TRADURRE DAL GIAPPONESE ALL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE
di Antonietta Pastore
Quando si parla della difficoltà della traduzione letteraria dal giapponese, il pensiero di solito va alla complessità della scrittura, al numero praticamente infinito di “ideogrammi” di cui si compone e alla fatica di imparare a riconoscerli. Negare che questa difficoltà esista sarebbe ipocrita, però la si può superare con lo studio. Inoltre un buon dizionario può facilmente rimediare a una lacuna mnemonica. I problemi veri sono altri, e di non facile soluzione.
La traduzione letteraria, va da sé, non ha soltanto la funzione di rendere leggibile un libro in una lingua diversa da quella originale, ma anche di far conoscere al lettore un’altra civiltà, un’altra cultura. Ora credo sia evidente a chiunque che è tanto più difficile rendere comprensibili usanze di vita quotidiana e abitudini mentali, quanto più lontane sono da quelle di chi legge. Per riuscire a farlo, innanzi tutto è necessario conoscere bene il paese cui appartiene l’autore che si sta traducendo, avervi trascorso un tempo sufficiente a comprenderlo almeno in parte.
Se questo paese è il Giappone, una prima difficoltà nasce dalla complessità delle regole che vincolano i rapporti interpersonali. La società giapponese è fortemente gerarchica, e questa gerarchia si riflette direttamente sul modo di rivolgersi a una persona. Si usano verbi diversi e pronomi personali diversi, a seconda che ci si rivolga a un superiore, a un sottoposto, a un collega di pari livello, a un amico, a un familiare. Ad esempio, ci sono tre o quattro modi di dire «io» o «tu». Scegliere quello giusto, cosa che di solito viene spontanea a un giapponese, non è affatto evidente a uno straniero. Quanto a trovare l’equivalente in italiano, è praticamente impossibile.
In italiano abbiamo tre pronomi personali per rivolgersi ad altri − tu, lei e voi − e nel tradurre dal giapponese tornano utili tutti e tre. Anche se in Italia il «voi» non viene quasi più usato, fino all’inizio del Novecento era d’uso corrente, di conseguenza è adatto a ricreare un’atmosfera d’altri tempi. Non è confidenziale come il «tu», ma non ha la freddezza del «lei», esprime perfettamente quell’atteggiamento di rispetto e al tempo stesso di affetto che era caratteristico di un figlio verso un genitore, di un allievo verso un insegnante, di un domestico verso un padrone. Un atteggiamento che nella società giapponese è molto frequente. Lo è ancora adesso, a maggior ragione in un contesto di inizio Novecento. Per questo motivo nel tradurre le opere di Natsume Sōseki (1867-1916) ho spesso usato il «voi» nei dialoghi. Nella mia versione di Sorekara, un romanzo del 1909 (E poi, Neri Pozza 2012), il protagonista Daisuke dà del «voi» al padre, del «tu» al fratello e alla cognata. A Michiyo invece, la donna di cui è innamorato, Daisuke si rivolge col «voi», perché non ci può essere tra i due troppa confidenza, essendo lei sposata a un altro uomo (a proposito dei loro dialoghi, ho provato in un primo tempo a tradurli col «tu», ma ho constatato che suonavano falsi e toglievano drammaticità alla scena).
In un romanzo, l’uso di un pronome invece di un altro può assumere un’importanza tale da costituire un momento fondamentale della storia, e in questi casi la traduzione diventa davvero problematica. Se in italiano il pronome giusto non esiste, è necessario sostituirlo con un aggettivo o un sostantivo.
Voglio fare un esempio pratico, prendendolo dal romanzo di Murakami Haruki Shikisai o motanai Tazaki Tsukuru to, kare no junrei no toshi (Bungei Shunjū, Tōkyō, 2013) , che ho tradotto io per Einaudi nel 2014 (L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio).
