario a uniformare un testo lavorato da tante mani è un esercizio utilissimo. E, contrariamente a quanto spesso si crede, il lavoro alla fine risulta migliore quando gli allievi percepiscono il testo come un tutt’unico e ciascuno si sente chiamato in prima persona a far sì che la traduzione funzioni da cima a fondo. Con una raccolta di racconti, invece, ognuno tende, anche senza rendersene conto, a sentirsi pienamente responsabile solo di una parte del libro e alla fine la traduzione risulta meno omogenea. Per questo motivo, tendo a trattare anche i racconti come un testo unico, dividendoli impietosamente tra allievi diversi.

Abbiamo il testo!

Quest’anno ci tocca un classico. Arriva da Ibis Edizioni, una piccola casa editrice specializzata in letteratura di viaggio, una copia di A Motor Flight through France, di Edith Wharton, 1908, un libro che raccoglie, parzialmente rielaborati, testi scritti nell’arco di un paio d’anni in occasione di diversi viaggi in automobile in Francia. Siamo all’inizio di marzo. Distribuisco le fotocopie del testo e assegno un compito per la fine del mese, quando inizierà lo stage vero e proprio: leggere il libro da cima a fondo almeno due volte, annotando ciò che si ritiene utile ai fini della traduzione e sottolineando le parole chiave. I miei allievi non leggono abitualmente la letteratura italiana del primo Novecento, né l’hanno letta in passato, se non in qualche raro caso per motivi di studio. Per questo, li avverto che sarà necessario “farsi un po’ di orecchio” e do qualche indicazione di letture italiane utili allo scopo. Qualcuno ci ha già pensato da sé e le proposte di moltiplicano.

L’arrivo del libro è sempre un momento atteso e delicato: si coagulano inquietudini, aspettative ed entusiasmi. Nel corso dell’anno c’è quasi sempre qualche occasione di vedere da vicino il frutto del lavoro dell’anno precedente: escono i libri oggetto di stage, c’è qualche presentazione in libreria, viene in Italia ed è invitato a scuola l’autore di un testo tradotto in passato. Sono occasioni importanti: assai meglio di ogni spiegazione danno la misura agli allievi di quanto i libri (in futuro anche quelli tradotti da loro) siano oggetti appartenenti alla realtà. Con tutto ciò che questo comporta. Nell’atmosfera asettica dei corsi di traduzione è facile dimenticarlo e lavorare come se quelle pagine non dovessero mai finire in mano ai lettori.

Nell’ultimo incontro prima dell’inizio dello stage si discute del libro. Cerco di sollecitare una conversazione utile a far emergere i temi fondamentali e i problemi principali che porrà la nostra traduzione e di dare qualche indicazione di massima. Qualcuno mugugna: il testo non piace. Altri lo giudicano difficile e appaiono un po’ spaventati. Non commento se non per dire che quello abbiamo da tradurre, tanto vale farselo piacere. Ma una delle grandi soddisfazioni di questo mio lavoro, che di soddisfazioni è ricchissimo, è il fatto che invariabilmente gli allievi confessano, alla fine, di essere andati via via appassionandosi, a dispetto delle iniziali diffidenze. E di solito, quanto più è difficile e impegnativo il testo, tanto maggiore è l’entusiasmo.

Il testo di Edith Wharton è oggettivamente molto difficile e la prima stesura metterà gli allievi a dura prova. L’ho diviso, senza badare alla scansione dei capitoli, in sedici parti rigorosamente uguali. Ognuno ha la sua parte e una decina di giorni di lavoro autonomo e individuale davanti. Le istruzioni sono queste: leggere e rileggere (usando i dizionari e facendo tutte le ricerche del caso) fino a essere sicuri di aver ben compreso il testo. Poi eseguire una traduzione “quanto più possibile aderente all’originale”. Parole vaghe, lo so. Ma a questo punto dell’anno i miei allievi sanno, o dovrebbero sapere, che cosa significano. Per inciso, la nozione del “quanto più possibile aderente all’originale” sarà il criterio con cui cercherò di spiegare e motivare ogni decisione in favore di una soluzione invece dell’altra. In particolare, visto il testo e conoscendo, come si suol dire, i miei polli, vieto di modificare la scansione e la sintassi dei periodi, aggiungendo punti fermi e trasformando le subordinate in principali. So che per la maggior parte degli allievi l’articolazione del pensiero in periodi complessi è una bestia difficile da ammansire se non con mezzi di distruttiva drasticità.

