Un cammello per la cruna di un ago

LA LUNGA E AVVENTUROSA STORIA DELLE TRADUZIONI BIBLICHE ITALIANE

di Norman Gobetti

Manda sopra le acque il tuo pane
Accresciuto dai giorni lo troverai
(traduzione di Guido Ceronetti di Qohélet, 11, 1)

1. Bibbia. Un Dio poliglotta

un-cammello-per-la-cruna-di-un-agoBiblia, ovvero “Libri”. L’esplicita pluralità è insita fin dal nome nella collezione delle decine di testi sacri raccolti nell’arco di un millennio prima dagli ebrei e poi dalle tante chiese cristiane. Pluralità di generi letterari (miti, cronache, raccolte di leggi, trattati, predicazioni, discorsi, proverbi, novelle, inni, canti d’amore, preghiere, epistole, parabole, profezie, visioni e molto altro), pluralità di punti di vista (moltissimi eventi, dalla creazione dell’uomo e della donna alla morte e resurrezione di Gesù, vengono narrati più volte, con varianti spesso notevoli), pluralità testuale (solo col tempo si definirono versioni standardizzate collazionando manoscritti diversi), pluralità canonica (i libri considerati ispirati non sono gli stessi per tutte le chiese cristiane, e ovviamente non sono gli stessi per ebrei e cristiani), e anche pluralità linguistica.

I libri che i primi cristiani ereditarono dal popolo al quale quasi tutti appartenevano erano infatti scritti non solo in ebraico, un’antica lingua che pochi di loro ormai padroneggiavano, ma in parte anche in aramaico, la lingua parlata da Gesù e dai suoi discepoli, e in greco, che all’epoca era usato nell’area mediterranea come lingua veicolare fra genti di origine diversa. A questi testi, i cristiani aggiunsero nel corso di alcuni decenni altri libri scritti anch’essi in greco, a formare quello che oggi viene chiamato dai cristiani Nuovo Testamento.

Inoltre, ai tempi di Gesù, dei libri ebraici che i cristiani finirono per considerare l’Antico (o Primo) Testamento esistevano versioni in più lingue. La lunga e avventurosa storia delle traduzioni bibliche era già cominciata.

2. Targumim. Testo a fronte

Nel corso dei secoli la lingua in cui erano scritti quasi tutti i libri sacri agli ebrei era caduta sempre più in disuso. Continuava a essere utilizzata per il culto in sinagoga, ma nella vita quotidiana le persone comuni si servivano perlopiù dell’aramaico. Accadeva così che molte di loro non comprendessero il significato dei testi letti durante il culto. Per questo si andò affermando la pratica dei targumim, traduzioni in aramaico che seguivano la lettura dei versetti in ebraico. In sinagoga il traduttore stava in piedi accanto al lettore, e traduceva all’impronta ogni volta che il lettore faceva una pausa, un po’ come un moderno interprete consecutivo. La traduzione era puramente orale, e solo molti secoli più tardi alcuni targumim sarebbero stati messi per iscritto.

Era una procedura «caratterizzata dalla separazione dei due elementi: da una parte il testo antico, lasciato nella sua condizione di realtà fissa, sacra, intoccabile e insostituibile; dall’altra la sua comprensione, resa possibile mediante un pratico aiuto, una traduzione. Questa può e deve essere ampiamente intelligibile, facile; e tuttavia non deve mai dare l’impressione di sostituire l’originale, né di essere essa stessa un altro testo sacro» (Buzzetti 1984, 36). Questa compresenza di testo originale e traduzione giustapposta (che ricorda la successiva pratica editoriale del testo a fronte) rendeva in qualche modo lecita una resa non letterale da parte dei traduttori, che si sentivano tenuti a parafrasare, chiosare e soprattutto attualizzare il contenuto del testo originale, nella convinzione che allontanarsi dalla lettera fosse il modo migliore per restituire il significato profondo delle Scritture, che in ogni caso erano sempre fisicamente presenti nella loro ineludibile forma originale.

3. Septuaginta. Un nuovo originale

Quando nel IV secolo a.C., in seguito alle conquiste di Alessandro Magno, il greco si andò affermando in tutta l’area mediterranea come lingua veicolare, gli ebrei sentirono l’esigenza di volgere le loro Scritture anche in quella lingua, ma lo spirito con cui venne affrontata l’impresa fu radicalmente diverso da quello che aveva animato i traduttori sinagogali.

Non si trattava più di giustapporre a un testo originale un’esplicazione che poteva permettersi divagazioni e allontanamenti, ma di sostituire a un testo un altro testo, che sarebbe diventato in un certo senso un nuovo originale. Forse per questo i più antichi resoconti dell’impresa compiuta intorno al III secolo a.C. dai settanta (o settantadue) sapienti convocati secondo la tradizione ad Alessandria d’Egitto dal re Tolomeo II, e alloggiati nell’appartata e silenziosa isola di Faro (antesignana delle attuali residenze per traduttori), si preoccupano tanto di sottolineare l’indiscutibile affidabilità del risultato finale.

Il filosofo ebreo Filone d’Alessandria (I sec. d.C.) racconta ad esempio, in una digressione del suo Vita di Mosè, che i sapienti convocati da Tolomeo tradussero

non chi in un modo, chi in un altro, ma tutti allo stesso modo, con le stesse parole, quasi che un unico suggeritore dettasse, non visto, a ognuno. Chi non sa infatti che ogni lingua – e quella greca in particolare – è ricca di termini e che lo stesso concetto si può rendere in molti modi, cambiando le singole parole e le singole frasi? Non avvenne così, si dice, nel caso di questa nostra legge, ma i termini propri greci avevano perfetta corrispondenza con quelli caldei ed erano appropriati al significato. Allo stesso modo in cui, ritengo, in dialettica e in geometria i significati non ammettono varietà d’interpretazioni, ma restano invariati nella loro formulazione iniziale, così costoro trovarono dei nomi che concordavano con le cose, i quali solamente – o meglio di altri – rendevano con chiarezza il concetto espresso (Filone 1999, 167).

Questa idilliaca visione della traduzione biblica come scienza esatta non avrebbe retto alla prova del tempo, ma in quel momento era davvero necessario che i lettori sentissero di poter confidare nella giustezza, e santità, della nuova versione in greco, perché nei secoli successivi la Septuaginta divenne la Bibbia di gran lunga più diffusa fra gli ebrei della diaspora, e poi fra i primi cristiani. Divenne, agli occhi dei fedeli, essa stessa parola di Dio, e non semplice parafrasi di traduttori.

Tuttavia la Septuaginta era inevitabilmente diversa dalla Bibbia ebraica, innanzitutto per la lontananza fra le due lingue. Un traduttore biblico nostro contemporaneo, Erri De Luca, ha descritto così questa lontananza: «L’intima incontrovertibilità di una lingua/moneta in un’altra non poteva trovare ragione di scambio più sfavorevole. L’ebraica, magra ed esatta, ne uscì sfigurata, colonizzata, interpretata dal dotto e torrentizio vocabolario del Greco, abituato a considerare barbaro ogni altro idioma» (De Luca 1994, 5). E ben prima di lui Dante Alighieri scriveva: «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia […] E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia; chè essi furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno» (Convivio, 1, 7, 14-15). Un parere più ponderato, ma alla fine quasi altrettanto impietoso, è stato espresso dal decano dei biblisti italiani Alberto Vaccari:

Il Pentateuco, che certo dovette essere tradotto per primo, si può prendere quale modello di giusto mezzo per fedeltà non servile, buona intelligenza del testo originale, e grecità corrente ma non sciatta. Alcuni libri invece, come il Cantico e l’Ecclesiaste e parecchi libri storici e profetici, sono tradotti così servilmente, da riuscire non di rado incomprensibili. Al contrario altri, come Giobbe, i Proverbi, Daniele, sono così liberi di fronte al loro testo, che sovente appena si riconoscono» (Vaccari 1930, 892).