A un certo punto della storia il protagonista Tsukuru incontra un ex amico e compagno di scuola, Aka, con cui non aveva più rapporti da anni, e verso il quale nutre un certo risentimento. I due si danno del «tu», ovviamente, ma mentre Aka usa il pronome o-mae, estremamente confidenziale, come i due facevano ai tempi del liceo, Tsukuru usa kimi, un «tu» un po’ più formale. Dopo una lunga conversazione, riescono a capirsi e alla fine anche Tsukuru torna a dare dell’omae al suo ex amico. Peccato che in italiano abbiamo solo un pronome per indicare la seconda persona singolare: «tu». Dovevo inventarmi qualcosa. Le battute finali della conversazione nell’originale suonano così:
“O mae ni totte, ironna koto umaku iku to ii to omou. Hontō ni sō to omou yo”, to Tsukuru wa itta. Kare wa kokoro kara sō omotte itta.
“Mō ore no koto o okotte inai ka?”
Tsukuru wa kubi o mijikaku yoko ni futta.
“O mae no koto okottari wa shite inai yo. Moto moto dare no koto mo okotte inai”.
Io le ho rese così:
”Senti Aka, ti auguro che tutto vada per il meglio, te lo auguro sinceramente”, disse Tsukuru, e lo pensava davvero.
“Non ce l’hai più con me?”
Tsukuru fece cenno di no con la testa.
“Ma non ce l’ho mai avuta con te, scemo! Non ce l’ho mai avuta con nessuno, fin dall’inizio.”
Tsukuru si rese conto di essere riuscito a parlargli, alla fine, con l’antica confidenza. Gli era venuto spontaneo.
Non avevo modo di far sentire al lettore la ritrovata fiducia e confidenza di Tsukuru, a meno di introdurre nel dialogo una parola in sostituzione di o-mae, e questa parola è «scemo», un insulto che fra amici intimi può essere affettuoso.
Altro problema della traduzione dal giapponese, è far capire al lettore le circostanze materiali in cui si svolge una scena, dare un’immediata percezione di come siano fatte le case, gli oggetti, di come li si usino. Perché non tutti i lettori conoscono il modo di vivere dei giapponesi, la maggior parte di loro non sanno cosa siano i tatami, i fusuma e i futon, o lo sanno in modo approssimativo. Difficile, per chi non sia stato in Giappone, immaginare come sia fatto un tokonoma (nicchia nella parete di una stanza, in cui si appendono dipinti su rotolo e si posano vasi in cui può essere esposta una creazione floreale ikebana) o un kotatsu (tavolino basso provvisto di uno scaldino e di una trapunta sotto la quale infilare le gambe).
Un tempo si tendeva a tradurre queste parole con termini dal significato simile, ma così si finisce col falsare l’atmosfera. I tatami non sono semplici «stuoie», sono intelaiature rigide di paglia intrecciata e bordata di stoffa, di dimensioni standard, che formano il pavimento di una stanza. Fungono anche da unità di misura di superficie per gli interni. Di conseguenza «una stanza di otto tatami» non può diventare «una stanza di otto stuoie».
Nei libri contemporanei il problema si sente meno perché le abitudini di vita, e anche le case, sono molto simili a quelle occidentali, ma nei classici, come Sōseki, è diverso.
Per gli oggetti, dopo anni di esperienza nel campo della traduzione, sono arrivata a pensare che la soluzione migliore sia lasciare la parola originale giapponese, e spiegarne il significato nel glossario. È questa d’altronde la tendenza attuale nella traduzione in genere, perché alcune parole semplicemente non hanno alcun tipo di equivalente in italiano.
Anche la soluzione della nota a piè di pagina è da usare con molta parsimonia, perché spezza il filo del racconto, e quindi allenta la tensione emotiva del lettore.
