L’ITINERARIO DI SERGIO ATZENI TRADUTTORE. UNA TESTIMONIANZA
di Paola Mazzarelli
Il testo del seminario che Sergio Atzeni tenne all’università di Parma nel 1995, pubblicato in questo numero di «tradurre», è una delle rare testimonianze dirette del lavoro di traduttore – indefesso e faticoso, ma anche a suo modo appagante – che di fatto dette da vivere allo scrittore tra il 1988 e il 1995. Basterà scorrere l’elenco delle traduzioni per farsi un’idea della varietà di testi e di argomenti che gli capitarono tra le mani. Poiché ho avuto la fortuna di vivere accanto allo scrittore in quegli anni – anch’io allora traducevo a tempo pieno – la mia testimonianza, inevitabilmente fondata sulla memoria personale, potrà essere forse di qualche utilità a chi in futuro voglia approfondire questo aspetto della sua biografia.
Ho usato l’espressione «gli capitarono fra le mani» non a caso. Contrariamente a quanto spesso si crede e a quanto osservava, per esempio, Flavio Santi in un breve intervento su Atzeni e Stendhal (Santi 2008) – uno dei pochissimi che finora siano entrati nel merito delle traduzioni atzeniane – Atzeni non ebbe mai occasione di scegliere i testi. Traduceva ciò che gli veniva commissionato, perché tradurre era un lavoro: «la pagnotta», come dice lo stesso Santi. Che riuscisse a far coincidere «la traduzione di piacere con quella di pagnotta» dipende dal fatto che era un buon traduttore, affidabile e preciso, e dunque mediamente gli venivano affidati testi di un certo rilievo. Ciò vale anche per I ventitré privilegi di Stendhal, a cui Santi fa riferimento. Naturalmente, come qualunque altro traduttore cui venga offerto un testo, sia pure minimo, di un autore della statura di Stendhal, Atzeni fu entusiasta della proposta e vi si accinse con impegno. E forse anche, e in questo Santi ha ragione, con sintonia maggiore che nel caso di altri testi. Ché l’ironia di quel libretto gli era certamente congeniale. Fu lavoro complesso, non tanto per la traduzione in sé, quanto per la ricerca necessaria alla stesura delle note in epoca pre-informatica, lavoro di cui danno conto le ultime pagine del quaderno su cui Atzeni tradusse a mano – spesso seduto sulle panchine del lungopò torinese – i tre brevi testi di Stendhal di cui si compone il libretto. Solo nel caso di Texaco, del martinicano Patrick Chamoiseau, si può parlare in qualche misura di “scelta”, per la perseveranza e la determinazione con cui Atzeni inseguì, fino a farlo diventare realtà, quella specie di miraggio che gli era stato fatto balenare alla Einaudi. Come con caratteristica autoironia raccontava agli studenti di Parma.
A Parma era stato invitato proprio perché era uscita l’anno precedente la traduzione di Texaco: romanzo complesso e bellissimo, di ardua resa per la scrittura che impasta creolo e francese attingendo a tutte le risorse e i registri della lingua. Dell’entusiasmo, dello sgomento e della laboriosa fatica del traduttore di fronte a quell’opera linguisticamente sterminata si legge nel vivace resoconto che lo stesso Atzeni fece agli studenti in occasione del seminario. E di come lo scrittore sia riuscito nel difficile compito dice Yasmina Melaouah altrove in questo numero di tradurre.
Per una di quelle felici coincidenze vent’anni fa meno rare di oggi, il romanzo di Chamoiseau venne affidato al traduttore che per affinità intellettuale e per storia ed esperienza personali era forse il più adatto a volgerlo in italiano. E ne venne, appunto, una traduzione memorabile. Nonché una feconda amicizia intellettuale, se pure brevissima per la morte prematura di Atzeni nel 1995. Amicizia, per inciso, recentemente ricordata dallo stesso Chamoiseau al festival di Babel del settembre 2014.