Prima e seconda stesura

Una decina di giorni dopo ho in mano la prima stesura: una traduzione completa ma molto disomogenea, con parecchi problemi di interpretazione, lacune, omissioni. Qui e là c’è anche qualche pagina ben fatta, perché allievi bravi ne ho sempre. Il mio lavoro ora è questo: poiché a uno stadio così iniziale è impossibile tenere conto di tutto, leggo la traduzione col testo originale a fronte, mettendo in evidenza solo gli errori di comprensione (sia linguistici: errata comprensione di una parola, di una struttura, di una espressione; sia di contenuto: contraddizioni, incongruità e simili); i problemi macroscopici di lingua italiana (calchi evidenti, periodi che non funzionano, tempi verbali incongruenti); le omissioni (di parole e frasi, ma anche solo di senso). Se è necessario do a margine o sul retro del foglio indicazioni utili a capire l’errore. Ma, a parte qualche piccolo suggerimento, non propongo alternative. È un lavoro minuzioso, che richiede molto tempo, ma indispensabile per mettere le basi delle stesure successive.

Così, per fare un esempio, nonostante la sua evidente goffaggine non commento l’incipit «L’automobile ha restituito fascino al viaggiare» (The motor-car has restored the romance of travel). Ci sarà modo poi di trovare una soluzione più snella. Ma segno come errore di comprensione del testo il «con» di «Liberandoci da tutte le costrizioni e i contatti con le ferrovie», che tradurrebbe un freeing us from all the compulsions and contacts of the railway.

Una decina di giorni dopo incontro gli allievi, discuto i problemi generali e di interesse comune e consegno a ciascuno il suo lavoro. Nei successivi dieci giorni ognuno è tenuto a rifare da capo la propria traduzione tenendo conto delle mie note e osservazioni e di tutto quanto si è detto. Nel frattempo, tradurrà autonomamente anche la parte di un compagno.

La seconda stesura di solito risulta relativamente poco migliore della prima: gli allievi tendono a correggere ciò che ho segnato come errore e, a dispetto di ogni mia indicazione in proposito, a lasciare inalterato tutto il resto. È comprensibile. L’atteggiamento critico e distaccato necessario all’autorevisione è una conquista ardua e richiede esperienza. Se però riesco a ottenere una traduzione, sia pure grezza e disomogenea, che abbia eliminato omissioni ed errori principali, mi ritengo soddisfatta.

Rivedendo la seconda stesura, comincio a impostare i problemi di registro e alcuni aspetti di lessico e struttura più raffinati. Non è sempre facile scindere i diversi aspetti, naturalmente. Ma trovo utile tenere a mente la distinzione, almeno in teoria, per svolgere il mio ruolo di “guida” senza affastellare troppe osservazioni contemporaneamente, cosa che rischierebbe di scoraggiare inutilmente gli allievi. I quali un po’ si scoraggiano comunque al momento della consegna della seconda stesura: contrariamente a quanto si aspettano, infatti, anche questo loro lavoro è costellato di segni e note quanto il primo. Qui il «viaggiare» dell’incipit, per esempio, appare segnato come migliorabile. E sono segnate anche tutte le innumerevoli perifrasi esplicative, gli avverbi inutili, le ridondanze lessicali cui i traduttori inesperti ricorrono quando, pur avendo ben compreso il significato dell’originale, non riescono a mantenere una adeguata linearità ed essenzialità di espressione.

In questa fase, comincio anche a evidenziare aspetti legati alla cadenza e al ritmo dell’originale (attacchi dei periodi, per esempio), e altri elementi, lessicali o d’altro genere, attinenti allo specifica letterarietà del testo. Così, per esempio, faccio notare che l’aggettivo blue di a long blue crest against the seaward horizon non può essere tradotto con «blu». A sostegno della mia osservazione, porto il CD della Biblioteca Italiana Zanichelli e dimostro che nella tradizione letteraria italiana la parola blu non esiste prima di Pirandello e D’Annunzio. Questo genere di ricerca, per inciso, entusiasma sempre gli allievi più appassionati: d’ora in avanti hanno una miniera d’oro a disposizione. E non sono pochi quelli che, incuriositi, andranno magari a leggersi un remoto autore del canone che magari non hanno mai sentito nominare.