Un altro motivo per cui tendo a lasciare invariata la parola originale è il desiderio di aiutare i lettori italiani a familiarizzarsi con la cultura giapponese. A forza di leggere fusuma, shōji, engawa, tokonoma, a poco a poco il lettore consolida la sua immagine di una casa tradizionale giapponese, di un modo di vivere «sui tatami», che è difficile da capire per chi non abbia soggiornato per un certo tempo in Giappone. A forza di sentir parlare di udon, mochi, miso e tōfu, si familiarizzerà con la cucina giapponese. I termini originali hanno inoltre la capacità di evocare ambienti visti in certi film giapponesi.
La parola engawa indica un «lungo corridoio dal pavimento in legno, riparato dal tetto e munito di imposte, che corre tutt’intorno alle case tradizionali giapponesi». È la definizione che ne do nel mio glossario personale. Per molti anni ho sempre tradotto questa parola con «veranda», ho cercato cioè un sinonimo, come si faceva una volta. Ma l’immagine che un italiano ha di una veranda è molto diversa da un’engawa tradizionale giapponese, quindi ormai, con riferimento a una casa tradizionale, lascio il termine così com’è.
Invece la parola zashiki − una stanza con il pavimento in tatami che può venire usata in vario modo, spesso per ricevere gli ospiti − sono restia a lasciarla invariata. A meno che nel racconto non ne venga specificato un uso particolare, opto per la parola «sala», che non connota troppo l’ambiente. Perché mi pare importante che il lettore capisca subito che stiamo parlando di una stanza.
Questo per quanto riguarda le case, gli oggetti. Il discorso cambia quando si parla di azioni o di persone, perché una parola può prendere significati diversi a seconda del contesto in cui si trova. Ad esempio, la parola swaruin teoria significa sedersi.Però occorre distinguere: in un libro di Murakami Haruki, quasi sempre vorrà dire sedersi su una sedia o un divano. Una variante può essere lo sgabello di un bar. Quindi la traduzione non presenta problemi.
In un libro di Natusme Sōseki invece swaru significa molto più spesso accovacciarsi sui tatami; e non sempre nella stessa maniera, ci si può sedere a gambe incrociate, su un fianco, oppure in posizione formale… Allora come tradurre? Le soluzioni sono diverse: «prese posto sui tatami»… «si accovacciò su uno zabuton»… «si sedette sui talloni, il busto eretto»…: dipende dalla situazione.
Altro verbo che può prendere un significato particolare è agaru, che significa salire, ma anche «entrare» o «accomodarsi». Nelle case giapponesi tradizionali, l’ingresso è diviso in due parti separate da un gradino: nella parte bassa si lasciano le scarpe, poi si sale in quella più alta, da dove si accede alle stanze. Per questo motivo all’ospite che si vuole invitare a entrare si dice: Dōzo, agatte kudasai. «Prego, salga». Quest’espressione è ormai idiomatica e viene tuttora usata, anche se negli alloggi moderni il «gradino» che separa le due parti dell’ingresso è molto basso o non esiste praticamente più. A volte è solo una striscia di plastica che delimita un minuscolo spazio dove lasciare le scarpe. Però si continua a dire: «Prego, salga» nel senso di: «Prego, si accomodi».
Nel romanzo di Murakami Haruki Hitsuji o meguru bōken (Shinchōsha, Tōkyō, 1982; Nel segno della pecora, Einaudi 2010, è la mia nuova traduzione: ne esiste una precedente, di Anna Rusconi, uscita da Longanesi nel 1982) ho dovuto risolvere un problema abbastanza complesso presentato proprio da questa espressione. Il protagonista e la sua ragazza arrivano in uno chalet di montagna, aprono la porta, si fermano nella parte bassa dell’ingresso, senza togliersi le scarpe, e danno un’occhiata all’interno (un moderno soggiorno a vista). A quel punto il protagonista dice: “Saa, agarimashō”, cioè «Be’, saliamo». Per me il significato è chiaro, ma per il lettore questa traduzione letteraria sarebbe fuorviante. D’altronde non posso tradurre «Be’, entriamo», perché i due personaggi sono già dentro la casa, si sono anche chiusi la porta alle spalle. La soluzione che ho trovato è questa: «Dài, non restiamo qui sulla porta», che darà al lettore un’idea corretta della situazione.
