Un «Meridiano» per Keynes

LA DIFFICILE ATTUALITÀ DELLA NUOVA TRADUZIONE DI UN CLASSICO DELL’ECONOMIA

di Giuseppe Berta

A proposito di: John M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta e altri scritti, progetto editoriale, saggio introduttivo e cronologia di Giorgio La Malfa, notizie sui testi e note di commento di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese, traduzioni di Giorgio La Malfa, Milano, Mondadori, 2019, pp. CCIV-1111, 68,00.

Dedicare un «Meridiano» a John Maynard Keynes non è di per sé una scelta tale da suscitare sorpresa, e non solo perché la collana di Mondadori non ha ospitato soltanto autori di opere letterarie. C’è il precedente, del 1973, di Luigi Einaudi, anche lui economista e a sua volta assai versato nel lavoro giornalistico. Ma Einaudi è stato considerato a suo modo un maestro di scrittura italiana e uno dei fondatori del canone del giornalismo novecentesco. Non di meno, sarebbe difficile sostenere che Keynes non meriti di figurare fra i saggisti e i polemisti maggiori del suo secolo: basta rileggersi Le conseguenze economiche della pace la traduzione di The economic consequences of the peace (1919) condotta da Vincenzo Tasco e uscita tempestivamente nel 1920 da Treves (ma ne esiste anche una del 2007 di Franco Salvatorelli per Adelphi). È sufficiente a rendersi conto di un talento che aveva pochi eguali, dotato, soprattutto, di un’inclinazione naturale per la diffusione delle proprie idee, grazie a quella rara virtù che gli permetteva di coniugare l’originalità del suo punto di vista a forme espressive di singolare efficacia, capaci di imprimersi nella mente dei suoi contemporanei (e non solo).

Tuttavia, chi si riferisce a questo Keynes, il saggista e il polemista princeps del suo tempo in materia economica, tende a richiamarsi piuttosto all’autore di densi scritti come The end of laissez-faire (1926: La fine del laissez faire, anonimo Utet del 1936 con un allora opportuno Autarchia economica come sottotitolo) o di profili biografici celebri come quello dedicato al Dottor Melchior un vinto, invece che della sua opera economica maggiore, La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, che costituisce il cuore del «Meridiano» messo pazientemente insieme da Giorgio La Malfa. Il nome del curatore è emblematico: Giorgio La Malfa è stato un politico, oltre che un economista, la cui formazione è avvenuta nel solco di una stagione di cultura politica sviluppatasi nell’orbita di Keynes. Non solo perché il giovane La Malfa studiò a Cambridge negli anni sessanta, avendo come tutor la più radicale degli allievi di Keynes, l’unica donna del gruppo, Joan Robinson, ma perché a inaugurare un ciclo keynesiano era stato proprio il padre, Ugo La Malfa, ispiratore del più keynesiano tra i documenti elaborati dai governi italiani, la celebre Nota aggiuntiva del 1962, agli albori del centro-sinistra, quando aveva la responsabilità del ministero del Bilancio. A suo modo, quel testo rimane forse come l’impostazione più rigorosa di una politica economica ispirata ai principi del grande economista inglese: intervento pubblico riequilibratore del processo economico, investimenti dello Stato, dinamica dei salari strettamente correlata all’andamento della produttività (la «politica dei redditi» che da allora in poi divenne l’asse della proposta del Partito repubblicano dei La Malfa, padre e figlio) componevano una piccola summa del keynesismo ortodosso e di governo dell’Occidente nel trentennio della grande espansione economica susseguito alla seconda guerra mondiale. Ugo La Malfa ambiva a essere l’interprete di quella linea laburista in senso lato che informava allora la strategia di sviluppo economico dei grandi paesi industrializzati d’Europa.