A questo punto, ogni allievo avrà tradotto due volte la propria sezione (e avrà a disposizione sulle stampate relative due serie di mie note e osservazioni) e una volta la sezione di un compagno.

Lavoro a più mani: due per otto, quattro per quattro, otto per due

La terza stesura viene fatta a coppie: ogni coppia lavora su porzioni di testo che conosce già. Con qualche giorno di intenso lavoro la fusione delle due parti produce una stesura notevolmente più matura delle precedenti. È interessante notare che spesso il risultato del lavoro a coppie è migliore della somma delle due parti. Che cosa significa? Che si sono avviati alcuni meccanismi fondamentali in questo genere di lavoro, primo tra tutti la disponibilità da parte di ognuno a riconoscere la bontà delle soluzioni altrui e a rinunciare alle proprie. Il gruppo comincia a percepire il lavoro come frutto di uno sforzo comune. Ma mentre le soluzioni da me proposte tendono ad essere accettate senza discussione, quelle che emergono dal lavoro comune sono come è comprensibile, oggetto di dibattito, a volte anche acceso. Ed è nel dibattito che emergono le soluzioni più interessanti. Qualche volta vengo chiamata ad arbitrare, ma di solito il mio intervento non è necessario: le coppie (e più avanti i gruppi più numerosi) riescono ad arrivare a un accordo soddisfacente. Il testo che mi viene consegnato è formato ora non più da sedici, ma da otto sezioni, ognuna relativamente omogenea al suo interno. Si comincia a intravedere, nebulosa all’orizzonte, una forma definitiva.

Mentre leggo questa terza stesura, giusto per accertarmi che non siano sopravvissuti errori di interpretazione e omissioni, gli allievi, divisi in quattro gruppi di quattro, ne producono una quarta. E qui si ha il vero passo avanti: ogni sezione ora consiste di 30/50 cartelle, metà delle quali sono già state ampiamente lavorate da due persone del gruppo e sono invece nuove per gli altri, e viceversa. Con qualche giorno di lavoro dalle sedici mani esce una traduzione che si può finalmente definire accettabile, frutto di discussioni appassionate, di qualche compromesso inevitabile e di una conoscenza ormai profonda del testo. A questo punto anche il lavoro di ricerca, lavoro immenso nel caso del testo della Wharton e pieno di trappole, è pressocché concluso. Resteranno alcuni dubbi, che verranno sciolti più avanti con il contributo di tutti.

A partire dalla stesura a coppie, gli allievi lavorano a scuola otto ore al giorno. Non di rado, le otto ore diventano nove o dieci e i bidelli devono cacciarli fuori quando è ora di chiudere. Questo non avviene solo perché il lavoro è complesso e le discussioni vanno per le lunghe, ma anche perché a questo punto tutti tengono moltissimo al risultato finale. Il lavoro a gruppi è la parte dello stage che li appassiona di più: vedono la traduzione prendere forma e scomparire errori e goffaggini. In altre parole, ora, finalmente, cominciano a crederci.

La quinta stesura, due gruppi di otto, è quasi una stesura definitiva. Si tratta per lo più di uniformare le scelte. Dopodiché tutti (me compresa) leggono la traduzione per intero, col compito di evidenziare ciò che non appare convincente. Ci saranno poi ancora un paio di giorni di lavoro comune per uniformare il tutto e produrre una stesura unica definitiva. Se si riesce, si leggerà tutto il testo a voce alta.

Nelle giornate conclusive partecipo anch’io alla discussione, proponendo soluzioni: o nell’ordine dell’eleganza della scrittura, o per correggere il tiro quando, a furia di scervellarsi, gli allievi siano approdati a scelte incongrue. Compare sempre, alla fine, qualche stramberia, frutto di troppo discutere.