Ma la difformità fra Bibbia ebraica e Bibbia greca non era solo linguistica. Innanzitutto la Septuaginta comprendeva un numero maggiore di libri rispetto a quelli tradizionalmente considerati sacri, alcuni tradotti dall’ebraico altri scritti direttamente in greco (oggi dai cristiani vengono chiamati Deuterocanonici). E poi l’ordine in cui i vari testi venivano presentati era diverso: alla Torah (che in greco prendeva il nome di Pentateuco) non seguivano come nella Bibbia ebraica i Profeti (Nevi’im) e poi gli Scritti (Ketuvim), ma i libri “storici”, poi quelli “poetici” e infine quelli “profetici”.

L’influenza della Septuaginta, che resta la versione ufficiale delle chiese ortodosse di rito greco, fu enorme. Modellò la lingua dei Vangeli (accanto alle Scritture ebraiche e ai targumim) e costituì per almeno tre secoli, insieme al Nuovo Testamento, la Bibbia cristiana per eccellenza, al punto che gli ebrei preferirono abbandonarla, a favore dapprima di altre versioni greche più aderenti all’originale, poi di un testo ebraico emendato e fissato dalla tradizione (il cosiddetto Masoretico). I cristiani invece finirono per adottarne il canone e l’ordine dei libri (una decisione da cui la maggior parte delle chiese protestanti si sarebbe in seguito dissociata). Inoltre sulla Septuaginta (oltre che sulle versioni siriache)si basarono le traduzioni che col diffondersi a macchia d’olio del cristianesimo in tutta l’area mediterranea vennero realizzate in lingue come il copto, l’etiope, l’armeno e il georgiano, versioni talvolta destinate a lunghissima fortuna, e che in certi casi vengono usate ancora oggi nella liturgia delle rispettive chiese nazionali.

4. Vulgata. Un monopolio lungo un millennio

I cristiani che vivevano nelle regioni più occidentali dell’area mediterranea cominciarono invece ad adottare il latino come lingua veicolare, e a volgere le Scritture in questa lingua. In breve tempo si diffusero molte versioni latine fra loro divergenti, e il problema della loro affidabilità divenne scottante. Come potevano essere tutte corrette, considerato che erano diverse fra loro? Il problema non era nuovo. Già a metà del III secolo, il teologo alessandrino Origene aveva preso di petto la questione della molteplicità delle versioni bibliche realizzando un’opera ciclopica, la cosiddetta Esapla, che riportava su sei colonne, in modo da poterli agevolmente confrontare fra loro, il testo ebraico, la sua trascrizione fonetica in lettere greche, la Septuaginta e altre tre traduzioni greche (quelle di Aquila, Simmaco e Teodozione, preferite dagli ebrei) evidenziando somiglianze e differenze.

Nel 382 papa Damaso I affidò al suo dotto segretario Gerolamo l’incarico di mettere ordine in tutte queste differenti versioni fornendo alla Chiesa un testo latino uguale per tutti che potesse essere utilizzato per la liturgia. La prima fase del lavoro consistette in una revisione e armonizzazione delle traduzioni latine del Nuovo Testamento controllate sui testi greci. Ma la parte più rivoluzionaria della sua impresa fu la successiva. Proprio consultando l’Esapla di Origene, Gerolamo si accorse che le differenze fra il testo ebraico, la Septuaginta e le altre versioni greche erano tali da rendere improba una revisione delle traduzioni esistenti. Per questo decise, prendendo un’iniziativa in quel momento assolutamente non scontata, di accantonare la versione dei Settanta, ormai considerata canonica, per attingere direttamente alla fonte dell’hebraica veritas, realizzando una nuova traduzione direttamente dai testi originali, e a questo scopo si trasferì in Palestina, dove, fra il 390 e il 405, portò a termine la versione che col tempo avrebbe preso il nome di Vulgata e rimpiazzato la Septuaginta come testo ufficiale della Chiesa occidentale.

Nella sua faticosa ricerca della migliore resa possibile, Gerolamo ebbe modo di riflettere a lungo sui criteri da seguire. In una celebre epistola scritta per difendere le proprie traduzioni dalle critiche ricevute, affermava: «Nel tradurre i greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso» (Gerolamo 2000, 385). E nel tradurre le Sacre Scritture? Anche per quanto riguardava la Bibbia, Gerolamo finiva di fatto per affermare la necessità di una traduzione non letteralista, appoggiandosi non solo all’autorevole esempio di illustri latini come Cicerone e Orazio (che traducevano i classici greci prendendosi molte libertà), ma a quello degli stessi evangelisti. Se talvolta, citando dall’Antico Testamento, Marco, Matteo, Luca o Giovanni hanno scritto qualcosa di molto lontano sia dall’originale ebraico sia dal testo della Septuaginta, «tuttavia la diversità delle parole trova un accordo nell’unità dello spirito» (ivi, 399).

La lettera di Gerolamo a Pammachio sul miglior modo di tradurre diventerà un classico della teoria della traduzione come scienza per nulla esatta, in marcato contrasto con le osservazioni di Filone d’Alessandria a proposito della Septuaginta. Eppure col tempo anche la sua versione finì per essere canonizzata come unica Bibbia degna di fede. Per più di un millennio la Vulgata venne riprodotta in migliaia di manoscritti e poi in centinaia di edizioni a stampa, fino all’edizione critica ufficiale fatta approntare alla fine del Cinquecento dai papi Sisto V e Clemente VIII dopo che nel 1546 il Concilio di Trento aveva decretato che

l’antica edizione della Volgata [ovvero la traduzione di Gerolamo integrata da altre antiche versioni latine dei libri deuterocanonici, che lui aveva scelto di non tradurre], approvata dalla stessa Chiesa da un uso secolare, deve essere ritenuta come autentica nelle lezioni pubbliche, nelle dispute, nella predicazione e spiegazione, e che nessuno, per nessuna ragione, può avere l’audacia o la presunzione di respingerla» (Enchiridion Biblicum 1993, 85).

Forse, a distanza di tanto tempo, nemmeno lo stesso Gerolamo avrebbe sottoscritto parole così perentorie, che di fatto fecero della Vulgata la sola versione della Bibbia accettata dalla Chiesa cattolica, e del latino la “lingua santa” dei cristiani d’Occidente, gettando un’ombra di sospetto su qualunque tentativo di avvicinarsi alle Scritture senza passare attraverso la mediazione del testo tradotto in quella lingua. E così, nella cultura dei paesi più uniformemente cattolici, e in Italia in primo luogo, la Bibbia per eccellenza fu per secoli quella di Gerolamo. È significativo, ad esempio, che ancora negli anni sessanta e settanta l’Einaudi pubblicasse nelle sue collane i libri biblici (gli Atti degli Apostoli nel 1967, l’Apocalisse nel 1972, il Cantico dei Cantici nel 1973) col testo della Vulgata a fronte.