Non sorprende, dunque, che Giorgio La Malfa, ormai distante dalla politica attiva, a ottant’anni voglia tornare ai cardini della sua formazione giovanile, per riscoprirne i significati politici e civili oltre che per additarne il permanente valore per la teoria economica. Potremmo forse dire che anch’egli si collochi fra i keynesiani “di ritorno”, i quali – dopo talune incertezze e anche sbandamenti sul piano delle scelte di politica economica dell’epoca in cui hanno imperversato le tendenze al liberismo– appaiono di nuovo più che persuasi dalle ragioni di Keynes e inclini perciò a rifiutare il pensiero economico che è stato dominante nell’ultimo trentennio, quello in cui è stato totalmente riabilitata la teoria dell’equilibrio economico generale, nella sua versione più formalizzata e matematizzata, dove ogni atto economico è stato ricondotto alla razionalità dei comportamenti di mercato. Chi ha avvertito, invece, il richiamo e la presa delle idee di Keynes, del suo rifiuto degli automatismi di mercato, dell’invocazione della necessità dell’azione pubblica per riequilibrare il processo economico, torna oggi con interesse rinnovato a un approccio che conserva il fascino della rivolta contro l’ortodossia di mercato.

Questo «Meridiano» nasce destando anche un po’ di sorpresa: la sorpresa e la meraviglia che nascono dall’aver esso lo scopo di riproporre la lettura dell’opera teorica maggiore di Keynes. L’enfasi che ha accolto la sua pubblicazione sarebbe stata forse minore se in luogo della Teoria generale il volume avesse proposto la raccolta dei saggi più famosi e più celebrati di Keynes, dalle Conseguenze economiche della pace a una nuova edizione degli Essays in Persuasion (1931) e degli Essays in Biography (1933), meglio noti ai lettori italiani coi titoli di Esortazioni e profezie nella traduzione di Silvia Boba per il Saggiatore (1968) e Politici ed economisti. Ma Adelphi, credo anche per impulso di Giorgio La Malfa, ha riproposto di recente il primo e qualcuno dei testi raccolti nel secondo di questi libri. Di questo non si sono più avute riedizioni dal 1974, quando Einaudi aveva ristampato la traduzione realizzata da Bruno Maffi nel 1951, ancora sotto gli auspici di Piero Sraffa, allora consulente dell’editore torinese per i libri d’economia. Chi scrive aveva suggerito l’opportunità di ripubblicare Politici ed economisti parecchi anni fa, ma pare che Einaudi (che non voleva far uscire il libro sotto il marchio Mondadori), dopo averci pensato sopra, abbia finito col rinviare sine die la nuova edizione.

Quindi, a mio avviso, esistevano le condizioni per un’ampia raccolta degli scritti non strettamente economici di Keynes, quelli in cui risalta- inevitabilmente più che nella General Theory –la qualità di scrittore di Keynes, meglio ancora se in una silloge del genere fossero stati ricomprese altre testimonianze del suo lavoro giornalistico, fino a includere, per esempio, anche qualcuna delle sue recensioni. Di sicuro, un simile «Meridiano» avrebbe trovato accoglienza presso un pubblico già formato, propenso a leggere di Keynes più gli scritti brevi che non l’opera che ha definitivamente consolidato il suo valore di economista.