Quella che ho descritto è la traccia del lavoro che svolgo per ogni stage. Ogni testo ha poi caratteristiche proprie, che impongono ritmi leggermente diversi o una stesura ulteriore o una diversa divisione dei gruppi. Ma la sostanza non cambia: si arriva gradualmente, per stesure successive, prima individuali e poi collettive, a una traduzione pubblicabile. Spesso, come nel caso del Viaggio in Francia in automobile di Edith Wharton, il lavoro collettivo produce una traduzione davvero ottima. E non di rado qualche amicizia durevole o un fruttuoso futuro sodalizio professionale.

Post scriptum

Trascrivo qui di seguito, a titolo di esempio, le pagine iniziali del testo originale, la prima stesura, una stesura intermedia (in gruppo) e la versione pubblicata in Edith Wharton, Viaggio in Francia in automobile, Ibis, Como-Pavia 2014.

The motor-car has restored the romance of travel.

Freeing us from all the compulsions and contacts of the railway, the bondage to fixed hours and the beaten track, the approach to each town through the area of ugliness and desolation created by the railway itself, it has given us back the wonder, the adventure and the novelty which enlivened the way of our posting grandparents. Above all these recovered pleasures must be ranked the delight of taking a town unawares, stealing on it by back ways and unchronicled paths, and surprising in it some intimate aspect of past time, some silhouette hidden for half a century or more by the ugly mask of railway embankments and the iron bulk of a huge station. Then the villages that we missed and yearned for from the windows of the train – the unseen villages have been given back to us! – and nowhere could the importance of the recovery have been more delightfully exemplified than on a May afternoon in the Pas-de-Calais, as we climbed the long ascent beyond Boulogne on the road to Arras. […]

The country itself – so green, so full and close in texture, so pleasantly diversified by clumps of woodland in the hollows, and by streams threading the great fields with light – all this, too, has the English, or perhaps the Flemish quality – for the border is close by – with the added beauty of reach and amplitude, the deliberate gradual flow of level spaces into distant slopes, till the land breaks in a long blue crest against the seaward horizon.

There was much beauty of detail, also, in the smaller towns through which we passed: some of them high-perched on ridges that raked the open country, with old houses stumbling down at picturesque angles from the central market-place; others tucked in the hollows, among orchards and barns, with the pleasant country industries reaching almost to the doors of their churches.

Prima versione (a due mani)

L’automobile ha restituito fascino al viaggiare.

Liberandoci da tutte le costrizioni e i contatti con le ferrovie, dalla schiavitù di orari e tracciati fissi, dall’avvicinarsi a ogni città attraverso le zone di bruttura e desolazione che la ferrovia stessa ha creato, ci ha ridato la magia, l’avventura e la novità che animavano le tratte percorse in diligenza dai nostri nonni. Sopra a tutti questi piaceri ritrovati si deve porre la gioia di prendere una città alla sprovvista, muovendosi furtivamente su vie secondarie e sentieri non segnati, e sorprendendo in essa un qualche aspetto profondo del passato, alcune silhouette nascoste per mezzo secolo o più dalla brutta copertura delle massicciate della ferrovia e dalla massa ferrosa di una stazione enorme. E poi i paesi che abbiamo perso e che abbiamo desiderato ardentemente dai finestrini del treno – ci ha restituito i paesi non visti! – e da nessuna altra parte l’importanza di questa restituzione potrebbe avere un esempio più delizioso, di quando, in un pomeriggio di maggio a Pas – de – Calais, risalimmo la lunga salita oltre Boulogne dirigendoci ad Arras. […]

La campagna stessa – così verde, così piena e fitta nella sua sostanza, così piacevolmente varia per il folto dei boschi nelle vallette, e per i ruscelli che striano di luce gli estesi campi – tutto questo, anche, ha caratteristiche inglesi o forse fiamminghe – poiché il confine non è lontano – con in più la bellezza delle distanze e dell’estensione, lo scorrere lento e graduale di spazi piatti in pendii distanti, finché la terra si infrange in una cresta lunga e blu contro l’orizzonte marino.

C’era molta bellezza, fin nei dettagli, nelle città più piccole che attraversavamo: alcune di esse, arrampicate in alto sulle creste, dominavano l’aperta campagna, con vecchie case in cui ci si imbatteva in angoli pittoreschi a partire dalla piazza del mercato; altre nascoste negli avvallamenti, tra i frutteti e i granai, con le piacevoli attività rurali che si spingevano quasi sui portali delle chiese.