5. In volgare. Perle ai porci?

Tuttavia in molti fedeli il desiderio di attingere alla veritas hebraica non si spense, e neanche quello di volgere la parola di Dio in una lingua comprensibile a tutti. Man mano che nelle varie zone dell’Europa occidentale si andavano consolidando i diversi volgari, nuove traduzioni (solitamente da Gerolamo) facevano la loro comparsa. Si ebbero allora in Europa occidentale versioni in anglosassone e in alto tedesco antico fin dall’VIII e IX secolo, poi in lingua d’oc e d’oil dal XII, e in italiano e in inglese dal XIII e XIV.

L’invenzione della stampa a caratteri mobili non fece che intensificare il fenomeno. Il primo libro pubblicato da Gutenberg nel 1455 fu una Bibbia (ovviamente la Vulgata), e le edizioni delle Scritture rappresentarono fin da subito una parte molto consistente della produzione degli stampatori. In Italia in particolare, a differenza di quanto comunemente si pensa, nel secolo che intercorre fra l’invenzione della stampa e il Concilio di Trento la produzione di volgarizzamenti biblici fu molto intensa. Il volume di Edoardo Barbieri Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento fornisce un dettagliato catalogo di un centinaio di emissioni fra il 1471 e il 1600, quasi tutte uscite da tipografie veneziane (Barbieri 1992, I, 187-392). Si tratta soprattutto di edizioni del Nuovo Testamento o dei Salmi, ma non mancano le Bibbie integrali. Fra di esse la traduzione di gran lunga più ristampata fu anche la prima a uscire, quella del 1471 del monaco camaldolese Nicolò Malermi, uno dei più precoci volgarizzamenti biblici pubblicati in Europa, appena cinque anni dopo la prima traduzione tedesca.

Una cinquantina d’anni più tardi comparvero le versioni prima del Nuovo Testamento (1530), poi dei Salmi (1531) e infine dell’intero Antico Testamento (1532) di un laico fiorentino, Antonio Brucioli, che a differenza di Malermi affermava di aver tradotto dai testi originali (probabilmente aiutato da due versioni latine a lui contemporanee, quella di Erasmo da Rotterdam del 1516 e quella di Sante Pagnini del 1527). Anche le traduzioni di Brucioli ebbero grande fortuna, ma a causa delle simpatie luterane dell’autore (e del fatto che non si trattava di un ecclesiastico) contribuirono a determinare il discredito in cui in Italia negli anni successivi sarebbero caduti i volgarizzamenti biblici.

Negli anni che separano la versione di Malermi da quella di Brucioli erano infatti cambiate molte cose. Nel 1517 aveva avuto inizio la Riforma, e già nel 1522 Lutero aveva pubblicato la sua traduzione del Nuovo Testamento in tedesco direttamente dal greco. Dodici anni dopo sarebbe uscita quella dell’Antico Testamento dall’ebraico. Per il riformatore tedesco il ritorno ai testi biblici originali era un passaggio imprescindibile per emanciparsi dalla Chiesa romana, che del latino aveva fatto lo strumento principe della propria egemonia, restituendo le Scritture al “libero esame” di ogni fedele. Da quel momento da parte cattolica qualunque tentativo di leggere la Bibbia prescindendo dalla Vulgata fu considerato un’esplicita sfida, e di conseguenza il fatto stesso di tradurre la Bibbia in volgare cominciò a odorare di eresia (come il caso di Brucioli pareva confermare).

Eppure, come racconta con dovizia di particolari Gigliola Fragnito nel suo La Bibbia al rogo, le posizioni all’interno della Chiesa cattolica non erano affatto concordi: «La lunga ed incontrastata consuetudine degli italiani con la Bibbia […] dovette influire non poco sulle tergiversazioni delle autorità ecclesiastiche: perfino di fronte al proliferare di versioni “eterodosse” ed alla crescita del numero dei loro lettori in ogni strato della società, in seguito alla penetrazione nella penisola delle dottrine riformate, la Chiesa esitò a lungo prima di adottare misure restrittive» (Fragnito 2015, 12). Mentre in Spagna e in Francia erano state le autorità temporali delle monarchie assolute ad assumersi la responsabilità di risolvere la questione vietando i volgarizzamenti biblici erano stati precocemente vietati rispettivamente già nel 1492 e nel 1526, nell’Italia degli staterelli signorili nessuno si era preso questa briga e la produzione editoriale continuava, e incontrava il favore del pubblico.

Al Concilio di Trento se ne discusse a lungo, e accesamente, nel 1546. Coloro che avversavano i volgarizzamenti sostenevano che dar la Bibbia da leggere anche agli ignoranti (ovvero ai laici) sarebbe stato come gettare perle ai porci. Come osservava con sdegno l’arcivescovo di Aix-en-Provence:

Oggi persino le donnette posseggono una Bibbia in volgare, ma cadono in gravi errori interpretandola a modo loro […]. Ai laici e alle persone semplici la lettura della Bibbia in volgare è più dannosa che utile», tanto più che, precisò un cardinale spagnolo, «se si pensa dove sorgano così tante eresie nel mondo cattolico, si scopre che la fonte è una sola: la versione dei libri sacri in vernacolo.

Coloro che invece approvavano le traduzioni fecero presente che un eventuale divieto avrebbe di fatto dato ragione ai luterani. Si domandava il cardinale Cristoforo Madruzzo: «I nostri avversari che cosa diranno allorché sapranno che noi intendiamo togliere la sacra Scrittura dalle mani degli uomini, quella Scrittura che l’apostolo Paolo voleva sempre presente sulle nostre labbra?». Quanto alle eresie, argomentò il laico Gentianus Hervetus, la ragione del loro diffondersi era un’altra: «Gli autori di dottrine perverse partirono innanzitutto dai vizi del clero, che nessuno può negare. […] Questo deplorevole stato di cose comincerà a cambiare in meglio se vescovi e popolo cristiano attingeranno Cristo direttamente dalle sacre Lettere». Del resto le Scritture stesse dichiaravano con chiarezza quale fosse la volontà di Dio a questo proposito: «L’ammirevole dono delle lingue concesso agli apostoli non indica, forse, che il Vangelo di Cristo deve essere annunziato e predicato in tutte le lingue?». Dunque «coloro che Cristo ha redento non con oro e argento ma a prezzo del suo proprio sangue non sia mai che vengano da noi considerati come porci» (Buzzetti 1984, 71-77).

Alla fine, considerati gli insanabili disaccordi fra i padri conciliari, sulla materia si preferì non deliberare, e negli anni successivi il dibattito sulle traduzioni bibliche continuò con fasi alterne. Nel 1558 un Indice dei libri proibiti stilato dall’Inquisizione le vietò. Nel 1564 l’Indice stilato in conclusione del Concilio tornò, pur con cautela, ad ammetterle. Seguirono anni di incertezza, con indicazioni confuse e contradditorie da parte delle autorità ecclesiastiche e minacce e persecuzioni da parte dell’Inquisizione, tanto che a partire dal 1567 l’editoria veneziana cessò quel fiorente ramo della sua attività, e nei due secoli successivi le uniche traduzioni in italiano furono pubblicate all’estero (a Ginevra, Lione, Parigi e Norimberga).