Che un romanzo della portata di Texaco venisse affidato a un traduttore che, pur avendo al suo attivo una decina di traduzioni per diversi editori, non aveva mai tradotto narrativa vera e propria non stupisce. Atzeni aveva già pubblicato i primi due romanzi, Apologo del giudice bandito (1986) e Il figlio di Bakunìn (1991), entrambi per Sellerio, e viveva a Torino, dove, soprattutto grazie all’amicizia stretta con Ernesto e Carla Ferrero, aveva stabilito rapporti con alcuni redattori della casa editrice. Tra l’altro, godeva della stima divertita e affettuosa di Malcolm Sky, bizzarro, coltissimo, poliglotta, a lungo collaboratore di quella casa editrice. Sky lo salutava sempre a gran voce dandogli ironicamente del «grande scrittore». E Atzeni, che apprezzava l’ironia, gli si era affezionato. Li ricordo, nel salotto dei Ferrero, immersi in una conversazione fittissima punteggiata da misteriosi scoppi di ilarità.
Che Atzeni fosse un ottimo traduttore, puntiglioso e all’occorrenza anche caparbio, alla Einaudi del resto era noto, grazie ai tre testi di saggistica che per quella casa editrice aveva già tradotto, e le cui vicissitudini racconta agli studenti all’inizio del seminario.
Alla traduzione Atzeni era giunto quasi per caso. Se n’era appassionato e vi aveva subito intravisto un mestiere possibile e congeniale, lui che di mestieri ne aveva fatti diversi – improvvisandosi anche pizzaiolo in un breve soggiorno a Lussemburgo – ma che l’urgenza di scrivere aveva spinto dalla natia Sardegna a cercare la ventura in continente. Era approdato a Milano all’inizio del 1988, forte del primo romanzo pubblicato da Sellerio, con pochissime lire e un paio di indirizzi in tasca. Cercava un lavoro che gli consentisse di vivere, sia pure modestissimamente, e di scrivere. Uno degli indirizzi era quello di Anna Drugman, allora all’ufficio stampa Garzanti, con cui era entrato in contatto epistolare nel periodo in cui scriveva recensioni per l’«Unione sarda», e che aveva continuato a mandargli periodicamente le novità più interessanti della casa editrice, anche quando la collaborazione con quella testata si era interrotta. Ispirava simpatia, quel giovane sardo squattrinato e avido di letture, che per ringraziare scriveva: «Alle nove e mezza telefona mio padre e dice – E’ arrivato un pacco per te, di Garzanti. Sono fuggito dall’ufficio dicendo – commissioni urgenti, ho raggiunto il pacco, l’ho sfasciato in venti secondi… Tornare in ufficio? Macché, pare Natale. C’è un bel sole. Scrivo questa lettera, vado al mare e leggo Luzi».
Per Atzeni erano anni difficili: sentiva la necessità di allontanarsi da una Sardegna che per diversi motivi gli stava stretta e dove inutilmente aveva cercato di conciliare la necessità della scrittura con gli imperativi della quotidianità. Nella stessa lettera confidava alla «amata Signora» che gli spediva quei pacchi: «Il mio sogno? Un editore che per diciotto mesi mi paga uno stipendio sufficiente a vivere con una certa larghezza a Orgosolo e scrivere il racconto senza angosce di svegliarmi la mattina presto e timbrare il cartellino. Scritto il racconto, un lavoro di redattore a Milano (lettore, correttore, sunteggiatore, posso imparare). Può capitare? Conosco a malapena l’italiano e le parlate orgolese e caralitana ma posso promettere che a Milano studierò seriamente il tedesco». Nell’elenco dei sogni, ancora, non figurava il traduttore.
È con l’appoggio di Anna Drugman che Atzeni, appena arrivato a Milano, comincia a lavorare per Garzanti, partendo – come amava ripetere – «dall’ultimo gradino», cioè quello di correttore di bozze. Che poi ultimo gradino non era, perché quelle correzioni di bozze si mutavano spesso in vere e proprie cure redazionali. Alle bozze si affianca, un paio di mesi dopo, la prima traduzione dal francese, L’Empire de l’éphémère, di Gilles Lipovesky, sempre per Garzanti. Da quel momento la traduzione, insieme ancora alla correzione di bozze e più avanti ad altre collaborazioni redazionali e giornalistiche, gli consentirà il minimo indispensabile per vivere «traducendo di giorno e scrivendo di notte», come ripetutamente afferma. Non a Orgosolo, ma a Torino – che dice «città europea» – dove decide di stabilirsi.