 Versione a 16 mani

L’automobile ha restituito fascino al viaggiare.

Liberandoci da tutte le costrizioni e i contatti della ferrovia, dalla schiavitù di orari e tracciati fissi, dall’avvicinamento a ogni città attraverso l’area di bruttura e desolazione creata dalla ferrovia stessa, essa ci ha reso la meraviglia, l’avventura e la novità che animavano le tratte percorse in diligenza dai nostri nonni. Primo tra tutti questi piaceri ritrovati c’è la gioia di prendere una città alla sprovvista, arrivando di soppiatto per vie secondarie, non segnate sulle guide, cogliendovi un qualche aspetto intimo del passato, alcune silhouette nascoste da mezzo secolo o più dietro la brutta maschera delle massicciate della ferrovia e la mole in ferro di una stazione spropositata. E poi i paesi che ci perdevamo vagheggiandoli dai finestrini del treno – i paesi inesplorati ci sono stati restituiti! – e in nessun altro luogo il valore di questo recupero avrebbe potuto essere reso con esempi più incantevoli, come in un pomeriggio di maggio nel Pas-de-Calais, quando affrontammo la lunga salita dopo Boulogne sulla strada per Arras. […]

La campagna stessa – così verde, così ricca e densa di dettagli, così piacevolmente varia per il folto dei boschi nelle vallette, e per i ruscelli che striano di luce gli estesi campi – tutto questo, anche, ha il sapore inglese o forse fiammingo – poiché il confine non è lontano – con in più la bellezza della distanza e della vastità, lo scorrere graduale e ponderato di spazi pianeggianti in declivi distanti, finché il paesaggio si infrange in una lunga cresta azzurra contro l’orizzonte del mare.

C’era molta bellezza di dettagli, per di più, nelle cittadine che attraversammo: alcune di esse appollaiate in alto su creste che rastrellavano l’aperta campagna, con vecchie case cadenti in angoli pittoreschi dalla piazza del mercato; altre nascoste negli avvallamenti, tra frutteti e granai, con le belle fattorie che arrivavano quasi ai portali delle chiese.

 Versione a 32 mani (pubblicata)

L’automobile ha restituito al viaggio il suo incanto.

Liberandoci da tutte le costrizioni e i contatti del treno, dalla schiavitù di orari e tracciati fissi, dall’obbligo di entrare nelle città attraverso l’area di squallore e desolazione creata dalla ferrovia, ci ha restituito la meraviglia, l’avventura, il senso di novità che animavano i viaggi in diligenza dei nostri nonni. Primo fra tanti piaceri ritrovati è il gusto di prendere una città alla sprovvista, giungendovi di soppiatto per vie secondarie e percorsi non segnalati, cogliendo qui un aspetto intimo del suo passato, là un profilo nascosto da cinquant’anni e più dietro il brutto sipario delle massicciate e la mole in ferro di una stazione enorme. E poi i paesi che ci sfuggivano e che vagheggiavamo dai finestrini del treno, i paesi invisibili… tutti ci sono stati restituiti! e mai altrove il valore di questo recupero avrebbe potuto trovare esempio migliore che nel Pas-de-Calais, quel pomeriggio di maggio in cui affrontammo la lunga salita daBoulogne versoArras.[…]

La campagna stessa, così verde, così ricca e densa nella sua tessitura, così piacevolmente variata dal folto dei boschi nelle conche e dai ruscelli che striano di luce i grandi campi… anche tutto questo ha un sapore inglese o forse fiammingo – ché il confine non è lontano – con l’ulteriore bellezza di raggio e vastità, il deliberato graduale mutarsi degli spazi orizzontali in declivi lontani, finché il paesaggio si infrange, verso il mare, in una lunga cresta azzurra all’orizzonte.

C’era molta bellezza di dettaglio anche nelle cittadine più piccole che attraversavamo: quali appollaiate su creste che rigavano l’aperta campagna, con tutto un pittoresco ruzzolare di vecchie case giù dalla piazza del mercato, quali rintanate nelle conche, tra frutteti e granai, con simpatiche tracce di attività rurali fin quasi sul sagrato delle chiese.