Mi affretto però ad aggiungere che esistevano altresì tutte le condizioni per una nuova edizione della Teoria generale, che rivedesse radicalmente la traduzione di Alberto Campolongo del 1947 ancor oggi ristampata dalla Utet a prezzi più che economici. The General Theory of Employment, Interest and Money (1936) meritava largamente una traduzione ex novo, che utilizzasse tutto l’apparato filologico e storico oggi disponibile, in grado di attingere alla vastissima ricostruzione biografica portata a termine da Lord R.J.A. Skidelsky (la cui opera è apparsa in forma incompleta in Italia, essendo la traduzione a cura di Federico Varese presso Bollati Boringhieri limitata a due volumi su tre). Per sgombrare il campo da equivoci, va detto subito che la traduzione consegnata da La Malfa al «Meridiano» è più che degna degli elogi che le sono già stati tributati, qualificandola a un livello ben superiore rispetto all’edizione Utet. Così come non ci sono dubbi che essa sia destinata a diventare l’edizione di riferimento della General Theory in lingua italiana (sebbene gli economisti tendano in genere a rifarsi all’edizione inglese contenuta nei Collected Writings di Keynes, pur carente da tanti punti di vista). Al termine della nota all’edizione che precede la sua traduzione, Giorgio La Malfa scrive, forse con un po’ ottimismo:«Spero che questa nuova edizione possa accompagnare le nuove generazioni di giovani che si avviano allo studio dell’economia, ma anche richiamare un pubblico più ampio interessato ai grandi temi dello sviluppo, della piena occupazione, delle diseguaglianze economiche e sociali e, in definitiva, della democrazia» (p. CCI).

Ottime intenzioni, ma che forse non possono essere affidate a un «Meridiano» con un prezzo di copertina troppo alto perché molti vi si possano accostare. È auspicabile che Mondadori metta in cantiere una versione per gli «Oscar» della Teoria generale, magari limitata alla sola opera, senza il corredo pur pregevolissimo di testi più o meno coevi che la contornano e la completano. Un’edizione economica la renderebbe sì accessibile, ma probabilmente più a quel «pubblico più ampio» evocato da La Malfa che agli studenti di economia i quali non hanno consuetudine coi classici del pensiero (al pari, si direbbe, della maggioranza dei loro professori). Se ben ricordo, in un dibattito su Keynes e sull’eredità storica del pensiero economico che si svolse sulle pagine del «Sole-24 Ore», vi fu chi sostenne che non avesse più senso leggere i classici del passato, esattamente come per un medico d’oggi non serve a nulla conoscere Galeno. In fondo, a che servono i manuali se non a esporre, nell’essenziale e per quanto ancora sembra utile, le teorie degli economisti di un tempo?

Giorgio La Malfa, nella sua lunga carriera intellettuale e politica, ha frequentato più assiduamente le aule parlamentari di quelle dell’università. Si è così potuto sottrarre all’impressione prodotta da quel processo di progressivo isterilimento cui la «triste scienza», come Theodor Adorno definiva l’economia, è andata soggetta. Avendo insegnato in corsi di laurea in Economia per un ventennio, ho ben chiaro che il rimando alla storia del pensiero e ai suoi classici è praticamente azzerata, in un’epoca in cui il nome di un grande intellettuale eterodosso ed eclettico come Albert O. Hirschman suscita pochi riscontri anche presso chi si occupa di teoria dello sviluppo. Ogni volta che ho potuto, forte del fatto che insegnavo storia e non una disciplina economica, ho cercato di porre gli studenti a contatto coi classici: non ricorrendo alle sintesi loro dedicate, ma alle loro pagine, nel tentativo di incentivare una lettura diretta. Ricordo di aver dedicato un corso allo Schumpeter di Capitalismo socialismo e democrazia, un libro che non ha praticamente diritto di cittadinanza nei curricula degli economisti in formazione. Mi sarebbe piaciuto realizzare un altro corso su Keynes dove, sì, avrei fatto leggere delle parti della Teoria generale, ma in cui il nucleo più consistente del programma sarebbe stato dedicato agli Essays in Persuasion. La mia convinzione di non-economista è infatti che la visione riformatrice di Keynes risalti più nitidamente in quegli scritti che non nei capitoli della Teoria generale, i quali richiedono al lettore attuale uno sforzo considerevole.