Un altro termine per il quale occorre avere un’attenzione particolare è sensei.
Nel linguaggio dei giapponesi, sensei ha una valenza complessa, significa «insegnante», ma indica anche una persona dotata di autorevolezza. Una persona verso la quale si nutre rispetto, a volte devozione. Quando in un romanzo incontro la parola sensei, a volte la lascio così com’è, ma spesso la traduco in italiano, perché al contrario di tanti nomi di oggetti, può avere una traduzione precisa, che comunica al lettore un’impressione esatta. Quindi la sua comprensione sarà immediata, non dovrà andare a consultare il glossario.
Se la parola sensei è usata per designare o chiamare un insegnante, la traduco con «professore». In Wagahai wa neko de aru di Natsume Sōseki (1938; Io sono un gatto, traduzione mia, Neri Pozza 2006, dall’edizione Iwanami Bunkō, Tōkyō, 1990), Kushami sensei diventa senza problemi «il professor Kushami». Nel caso di un leader politico o del capo di qualche movimento, insomma di un uomo dotato di un certo carisma presso i suoi seguaci, uso la parola «Maestro», con la maiuscola. È quello che ho fatto in due libri di Murakami Haruki: Nel segno della pecora, che ho già citato, e Nejimaki-dori kuronikuru, 1994-1995(L’uccello che girava la viti del mondo, Baldini & Castoldi 1999, ultima edizione Einaudi 2012).
Invece nel romanzo E poi di Sōseki, anch’esso già citato, sensei l’ho lasciato tale e quale. Perché a usare quest’appellativo è un giovane inserviente, Kadono, nei confronti del padrone di casa Daisuke, benché questi non sia un insegnante né nulla di simile. La sua è una pura manifestazione di rispetto. Avrei potuto tradurre con «signore», ma c’era un passaggio del libro che escludeva questa soluzione: “Daisuke o tsuramaete wa, sensei sensei to keigō o tsukai. Daisuke mo, hajimete ichi ni dō kushō shite kōgi o mōshikonda ga, he he datte sensei to, sugu sensei ni shite shimau”. Che ho reso conservando l’appellativo originale: «Lo chiamava sempre in quel modo: sensei. All’inizio, un paio di volte, Daisuke con un sorriso imbarazzato gli aveva detto che non era necessario, ma si era sempre sentito rispondere: Sì, certo, sensei».
Infatti, se Kadono l’avesse chiamato «signore», Daisuke non avrebbe avuto motivo di sentirsi imbarazzato. Il suo imbarazzo nasce dal fatto che non è un insegnante né un’autorità in qualsivoglia campo, quindi in teoria non gli toccherebbe il titolo di sensei.
Ancora a proposito della parola sensei, voglio citare un esempio interessante: l’incipit del romanzo di Kawakami Hiromi Sensei no kaban (Bungei Shunjū, Tōkyō, 2001; La cartella del professore, Einaudi 2011). Prima però è necessario fare una piccola digressione teorica. La lingua giapponese presenta una caratteristica credo unica: si compone di tre “alfabeti”. Gli “ideogrammi” – che si chiamano kanji -, gli hiragana e i katakana. Detto in maniera molto schematica, i kanji − di origine cinese, che sono qualche migliaio − rappresentano la radice delle parole, gli hiragana invece sono 46 caratteri che corrispondono ad altrettante sillabe e formano la desinenza variabile delle parole. Quanto ai katakana − sempre 46 − sono segni graficamente simili agli hiragana e foneticamente identici e si usano per indicare vocaboli importati da altre lingue. Ogni nome di persona, luogo, cibo, strumento o evento appartenente a un idioma straniero, viene trascritto con questi caratteri; quando in un testo, scorrendo le righe, si incontrano i katakana, si sa già che in quel passaggio viene nominato qualcosa di estraneo alla cultura tradizionale giapponese, che si tratti di un piatto di spaghetti, di un musicista tedesco o di una città americana.