A porre fine a ogni incertezza fu l’Index librorum prohibitorum promulgato nel 1596 sotto Clemente VIII, che proibiva tassativamente i volgarizzamenti biblici e ne ordinava il sequestro e la distruzione, facendo eccezione solo per i paesi dove i cattolici si trovavano a convivere coi protestanti. Da quel momento cominciò da parte dell’Inquisizione un rastrellamento a tappeto delle biblioteche in cerca di Bibbie tradotte, che a centinaia vennero date pubblicamente alle fiamme.

Mentre le piazze italiane erano illuminate dai sinistri bagliori dei roghi biblici, in paesi come la Germania e l’Inghilterra le traduzioni adottate dalle chiese riformate (per i luterani l’edizione del 1545 della versione di Lutero; per gli anglicani dapprima la Matthew Bible del 1537 poi la King James Bible del 1611) diventavano testi capitali delle rispettive letterature. Come ha scritto Susan Sontag: «Probabilmente le traduzioni più influenti dal punto di vista linguistico sono state quelle della Bibbia: San Gerolamo, Lutero, Tyndale, King James» (Sontag 2004, 10). Non c’è da stupirsi non ritrovando in questo sintetico elenco nomi di traduttori italiani. Credo che ben pochi nel nostro paese, anche fra le persone colte, abbiano mai sentito nominare Nicolò Malermi o Antonio Brucioli, che pure fra i primi volgarizzatori biblici furono i più illustri, prima che le loro opere finissero in cenere.

6. Diodatina. L’artiglieria del Signore

Fu così che in Italia, dove sempre meno persone erano in grado di leggere il latino,

l’apprendimento e la memorizzazione di un corpo limitato di nozioni chiare e basilari e la trasmissione orale attraverso la voce autorizzata del clero di pochi lacerti biblici furono ritenuti bagaglio intellettuale sufficiente per il credente. […] A un popolo religiosamente maturo si preferì un popolo fanciullo, a cui somministrare piccole dosi misurate di Scrittura (Fragnito 2015, 320).

Tuttavia col trascorrere del tempo le autorità ecclesiastiche cominciarono a prendere coscienza di quanto questa generalizzata mancanza di cultura biblica rischiasse di diventare controproducente, alienando i fedeli dalla parola di Dio, più che proteggerli dalle eresie. E così nel 1757, sotto papa Benedetto XIV, un decreto della Congregazione dell’Indice tornò a permettere i volgarizzamenti biblici, purché realizzati sulla Vulgata e corredati (a differenza di quelli diffusi fra i protestanti) da note e commenti, ovviamente di provata ortodossia.

Ci volle ancora qualche anno, ma finalmente nel 1769-71 uscì la prima traduzione biblica cattolica dopo più di due secoli: il Nuovo Testamento dell’abate pratese Antonio Martini, cui seguì dal 1775 l’Antico. Questa versione, realizzata a Torino col patrocinio dei Savoia, incontrò il favore di papa Pio VI (che nominò l’autore arcivescovo di Firenze) e negli anni successivi fu ristampata numerosissime volte. Essa tuttavia non si prestava a una consuetudine quotidiana da parte dei fedeli. Coi suoi 23 grossi volumi con testo latino a fronte era decisamente ingombrante e costosa, e poi era infarcita, in conformità al decreto dell’Indice del 1757, di note, commenti e citazioni patristiche.

Per gli italiani esisteva però un’alternativa, per quanto eterodossa, ovvero la cosiddetta Diodatina, il volumetto tascabile che riportava, sine glossa, la traduzione del calvinista di origine lucchese Giovanni Diodati pubblicata a Ginevra nel 1607 e poi, riveduta e corretta, nel 1641. A distribuirla clandestinamente ma con solerzia in tutta Italia erano le società bibliche, che, per quanto di ispirazione protestante, aspiravano a far giungere la Bibbia a ogni cristiano, indipendentemente dalla confessione di appartenenza. Particolarmente influente nel nostro paese fu, a partire dal 1804, la British and Foreign Bible Society (Società Biblica Britannica e Forestiera), con sede a Londra ma con addentellati nei consolati britannici sparsi per la penisola. (Indiretta testimonianza dell’intreccio fra cultura britannica e protestantesimo italiano è anche il celeberrimo soggiorno in una dimora della famiglia Diodati sul lago di Ginevra di Lord Byron, Percy Bysshe Shelley, Mary Shelley e John Polidori nell’estate del 1816, durante il quale fu concepito Frankenstein.)

La Chiesa cattolica reagì con veemente ostilità. Nell’enciclica del 1824 Ubi primum ad summi, papa Leone XII scrisse: «Si sta propagando impudentemente in tutto il mondo una certa società, detta comunemente biblica, la quale […] si propone di tradurre, o piuttosto di pervertire, la sacra Bibbia nelle lingue volgari di tutte le nazioni. Da ciò bisogna molto temere che […] da evangelo di Cristo non diventi evangelo di uomini, o, cosa peggiore, del diavolo» (Enchiridion delle encicliche 1994, I, 1165). Pio VIII ribadì il concetto cinque anni dopo nella Traditi humilitati, e nel 1844 Gregorio XVI dedicava un’intera enciclica, Inter praecipuas machinationes, alle «insidie delle società bibliche», che «rendono comune a tutti l’arte di comprendere senza maestro le Scritture, alla vecchietta chiacchierona e al vecchio rimbambito e al verboso sofista e a tutti, purché sappiano leggere» (ivi, II, 119).

Che le preoccupazioni del pontefice nascessero da un’effettiva capillare penetrazione della Diodatina in Italia è confermato anche da un passo di un libro di Joseph Conrad, Nostromo (1904). Uno dei personaggi del romanzo è un rivoluzionario italiano in esilio nel fittizio paese sudamericano di Costaguana dopo aver combattuto con Garibaldi:

Sebbene detestasse i preti, e mai avrebbe messo piede in una chiesa, tuttavia credeva in Dio. […] In Sicilia, un inglese giunto a Palermo evacuata dall’esercito regio gli aveva donato una Bibbia in italiano – edita dalla Società Biblica Inglese ed Estera, rilegata in pelle scura. […] Nelle ore libere, studiava quel fitto volume. Lo portava con sé nelle battaglie. Adesso era la sua unica lettura e, per non venirne privato, aveva accettato il dono di un paio d’occhiali montati in argento (Conrad 1997, 37).

Questo legame fra lettura della Bibbia e sovversione fu ribadito più volte nel corso dell’Ottocento anche dalle autorità ecclesiastiche. Gregorio XVI concludeva la Inter praecipuas machinationes osservando che «i settari […] benché si professino alieni dall’eccitare sedizioni civili, pur confessano che dal rendere comune ad ognuno del popolo l’arbitrio di interpretare le Scritture e dal diffondere così fra gli italiani quella che essi chiamano totale libertà di coscienza, ne verrà spontaneamente anche la libertà politica dell’Italia» (Enchiridion delle encicliche 1994, II, 137).