Il libro esige un’operazione mentale particolare perché va letto come si legge un classico e non un libro d’oggi. Per accorgersene basta soffermarsi sulla sua struttura, che non ha nulla a che vedere coi libri di economia (i libri, non i papers prediletti dal mainstream odierno, che rifugge dalle sistemazioni complessive e tanto più dalle visioni generali, che si misurano con prospettive eterogenee). Ogni volta che affronto il grande libro di Keynes provo la medesima impressione che si ha quando ci si immerge nella lettura di volumi in cui l’autore dichiara, a volte anche con un po’ di disordine e con qualche rischio di confusione, la propria visione del mondo, proprio come fanno i grandi classici elaborati nell’epoca moderna. Ci si imbatte così in dichiarazioni, riferimenti e anche scarti improvvisi che un editor contemporaneo sarebbe attento a espungere, a favore di un’argomentazione più sorvegliata, da cui siano escluse le divagazioni. Che significato si potrà annettere a nomi come quello di Silvius Gesell, un economista anarchico di cui si è persa la memoria, o dello stesso John Hobson, un radicale inglese fra le età vittoriana e edoardiana che viene citato solo ormai dagli storici per il suo libro sull’imperialismo? Essi hanno senso nell’universo culturale di Keynes, che forma l’alveo in cui prendono forma e scorrono le sue teorie. Un universo condizionato dalla sua percezione dei classici del passato, degli autori su cui è avvenuta la sua formazione giovanile e a cui reca un tributo conservandone alcuni tratti, racchiudendo e rideclinando i loro termini dentro il suo nuovo lessico economico. Pur grande innovatore qual è e, anzi, orgoglioso portatore di una riforma intellettuale che lo fa sentire come un protestante costretto dalle proprie intime convinzioni a rompere con la tradizione cattolica, Keynes manifesta rispetto per quel passato cui vuole rendere onore. Sono personalmente persuaso che la General theory sia stata scritta così com’è anche sotto l’influenza del magistero di Alfred Marshall, che Keynes menziona spesso. Presentando la Theory non manca mai citare i Principles of Economics di Marshall, come fa, per esempio, nelle prefazioni alle edizioni tedesca e giapponese del suo libro (opportunamente riportate nel «Meridiano»). Eppure, Marshall si collocava nel solco della tradizione di David Ricardo, che Keynes al contrario non apprezzava per niente. Coloro che studiavano il testo di Marshall, in realtà, potevano benissimo fare a meno di Ricardo, come se di fatto non fosse mai esistito, tanto poco necessario era per loro conoscere le sue idee. Ebbene, anche la deferenza di Keynes verso Marshall è, almeno in parte, impastata con quest’attitudine: d’ora in avanti, sottintende, chi leggerà la Teoria generale potrà fare a meno dell’ortodossia neoclassica precedente. Per questo, Keynes finisce col riversare tanto di se stesso nel suo libro, sotto l’urgenza che il lettore si accorga della potenza delle sue idee innovatrici.