Gradualmente, nella narrativa giapponese contemporanea, l’uso dei kanji, spesso sostituiti dagli hiragana di ben più facile lettura, è andato diminuendo. I katakana invece vanno conquistando terreno, perché nei romanzi odierni i riferimenti alla cultura occidentale − musica, cucina, moda − sono sempre più frequenti: in certe pagine di Murakami Haruki l’“alfabeto” riservato ai termini stranieri prevale addirittura sugli altri due.
Nel tradurre in italiano, la presenza di questi tre alfabeti di solito non costituisce un’ulteriore difficoltà, ma l’incipit di Sensei no kaban presentava un problema quasi insolubile: Seishiki ni Matsumoto Harutsuna sensei (先生) de aru ga, sensei (センセイ), to watashiwa yobu. Sensei (先生) dewa nakute, sensei (せんせい) demo naku, katagana de sensei (センセイ) da.
Alla lettera: «Ufficialmente, è Matsumoto Harutsuna sensei (先生). Ma io lo chiamo sensei (センセイ). Non sensei (先生). Non sensei (せんせい). Sensei (センセイ), in katakana».
La prima volta sensei era scritto in kanji, la seconda in katakana, la terza di nuovo in kanji, la quarta in hiragana, e la quinta di nuovo in katakana. Cosa mai poteva voler dire? Come ho appena detto, sensei è un termine carico di rispetto, di deferenza, e lo si scrive in kanji. Perché scriverlo in katakana? Forse per dargli una valenza diversa? Provo a consultare la traduzione francese del libro: センセイ è reso con la parola maître, «maestro», che non mi serve perché in italiano designa un insegnante della scuola elementare, mentre il suddetto Matsumoto è professore di liceo; e scrivere «Maestro» con la maiuscola sarebbe del tutto inadeguato alla situazione. Quasi meglio lasciare, nella versione italiana, il termine giapponese sensei in alfabeto latino, scelta per la quale ha optato, mi dicono, il mio collega tedesco nella sua traduzione. Ma questo mi obbligherebbe a corredare l’incipit di una lunga e noiosa nota sui tre alfabeti, e non spiegherebbe il senso della frase, che tra l’altro non ho ancora capito.
Mi viene in mente a quel punto che un mio amico giapponese, rivolgendosi alla moglie, la chiama sempre «Mayumi sensei». Benché lei non sia insegnante, e tanto meno oggetto di deferenza da parte del marito. Che la soluzione del problema si trovi nel «lessico familiare» di questa coppia?
Decido allora di chiedere direttamente a Mayumi, la quale mi spiega che il marito la chiama sensei per prenderla in giro, in modo affettuoso. Perché l’uso improprio del katakana può essere scherzoso, canzonatorio. A vote anche irriverente.
Un termine tra il canzonatorio e l’irriverente, anche affettuoso, per rivolgersi a un insegnante?
Prof !
Eccola, la parola che cercavo!
Dopo prove e riprove, l’incipit del romanzo La cartella del professore, nelle mia traduzione, alla fine suonerà in questo modo: «Ufficialmente, sarebbe il professor Matsumoto Harutsuna, ma io lo chiamo prof. Né signor professore, né professore, solo così: prof». E «prof» resterà per tutto il libro. Non solo ho trovato la soluzione al problema, ma ho anche appreso una valenza per me inedita dell’uso del katakana, cosa che mi potrà tornare utile in traduzioni future.
Insomma, trovare la parola, l’espressione giusta… è questa la difficoltà, ma anche il fascino principale, della traduzione da ogni lingua, ma in particolar modo dal giapponese. E riuscirci o meno dipende sì da una buona conoscenza della lingua e della civiltà del Giappone, ma anche da uno sforzo costante di immaginazione, al fine di cercare la soluzione per ogni via.