Del resto, lo stesso Garibaldi considerava la Bibbia volgarizzata «il cannone che distruggerà il Vaticano» (Jahier 1922, 73) e i valdesi la definivano «l’artiglieria del Signore» (Cignoni 2011, 438). Così, «all’alba del 20 settembre 1870, dietro i bersaglieri dell’esercito italiano, entravano in Roma per la breccia di Porta Pia vari colportori con la carabina a tracolla e un carro di Bibbie trainato da un cane» (Cignoni 2004, 55). Non seguirono, come i colportori avevano sperato, conversioni di massa al protestantesimo. «La popolazione di Roma, mai stupita di nulla né entusiasta di niente, divenne presto indifferente anche alla Bibbia» (Cignoni 2011, 439). Ma a poco a poco anche nella Chiesa cattolica il rapporto con le Scritture andò cambiando.

7. Dei Verbum. Tempi moderni

Per tutto l’Ottocento si susseguirono numerosissime riedizioni della versione di Martini e di quella di Diodati, ma non uscì alcuna nuova traduzione integrale. Vennero fatti però, anche sulla scorta di nuove scoperte archeologiche e filologiche, alcuni tentativi di traduzioni parziali dai testi originali, fra cui una versione dei Vangeli dello scrittore Nicolò Tommaseo realizzata nel 1848 mentre si trovava prigioniero nelle carceri venezianee pubblicata nel 1866 (poi riedita da Einaudi nel 1949 e attualmente ancora disponibile in tascabile).

Grandi novità si ebbero col sorgere del nuovo secolo. Nel 1902 veniva fondata, in Vaticano e da cattolici di provata ortodossia, la Pia Società San Gerolamo, allo scopo – scriveva uno dei fondatori, il sacerdote e biblista Giovanni Genocchi – di «liberare i cattolici grandi e piccoli, superiori e sudditi, dotti e ignoranti» dalla «tremenda accusa» secondo cui la Chiesa «defrauda il popolo cattolico di quel pane di vita che è la parola scritta di Dio, in particolare il Vangelo» (citato da Garrone 2011, 428). Già in quell’anno la Pia Società pubblicò una nuova traduzione, piana e moderna, dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli in un’edizione tascabile molto economica che avrà un’enorme fortuna editoriale, venendo ristampata nel cinquantennio successivo più di cinquecento volte, per un totale di 23 milioni di copie.

In fondo si trattava di un’iniziativa non così diversa da quella delle vituperate società bibliche, ma questa, nata nell’alveo della gerarchia ecclesiastica, fu accolta dal pontefice con parole di lode. Era infatti necessario, scrisse nel 1920 papa Benedetto XV nell’enciclica Spiritus Paraclitus, «estendere la diffusione dei quattro Vangeli e degli Atti degli apostoli, in modo che questi libri trovino finalmente il loro posto in ogni famiglia cristiana e che ognuno prenda l’abitudine di leggerli e meditarli ogni giorno» (Enchiridion delle encicliche 1994, IV, 617-9). A distanza di un secolo, l’eventualità che una «vecchietta chiacchierona» o un «vecchio rimbambito» si trovassero le Scritture fra le mani non suscitava più tanto scandalo.

Pochi anni dopo nasceva il Pontificio Istituto Biblico (1909), che si affermò come uno dei principali centri di studi biblici al mondo e a partire dal 1922 cominciò a pubblicare le versioni dell’Antico Testamento dall’ebraico di Alberto Vaccari. Poi finalmente, nel 1929 e nel 1931, uscirono le prime nuove traduzioni integrali (ancora dalla Vulgata) dopo più di un secolo e mezzo. Questa rinascita dei volgarizzamenti biblici ebbe il suo coronamento nel 1943 in un’enciclica che sanciva un vero cambiamento nel rapporto fra Chiesa e Scritture, la Divino Afflante Spiritu di Pio XII. Dopo aver sottolineato, richiamandosi all’esempio di Gerolamo, l’importanza dello studio delle lingue in cui i testi biblici erano stati originariamente scritti, il pontefice esortava così i suoi vescovi: «Raccomandino efficacemente a voce e in pratica, dove la liturgia lo consente, la Sacra Scrittura tradotta, con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, nelle lingue moderne» (Enchiridion delle encicliche 1994, VI, 287).

Da molti l’invito fu accolto con entusiasmo, tanto che, fra il 1958 e il 1964, uscirono (da Salani, Edizioni Paoline, Marietti, Libreria Editrice Fiorentina, Fabbri e Utet) ben sei nuove traduzioni integrali, dai testi originali e realizzate alla luce dei grandi progressi compiuti nell’ultimo secolo dagli studi filologici, testuali, linguistici, esegetici e storico-critici (per queste versioni, come per quelle precedenti e successive, confronta in altro luogo di questo numero di «tradurre» l’elenco delle Traduzioni della Bibbia in italiano). Nell’intera storia dei volgarizzamenti biblici nel nostro paese non si era mai assistito a un tale fervore di pubblicazioni. E non era certo un caso, perché proprio in quegli anni si teneva il Concilio Vaticano II e la Chiesa cattolica attraversava una fase di profondo rinnovamento.

Una delle quattro costituzioni apostoliche promulgate dal Concilio, la Dei Verbum, riguardava proprio la Bibbia, e uno dei punti affrontati era quello delle traduzioni: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura. Per questo motivo, la Chiesa fin dagli inizi fece sua l’antichissima traduzione greca del Vecchio Testamento detta dei LXX; e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le versioni latine, particolarmente quella che è detta Volgata. Poiché, però, la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, a preferenza dai testi originali dei Sacri Libri. Che se, secondo l’opportunità e col consenso dell’autorità della Chiesa, saranno fatte in collaborazione con i fratelli separati, potranno essere usate da tutti i cristiani» (Tutti i documenti 1973, 94).

8. CEI. Un nuovo monopolio

Fra le novità introdotte dal Concilio Vaticano II quella che ebbe le ricadute più eclatanti fu la riforma liturgica, auspicata dalla costituzione apostolica Sacrosantum Concilium e realizzata negli anni successivi, che fra le altre cose introdusse nella celebrazione eucaristica le lingue parlate e comprese dai fedeli, superando la millenaria paura della frammentazione linguistica che aveva portato a conservare il latino come lingua ecclesiastica in ogni angolo del mondo. Ora che durante la messa la Bibbia doveva essere letta nelle diverse lingue nazionali, si resero necessarie in ogni paese nuove versioni del testo sacro che fossero perlomeno uguali per tutti coloro che parlavano la stessa lingua. A questo scopo una commissione della Conferenza Episcopale Italiana mise a punto una nuova versione della Bibbia destinata all’uso liturgico.

La commissione, che cominciò a riunirsi nel 1965 subito dopo la chiusura del Concilio, prese come punto di riferimento una delle traduzioni italiane più recenti, quella a cura di Enrico Galbiati, Angelo Penna e Piero Rossano pubblicata dalla Utet nel 1963, ma poi ci lavorò a lungo, confrontandola coi testi originali, con la Septuaginta, con la Vulgata e con altre versioni italiane, e introdusse molte modifiche, con una costante attenzione all’«esattezza teologica in conformità con le interpretazioni della Sacra Scrittura fatte lungo i secoli da Tradizione e Magistero» (Rizzi 2010, 75). La pubblicazione nel 1971 del testo definitivo fu un evento storico: era la prima volta dai tempi di Gerolamo che una traduzione biblica veniva realizzata dalle autorità ecclesiastiche, e la prima volta che una versione della Bibbia in italiano assumeva un carattere ufficiale.