Ma è ora di tornare alla scelta di La Malfa di fare della Teoria generale l’asse portante del «Meridiano». Perché era necessaria una nuova edizione? Non certo per mera cura filologica; piuttosto per rivendicare la natura riformatrice del pensiero di Keynes, caduto in una zona d’ombra prima della nuova stagione di grande crisi aperta dal biennio 2007-09. Insomma, se si interpreta bene ciò che scrive La Malfa nella sua estesa introduzione, riscoprendo Keynes si riscopre l’instabilità connaturata ai sistemi di mercato, con le fluttuazioni cui dà origine e con essa «la necessità essenziale che lo Stato si predisponga a intervenire per compensare tali fluttuazioni , attenuando i picchi di esuberanza che possono portare a eccessi di fiducia o a lunghi periodi di depressione» (p. CII). Sembra che a La Malfa stia a cuore soprattutto un recupero politico di Keynes, poiché mostra di considerare come la sua «eredità più importante […] la convinzione che vi siano un ruolo e uno spazio per un’azione riformatrice» (p. CIX). Addirittura La Malfa non esita a gettare un ponte tra gli anni venti e renta del Novecento e la nostra epoca post-crisi globale, perché in fondo il problema sarebbe lo stesso, quello della regolazione del ciclo economico contro i fautori dell’autosufficienza della dinamica del mercato. In fondo, è quel che La Malfa aveva già scritto in un rapido profilo biografico di Keynes apparso da Feltrinelli nel 2015. Non a caso, esso si concludeva con la citazione dell’ultimo periodo della Teoria generale, quello in cui si denuncia il gravame delle idee del passato come la remora più grave a cambiare il corso dell’economia, superiore al vincolo inerziale posto dagli interessi organizzati con la loro funzione di freno. È un’affermazione, quella ripresa da La Malfa, su cui conviene riflettere, in primo luogo perché evidentemente Keynes ottant’anni fa non riuscì a vincere la sua battaglia e a debellare il pensiero economico che la sua opera voleva neutralizzare. Il secondo è che c’è da dubitare, visto come le cose sono andate, che il pensiero degli economisti del passato eserciti un influsso paralizzante sugli intenti di trasformazione maggiore di quello dei grandi interessi. Se il capitalismo occidentale è stato riformato poco dopo l’ultima crisi, si ha il sospetto che a determinare quest’esito sia stato il peso di Wall Street ben più dell’ortodossia economica, quella che oggi si identifica col mainstream. Ecco perché a mio avviso è inevitabile aggiornare Keynes, visto che il capitalismo che si tratta di regolare non è più quello dei suoi tempi.

Beninteso, anche La Malfa non può non essere stato toccato da dubbi analoghi. Ma non vi si sofferma, preferendo rimandare allo spirito che informava l’opera di Keynes, alla sua «saggezza nuova», che va ripresa dalla Teoria generale e calata nella realtà dei giorni nostri. Non a caso chiude così la sua introduzione: «Keynes ha fatto la sua parte nel riempire l’agenda di contenuti validi per il suo tempo. Toccherebbe ora all’economia e alla politica contemporanee individuare la risposta ai problemi del nostro tempo e delineare la “saggezza nuova per una nuova èra” di cui il mondo ha più che mai bisogno (p. CXII).

È, come dire?, insieme troppo e troppo poco. Da un lato, si rinvia alla lettura della Teoria generale per ritrovare le ragioni di un’azione riformatrice che si è smarrita lungo il percorso della storia. Dall’altro, si invita (chi?) a definire un’agenda nuova per la riforma del capitalismo, visto che non è possibile dedurla da Keynes. Il rischio della confusione tra diversi livelli è alto. Cerchiamo di andare per ordine: se diciamo che occorre rivendicare la funzione dell’intervento pubblico nell’economia per dotarlo di un raggio più esteso dell’attuale, allora probabilmente ci collochiamo in un solco storico che è stato quello inaugurato dalla fortuna del pensiero di Keynes e della sua tradizione a opera delle politiche, genericamente etichettate come latamente socialdemocratiche, che hanno tenuto banco grosso modo per i trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale. Se poi ci spingiamo oltre e aggiungiamo che, in questa logica, andrebbe rilanciata la prospettiva di un’economia «mista», con la coesistenza tra i due comparti pubblico e privato, come quella che ha sperimentato l’Europa (e l’Italia) più o meno nello stesso periodo, pur in una forma innovativa, che non sia la riproposizione pura e semplice di quell’esperienza, diciamo una cosa che anche economisti fuori dal mainstream in senso stretto sostengono, come fa per esempio Mariana Mazzucato, secondo cui non si può pensare al processo economico senza configurare il ruolo dello Stato. Ma qui siamo già oltre Keynes, nel senso che egli morì prima di osservare questi sviluppi dell’intervento pubblico. La Malfa, comunque, si arresta prima di enunciare un punto di vista simile. Soprattutto non si pronuncia sui possibili sviluppi, oggi, di ciò che Keynes chiamava la sua «teoria monetaria della produzione», centrale nella struttura della Teoria generale ma non affrontata da La Malfa. L’impressione è che il curatore tenda a fermarsi prima di approdare a esiti più definiti e specifici e si contenti di evocare l’orientamento riformatore di Keynes.