Il passaggio alla traduzione avviene quasi naturalmente con la nostra conoscenza. Lo presentai a Ernesto Ferrero, che riconobbe immediatamente la qualità e il valore della sua scrittura e gli fu sempre amico e sostenitore, e a tutti gli editori con cui ero in contatto. Fu così che tra i suoi primissimi committenti figura – alquanto incongruamente – l’editore Vivalda, che pubblicava allora una bella collana di testi classici d’alpinismo. Anche quello fu un po’ un caso: Vivalda gli affidò il libro che in quel momento aveva in programma, Mon excursion au Mont-Blanc, di Henriette d’Angeville,un piccolo gioiello nel suo genere, fin allora rimasto inedito in Italia. Atzeni accettò con grande divertimento: proprio a lui, «creatura di palude», come amava puntualizzare nella nuova città di adozione fitta di alpinisti e montanari, toccava dare voce alla «nobilzitella» ginevrina che nel 1838 aveva compiuto – e poi debitamente raccontato – quella che è passata alla storia come la prima ascensione femminile al Monte Bianco. In realtà era la seconda, ma siccome della prima nessuno scrisse, nulla se ne sa. Anche in quel caso, per una coincidenza felice quanto casuale, mademoiselle d’Angeville non avrebbe potuto trovare in italiano voce migliore. Resta anche quella, nel suo piccolo, una traduzione memorabile. Ed è tutt’oggi in circolazione.
Una traduzione tirò l’altra. All’epoca i redattori migravano ancora da una casa editrice all’altra, invece che dalle case editrici alle redazioni esterne e al lavoro autonomo, e si portavano dietro i collaboratori più affidabili. Così si ampliava il ventaglio delle collaborazioni. E così avvenne anche per Atzeni. Il quale, certo, aveva dalla sua se non una perfetta conoscenza del francese – ma a quella mancanza era facile ovviare – certo un infallibile dominio della lingua italiana e una vastità e curiosità di letture oggi impensabile per un giovane traduttore.
Atzeni era, per così dire, un traduttore “puro”: non solo perché di quello campava, né aveva altre risorse cui attingere, ma anche perché non si poneva altro problema che fare al meglio il lavoro che gli era commissionato, affinché a quello ne seguissero altri. Si definiva, nella sua scrittura come nel lavoro di traduttore, «un artigiano». La mole di lavoro svolto in quegli anni, se si considera che furono anche gli anni della sua più intensa produzione letteraria, è straordinaria. Nell’elenco figurano autori tutt’altro che facili e argomenti di cui poco sapeva. Quando non sapeva, studiava. Il metodo era quello che racconta agli studenti nel seminario di Parma: la cura maniacale per il dettaglio, il non lasciare mai nulla al caso o all’improvvisazione, lo studio, il rispetto per il testo e, nel caso della saggistica, per l’argomento. E la passione per la lingua, i suoi meccanismi, le sue potenzialità. Lettore onnivoro qual era, si entusiasmava a ogni argomento, tanto più se non lo conosceva: non ricordo una sola traduzione che non l’avesse appassionato. E come spesso succede ai traduttori che stanno seduti otto ore al giorno alla scrivania, sei o anche sette giorni alla settimana, le storie, i personaggi, le vicende di cui traduceva traboccavano dalla pagina scritta e andavano a popolare anche il tempo libero. A schermo, forse, del lavoro notturno di scrittura propria, di cui Atzeni, invece, non parlava mai.