La Bibbia CEI finì però per soppiantare quasi tutte le altre, ponendo termine a quella fioritura di nuove traduzioni che era seguita alla Divino Afflante Spiritu e aveva raggiunto il suo apice negli anni del Concilio. A partire dal 1971 le nuove edizioni della Bibbia italiana riportano quasi invariabilmente la traduzione CEI (dopo il 2008 aggiornata alla versione riveduta), che si tratti della Bibbia di Gerusalemme corredata dal commento dell’École biblique de Jérusalem, della Bibbia TOB con le note della Traduction œcuménique de la Bible, della Bibbia, parola di Dio scritta per noi curata per Marietti da Luis Alonso Schökel e Luciano Pacomio, della Bibbia. Via verità e vita curata da Gianfranco Ravasi per la San Paolo o di una delle altre oggi disponibili.

Un effetto collaterale di questo nuovo monopolio lo si riscontra anche nell’ambito delle traduzioni letterarie italiane, che da allora tendono a rendere sempre le citazioni bibliche rifacendosi alla versione CEI, considerata dall’editoria quella che “fa testo”. Questo però ha come conseguenza un’arbitraria standardizzazione, perché ad esempio gli autori di lingua inglese (che perlopiù vivono in paesi non uniformemente cattolici) citano le Scritture in molteplici versioni, e spesso in quella della King James Bible, che risalendo al 1611 suona alle orecchie del lettore in modo molto diverso da una traduzione moderna come quella della CEI. Inoltre spesso le versioni citate, non essendo cattoliche, sono nella resa più vicine a quelle protestanti, dei Testimoni di Geova o ebraiche disponibili nella nostra lingua, a cui sarebbe quindi più opportuno fare riferimento.

Negli ultimi decenni le eccezioni al monopolio della Bibbia CEI sono state poco numerose, tuttavia ne esistono. Sono uscite traduzioni cattoliche in collane di carattere scientifico ed esegetico, che in genere dedicano un volumetto a sé a ogni singolo libro del canone biblico (una di queste, la Nuovissima versione della Bibbia delle Edizioni Paoline, è stata anche più volte riedita in volume unico) e soprattutto sono state pubblicate alcune traduzioni interconfessionali realizzate insieme, col patrocinio delle rispettive chiese, da biblisti appartenenti a confessioni diverse, soprattutto cattolici e valdesi.

I valdesi italiani avevano conservato fin dal Seicento come propria Bibbia ufficiale la Diodatina, che nel 1924 era stata riveduta da un comitato interdenominazionale guidato dal pastore valdese Giovanni Luzzi. Luzzi aveva inoltre realizzato una propria traduzione originale, pubblicata in 12 volumi fra il 1921 e il 1931, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere rivolta anche ai cattolici ma di fatto era stata condannata dalle autorità ecclesiastiche. Fino alla svolta rappresentata anche in questo campo dal Concilio Vaticano II, l’idea di una traduzione ecumenica della Bibbia era stata semplicemente impensabile.

Invece dopo il decreto conciliare Unitatis Redintegratio ele parole della Dei Verbum che invitavano anche nel settore delle traduzioni a una «collaborazione con i fratelli separati» si aprirono nuove strade, e già nel 1968 uscì da Mondadori una Bibbia concordata a cura della Società Biblica Italiana, cui collaborarono cattolici, valdesi, metodisti, battisti, ortodossi e anche ebrei. Si trattava però di una semplice giustapposizione di traduzioni realizzate da autori di confessioni diverse, a ognuno dei quali era stato appaltato un libro. Tutt’altra impostazione, e tutt’altra fortuna, ebbe la Traduzione interconfessionale in lingua corrente pubblicata fra il 1976 e il 1985 col titolo Parola del Signore dall’Alleanza Biblica Universale in coedizione con la Elle Di Ci. Approvata dalla Chiesa cattolica, questa nuova versione, più volte riedita, ha raggiunto una tiratura di 13 milioni di copie, diventando la traduzione più diffusa in Italia dopo quella CEI.

In questo caso il gruppo di lavoro, coordinato dal valdese Renzo Bertalot, lavorò a stretto contatto e seguendo un principio guida condiviso, quello delle «equivalenze dinamiche», che in una nota in calce al volume era così sintetizzato: «Abbiamo scelto di produrre una traduzione sistematicamente attenta a presentare in maniera comprensibile soprattutto il significato. Per raggiungere tale scopo, abbiamo rinunciato ad arcaismi, semitismi…, ecc.; tutti aspetti formali che, se possono essere utili in certe versioni bibliche per studiosi, risultano in prevalenza degli ostacoli per il lettore comune». Era in fondo una ripresa del programma di Lutero, che nel 1530, nella sua autoapologetica Lettera del tradurre, scriveva: «Non si deve chiedere alle lettere della lingua latina come parlar tedesco, secondo quanto fanno questi asini [ovvero i papisti]; lo si deve chiedere piuttosto alla madre di famiglia, ai ragazzi sulla strada, all’uomo semplice al mercato, e li si deve guardare direttamente sulla bocca per capire come parlano, e poi tradurre di conseguenza» (Lutero 2006, 55).

9. Laicamente. La Bibbia come letteratura

Ha osservato il pastore valdese Fulvio Ferrario che le cause della posizione di marginalità in cui per moltissimo tempo in Italia la cultura biblica si è venuta a trovare non vanno attribuite esclusivamente alla secolare ostilità delle autorità ecclesiastiche al contatto diretto dei fedeli con la Sacra Scrittura: «Ancora nel Novecento, fino al Vaticano II, si realizza una stranissima (almeno a prima vista) e nefasta alleanza ai danni della presa di coscienza biblico religiosa degli italiani: per motivi diversi la cultura cattolica, quella di matrice liberale e quella marxista concorrono a bloccare la diffusione di una competenza scritturale di base. I cattolici privilegiano l’elemento devozionale; i liberali ritengono che lo “strano mondo della Bibbia”, come lo chiama Karl Barth, sia espressione di un approccio culturalmente retrivo alla realtà; i marxisti lo ritengono al tempo stesso origine e conseguenza dell’alienazione culturale, sociale e politica del proletariato» (Ferrario 2004, 154-5).

Negli ultimi decenni questa «stranissima e nefasta alleanza» è parsa venir meno. I cattolici hanno finalmente riscoperto il loro testo sacro, i marxisti sono pressoché scomparsi e i liberali sembrano aver ammorbidito la propria ostilità. Si è così potuto sviluppare un approccio laico alla cultura biblica prima quasi inesistente. Lo testimoniano iniziative come i seminari organizzati a partire dal 1989 dall’associazione Biblia, o anche, indirettamente, l’enorme successo di un’iniziativa come Torino Spiritualità (che pure ha un raggio d’interessi molto più vasto di quello scritturale), nata nel 2002 e da allora in continua crescita.

Nel frattempo la Chiesa cattolica non ha rinunciato del tutto a rivendicare un proprio diritto esclusivo alla diffusione della Bibbia. Il codice di diritto canonico promulgato nel 1983 sotto Giovanni Paolo II e attualmente in vigore afferma fra l’altro: «I libri delle sacre Scritture non possono essere pubblicati senza l’approvazione della Sede Apostolica o della Conferenza Episcopale; similmente, anche per la pubblicazione delle loro versioni in lingua nazionale, occorre che intervenga l’approvazione da parte della medesima autorità e, nello stesso tempo, che le versioni siano corredate da necessarie e sufficienti spiegazioni» (Chiappetta 1988, I, 901).

Tuttavia, di fatto, dopo il Concilio Vaticano II hanno cominciato a comparire numerose versioni di testi biblici prive dell’imprimatur delle autorità ecclesiastiche. Ne è stato un precursore Guido Ceronetti, che a partire dal 1967 ha pubblicato, da Einaudi e da Adelphi, traduzioni di libri veterotestamentari realizzate al di fuori della tradizione ecclesiastica e corredate da approfonditi commenti di ispirazione filosofica e letteraria. Continuamente riviste nel corso dei decenni a ogni nuova edizione, in un corpo a corpo quasi quotidiano col testo biblico, le traduzioni di Ceronetti rappresentano un tentativo caparbio e pervicace di ricerca nelle Scritture di una verità poetica ed esistenziale invece che dottrinale.

Simile nell’intento, ma molto diverso nella metodologia, l’approccio di Erri De Luca nelle sue versioni dall’ebraico pubblicate da Feltrinelli a partire dagli anni novanta. Nella quarta di copertina del primo volume uscito, Esodo/Nomi, il traduttore annunciava: «Ho tradotto questo libro pieno delle più grandi avventure sacre dell’umanità, come se non fosse mai stato fatto prima. Più che attenuto, mi sono appiattito, schiacciato sulla parola ebraica per riprodurla a calco in italiano: compreso per esempio l’ordine della frase o la rinuncia in quella lingua al verbo “avere”. L’ho fatto per ammirazione, movente primo: non perché rifulga in questa veste più che nelle altre, ma per stabilire una forma della fedeltà, l’unica per me. L’intento è di procurare nostalgia dell’originale. In alcuni punti questa traduzione è scandalosa di riflesso, per la splendida brutalità d’immagine della lingua madre». Lo scandalo delle traduzioni di De Luca, che prese in sé finiscono per risultare pressoché incomprensibili, è attenuato dalle introduzioni, che ne raccontano il nascere con accattivanti toni autobiografici.

In questo nuovo clima vanno contestualizzate le iniziative con cui alcune grandi case editrici italiane hanno presentato ai lettori la Bibbia come testo chiave della letteratura universale prescindendo da qualunque considerazione di carattere religioso. La Rizzoli ad esempio ha pubblicato negli anni ottanta alcuni libri del canone biblico in una collana prettamente letteraria come «BUR Poesia» (sebbene in traduzioni con imprimatur riprese da case editrici cattoliche). L’Einaudi invece, nell’esplicito intento di proporre ai lettori «il testo fondamentale dell’Occidente come un grande romanzo», ha ripreso fra il 1999 e il 2001 nella collana «I libri della Bibbia» un progetto della casa editrice britannica Canongate, proponendo alcuni testi (nella traduzione di Fulvio Nardoni) preceduti da introduzioni spesso irriverenti scritte da esponenti di primo piano della cultura laica, dai romanzieri Antonia Byatt (Cantico dei Cantici), David Grossman (Esodo) e Doris Lessing (Qohèlet) ai cantanti Bono (Salmi) e Nick Cave (Vangelo secondo Marco). Sempre Einaudi nel 2006 ha pubblicato un’edizione dei Vangeli a cura di Giancarlo Gaeta che intende sottolineare «il valore non solo storico ma anche culturale, narrativo e letterario che i vangeli possiedono».

Negli ultimissimi anni si è creata una convergenza fra questo approccio e l’esegesi di tipo narratologico ormai accettata anche in ambito cattolico. Dire che la Bibbia è letteratura e dire che la Bibbia è Sacra Scrittura non sono affermazioni fra loro contradditorie, come dimostrano due recenti iniziative editoriali: la collana interconfessionale dell’Editrice Domenicana Italiana e della Società Biblica Britannica e Forestiera «Traduzione ecumenico-letteraria della Bibbia», di cui sono finora usciti sei volumi del Nuovo Testamento; e soprattutto gli innovativiVangeli tradotti e commentati da quattro bibliste, usciti da Àncora nel 2015, anche a controprova del cammino fatto nella Chiesa cattolica da quando al Concilio di Trento si inorridiva al pensiero che «oggi anche le donnette posseggono una Bibbia in volgare».

10. Verità e traduzione. La questione delle questioni

All’inizio del grande poema drammatico di Goethe, Faust si accinge a tradurre i primi versetti del Vangelo di Giovanni: «Qualcosa mi spinge ad aprire quel testo / e provarmi, con cuore devoto, a tradurre / il sacro originale / nella cara mia lingua tedesca. / Apre un grosso volume e si accinge a tradurre. / Sta scritto: “In principio era la Parola”. / E eccomi già fermo. Chi mi aiuta a procedere? / Mi è impossibile dare a “Parola” / tanto valore. Devo tradurre altrimenti, / Se mi darà giusto lume lo Spirito» (Goethe 1970, 1, 95). Impresa faustiana, dunque, volgere la Bibbia, anzi più che faustiana, considerato che, complice un cagnolino inopportuno che si rivelerà essere Mefistofele, lo stesso Faust sembra gettare la spugna. E credo non ci sia traduttore biblico che non abbia sentito, faustianamente, il peso della propria inadeguatezza. Perfino Lutero, che certo non mancava d’autostima né brillava per umiltà, ammise: «Fin troppo spesso ci è capitato di cercare e ricercare un’unica parola due, tre, quattro settimane, talvolta senza trovarla proprio» (Lutero 2006, 53).

Del resto, tanto per i fedeli quanto per coloro che del testo biblico sono innamorati laicamente, la posta in gioco è niente meno che la verità. Anche Ceronetti, pur lontano da ogni dogmatismo, conclude così il commento alla sua traduzione di Giobbe: «Mai dimenticare questo: che qui lavoriamo su parole che non mentono. Chi le dice si fa strumento, staffetta, uomo di verità» (Ceronetti 1997, 273). Tanto più il peso della responsabilità grava sui traduttori cattolici, che intendano la verità biblica nel modo preconciliare di Bonaventura Mariani – «Dio ne è l’autore principale e l’uomo secondario ed istrumentale. Onde sul suo frontespizio si può scrivere “Dio”, come su quello degli altri si pone quello dell’autore umano. In conseguenza la Bibbia gode dell’infallibilità e dell’inerranza, che escludono anche la possibilità dell’errore formale e comportano la veracità e veridicità di quanto essa afferma o nega» (Mariani 1953, 373) – o che la intendano nel modo postconciliare di Giovanni Rizzi: «La fede cristiana non considera la Bibbia un testo disceso o dettato dal cielo, ma espressione del comunicarsi di Dio attraverso le modalità concrete di una tradizione viva, orale e scritta, con tutti i tratti culturali connessi» (Rizzi 2009, 6).

Ma dove risiede la verità del testo sacro? Nel «mistero» delle sue parole o nel «senso» delle sue frasi, per riprendere i termini in cui un millennio e mezzo fa poneva la questione Gerolamo? Per secoli i traduttori hanno cercato di barcamenarsi fra la Scilla dell’incomprensibilità e la Cariddi della banalizzazione, cercando compromessi e navigando a vista, rinunciando a qualunque utopia di coerenza, come di fatto ogni traduttore finisce inevitabilmente per fare, ma in questo caso con ben maggiori timori e tremori. Nel suo recentissimo La traduzione e le traduzioni Emanuela Buccioni (2016) fornisce un’ampia panoramica delle teorizzazioni in proposito. Però ci sono anche stati, soprattutto negli ultimi decenni, tentativi di seguire fino in fondo una delle due divergenti rotte.