Ma scrittura e traduzione erano intimamente legate. In un’intervista, alla domanda se vi fossero interferenze tra l’attività di traduttore e quella di narratore rispondeva: «Non c’è nessuna cosa che non interferisca. Tutto quello che accade in qualche modo interferisce», specificando poco dopo che «nel mestiere di traduttore c’è un aspetto tecnico da non sottovalutare… È un mezzo per entrare nel laboratorio di scrittori di altre lingue» (Sulis 1994, 34). Il connubio traduzione-scrittura è tutt’altro che raro nella biografia degli scrittori. E qui vale la pena forse aggiungere che anche il cinema era oggetto di un interesse legato proprio agli aspetti tecnici: il montaggio, la scansione, il taglio delle scene. Atzeni non perdeva un film, soprattutto quelli americani di cassetta. Diceva che là c’era molto da imparare su come raccontare una storia.
Per converso, era la scrittura a giustificare il mestiere: Atzeni si era improvvisato traduttore in forza del suo saper scrivere l’italiano e traduceva – come tutti, allora – senza molto ragionare in astratto sulla teoria, su che cosa sia il tradurre. Non erano tempi di scuole di traduzione. Quanto alle scuole di scrittura, che cominciavano a spuntare qua e là sull’onda della progressiva americanizzazione della cultura, erano da guardare con sospetto: «Non seguire un corso di scrittura creativa tenuto da uno che non ha mai scritto un libro, oppure da uno scrittore qualunque…». Perché: «Solo dai grandi si impara. Mai pensare di poter imparare dai piccoli» (Sulis 1994, 41). C’era una sola regola: «Come si può tradurre decentemente un testo se non ci si immedesima, fino a perdere coscienza di sé, nella testa, nella fantasia, nelle idee, nella visione del mondo, nel vocabolario dell’autore da tradurre?» (Atzeni 1992, 854). Una fatica immane: «Sto seduto otto ore al giorno alla scrivania, circondato da pile di dizionari. Quando finisco ho la testa vuota. Fusa. Non ho quindi più tempo né voglia di vivere. Ma in cambio vivo le avventure che traduco». E, per spiegare che cosa fosse il suo lavoro di traduttore, stilava questo elenco: «Finora ho vissuto l’ascensione al Monte Bianco nei panni di una nobilzitella parigina un po’ tocca, le scorrerie dei pirati algerini nel mediterraneo del Seicento, il viaggio in Europa di un matematico bolognese del Settecento, gli amplessi e le masturbazioni pubblici (in piazza) dei cinici greci, i vagabondaggi e le utopie di John Ruskin, i desideri più inconfessabili di Stendhal, il tentativo di riscrivere da cima a fondo la storia del mondo di un arabo di mille anni fa, il sogno di decifrare la società attuale di un giovane pseudofilosofo francese, la vita di una regina ironica, sapiente e sfortunata in amore, i pensieri di un rivoluzionario russo in fuga da Stalin, mentre guarda il terremoto affianco ai campesinos messicani…» (Atzeni 1992, 854).
Testi citati
La lettera ad Anna Drugman citata in questo articolo reca la data «Quartucciu, 21 aprile». L’anno non è indicato, ma, non potendo essere il 1988, quando nella collana «Gli Elefanti» uscirono Tutte le poesie di Mario Luzi ma Atzeni si trovava già sul continente, è probabile si tratti del 1985, quando Garzanti pubblicò Per il battesimo dei nostri frammenti. Rinnovo qui pubblicamente i miei ringraziamenti ad Anna Drugman per avermi donato a suo tempo in fotocopia le lettere da lei ricevute da Atzeni.
Atzeni 1992: Sergio Atzeni, L’obbligo di essere un po’ pazzi e un po’ sciamani, in «L’Unione sarda», 12 settembre 1992 (ora in Scritti giornalistici, a cura di Gigliola Sulis, Il maestrale, Nuoro 2005, vol. II, pp. 853-855)
Santi 2008: Flavio Santi, Atzeni e Stendhal, in Sergio Atzeni (1952-1995) un “classico” della nuova narrativa sarda. Atti del seminario di studi, a cura di Gianluca Bavagnoli e Paolo Pulina, Pavia 2008, pp. 37-39
Sulis 1994: Gigliola Sulis, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verità. Intervista a Sergio Atzeni, in «La grotta della vipera», primavera/estate 1994, pp. 34-41