Fra i più radicali sostenitori della necessità di rendere il senso delle frasi anche a scapito del mistero delle parole vanno annoverati gli autori della traduzione in lingua corrente Parola del Signore, uno dei quali, Carlo Buzzetti, ha più volte e in vari libri esplicitato le sue posizioni. Partendo dal presupposto che «la sopravvalutazione delle caratteristiche formali delle lingue bibliche ha come conseguenza il sorgere di traduzioni bibliche a tendenza letteralista, di sapore arcaico o esotico» (Buzzetti 1984, 86), il gruppo di lavoro interconfessionale di Parola del Signore ha «scelto di evitare ogni sforzo di imitazione formale [leggi letterale] e di favorire sistematicamente una riproduzione del significato; […] di conseguenza non ci si è messi nella prospettiva, che è disperata, del tradurre parola-per-parola; la naturalezza del linguaggio è stata una preoccupazione costante» (ivi, 107-108).

Evidentemente questo tentativo di «favorire sistematicamente una riproduzione del significato» rischia però di andare a scapito del «mistero» delle parole. Ne è un esempio la resa del versetto del Qohélet (11, 1) che ho posto in epigrafe a questo articolo nella versione di Ceronetti. Parola del Signore lo traduce così: «Investi i tuoi beni nel commercio marittimo, e a suo tempo li ritroverai», spiegando in nota: «È questo il senso dell’immagine ebraica: Getta il tuo pane sulle acque, perché con il tempo lo ritroverai». Ma il senso è davvero inequivocabilmente e solo questo, oppure la verità, la sacralità, delle parole di Qohélet sta anche nei possibili altri sensi che risuonano senza essere esplicitati nell’immagine originaria? C’è in gioco, come si vede, la spinosissima questione di come e dove vada cercato il senso del testo biblico.

All’estremo opposto si situa il metodo rivendicato da Erri De Luca, uno dei pochissimi a rifiutare la secolare e pressoché universale diffidenza verso la traduzione parola-per-parola. Lo stesso Ceronetti ha ricordato: «Raramente si può tradurre due volte allo stesso modo una parola ebraica, se si ascoltano le sue voci, da cui bisogna isolare ogni volta un senso adeguato, lavorando instancabilmente di sinonimi e di eteronimi» (Ceronetti, 1994, viii). Introducendo il suo Kohèlet/Ecclesiaste, De Luca scrive invece: «Se l’ebraico usa un solo verbo per dire tutto il “fare” di Dio, se scrive solo “asà”, anche la mia traduzione obbedisce. Metto parola italiana sotto parola ebraica e se la frase intera suona storta è certo che almeno in origine è diritta nella sua lingua. Chi la vuole ben sonante in italiano ha già tutte le traduzioni. Qui la nostra lingua è di servizio. Rispetto a Esodo/Nomi e Giona/Ionà ho progredito in estremismo della fedeltà, ma so che si può fare di più su questa via di obbedienza» (De Luca 1996, 14-15).

Questo «estremismo della fedeltà» che per De Luca è una «via d’obbedienza» è invece per il biblista ebreo Pinchas Lapide la strada maestra che porta agli errori di comprensione e resa di cui egli ritiene tempestata la storia delle traduzioni bibliche. Nel suo La Bibbia tradita, Lapide parte dalle celebri parole di Lutero secondo cui «Gli ebrei bevono alla fonte; i greci dai rigagnoli, che scorrono a partire dalla fonte; i latini alle pozzanghere» (Lapide 2014, 4) per insistere sulla necessità di risalire all’indietro il lungo corso d’acqua del testo sacro per poterlo davvero comprendere: «Originariamente, entrambi i Testamenti furono raccontati balbettando nell’ardore dell’esperienza diretta di Dio; poi furono messi per iscritto, con timore reverenziale, dai loro successori» (ivi, 16). Seguì un ulteriore passaggio coi libri del Nuovo Testamento: «I Vangeli hanno lasciato la patria e l’origine della generazione dei loro fondatori per rivolgersi ad altri popoli in un idioma che, per la prima comunità cristiana, era una lingua straniera. È certo che la buona novella di Gesù di Nazaret fu formulata originariamente nella sua lingua materna ebraica, la quale continua a formare la roccia originaria e la sostanza fondamentale del Nuovo Testamento» (ivi, 55).

Non c’è dunque da stupirsi se dopo tutti questi passaggi – dall’esperienza di Dio alla formulazione orale, da questa alla scrittura, dalla lingua ebraica a quella greca e poi a tutte le altre – qualcosa è andato perduto o è stato frainteso, tanto che oggi, conclude Lapide, «esistono solo due modi di approccio alla Bibbia: prenderla alla lettera o prenderla sul serio» (20).

Fra i tanti errori, o presunti errori, segnalati in La Bibbia tradita, uno dei più noti e controversi riguarda la resa del versetto 19, 24 del Vangelo di Matteo e dei suoi paralleli in Marco 10, 25 e Luca 18,25, che fin dall’epoca della Septuaginta è stato inteso così: «È più facile a un cammello passare per la cruna di un ago che a un ricco entrare nel regno di Dio». Risalendo alla probabile espressione aramaica usata da Gesù, Lapide suppone (e molti altri esegeti con lui, ma non tutti) che il gamai («cammello», in greco cámelon, καμηλον) riportato negli antichi manoscritti possa essere un fraintendimento di gamia (“gomena”, in greco cámilon, καμιλον), un oggetto con cui «i pescatori del lago di Tiberiade avevano dimestichezza» (ivi, 180), il che renderebbe l’immagine molto meno bizzarra.

Un’allusione a questo controverso versetto si ritrova in uno dei più stupefacenti film di ispirazione biblica mai realizzati, Salomè di Carmelo Bene, i cui titoli di testa sono accompagnati dall’immagine a cartoni animati di un allegro cammello carico di una borsa di monete d’oro che salta con disinvoltura attraverso la cruna di un gigantesco ago facendo l’occhiolino allo spettatore, come a farsi beffe delle certezze ricevute (o forse delle traduzioni sbagliate). Perché tradurre la Bibbia senza sbagliare è, come per un cammello (o una gomena) passare per la cruna di un ago, impresa impossibile.

Eppure è evidente che non esistono al mondo libri che abbiano avuto maggior successo e maggiore influenza delle traduzioni bibliche. La Bibbia è stata finora tradotta integralmente in più di cinquecento lingue e almeno parzialmente in quasi tremila (Buccioni 2016, 38), e il numero delle diverse versioni realizzate nell’arco di più di due millenni è ormai incalcolabile. Ed è anche grazie ai loro tanti diversissimi traduttori se oggi, deposte le armi delle violenze interconfessionali e ampliato a dismisura il bacino dei lettori, le Scritture cristiane vivono più che mai quello «stile di esistenza multipla» (Buzzetti 1984, 48) che da sempre contraddistingue il loro modo di intendere e trasmettere la verità e la fede.

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