Le circa 350 pagine del «Meridiano» che sono occupate da altri testi di Keynes, i quali – secondo La Malfa e Giovanni Farese, lo storico del pensiero economico che ha collaborato all’edizione – hanno lo scopo di inquadrare la Teoria generale nel contesto del dibattito economico e politico della fine degli anni Trenta, risultano assai pregevoli, ma non bastano a sciogliere le domande cui si è accennato. Se è un Keynes profondamente vivo quello che ci viene presentato, allora come vanno letti e interpretati questi scritti più brevi, posto che la natura dell’operazione editoriale non è soltanto storica? Se si segue un criterio filologico, allora il significato è chiaro: gli scritti che fanno da contorno alla Teoria generale consentono di comprendere meglio un’opera la cui lettura è complessa e ne offrono una possibilità di analisi più sicura, in cui rientrino anche gli elementi di dubbio, incomprensione e incertezza che apparvero ai primi lettori di quel grande libro, insieme con lo sforzo compiuto ds Keynes per divulgare le sue idee e farne apprezzare il grado di novità.

L’utilità di questo corredo di articoli e interventi sta anche nel fatto che, a differenza di altri testi più celebri, in cui la visione del grande economista risalta di più, qui si entra in ambiti più particolari e si dà conto di momenti di confronto anche disciplinari. Insomma, in prevalenza si tratta di testi che non si leggono come le pagine notissime sul liberalismo come lo intendeva Keynes, sulle sue convinzioni circa il futuro possibile dell’umanità, e così via. Anche di qui, tuttavia, traluce l’immagine di un periodo storico e soprattutto di un capitalismo molto differenti da quelli caratteristici dell’ultimo decennio. Un capitalismo, come dire?, che poteva ancora essere regolato con gli approcci e con le risorse che allora poteva mettere in campo la politica. Non dimentichiamo che Keynes conservava una grande fiducia nella politica, anche quando rendeva i politici oggetto delle sue ironie. Ma se non avesse mantenuto quella fiducia, non avrebbe dispensato i suoi consigli al governo inglese durante la guerra e non si sarebbe impegnato nella logorante campagna per gli accordi di Bretton Woods. Quella fu l’ultima stagione di Keynes, l’estrema, quando già presentiva la fine. E fu altresì una battaglia diversa dalle precedenti, perché si combatté in nome della forma che doveva avere il futuro economico del mondo. A combatterla fu, questa volta, Lord Keynes, ormai figura dell’estabilishment britannico, non più l’eterodosso eccezionalmente brillante che stava ai suoi margini, ed egli la condusse come uno scontro di idee e di modelli, dietro i quali però si stagliava la forza cogente degli interessi. Non era una contesa che si potesse vincere col vigore e l’originalità del talento, perché le ragioni del Bancor (la moneta non effettiva con cui Keynes avrebbe voluto regolare le transazioni del mercato mondiale) cozzavano contro la potenza ormai egemone degli Stati Uniti, a riprova che gli interessi hanno il potere di sconfiggere e piegare le idee.

Quando si situa Keynes nella cornice politica ed economica dei suoi anni si coglie la distanza dalla nostra condizione odierna, che ha rimodellato il campo delle relazioni tra la rappresentanza politica e gli interessi dominanti. Certo, è giusto sollecitare, come fa La Malfa, a misurarsi in maniera diretta coll’economista più influente del secolo scorso così da riattivare la sua visione, maturata negli anni venti e pienamente configurata nel decennio successivo, grazie alla fatica culminata nel suo libro più grande. Proprio per questo, oggi Keynes è da rileggere senza diaframmi, in modo da non separare l’elaborazione della Teoria generale da quella cavalcata intellettuale iniziata nelle stanze di Versailles, durante le discussioni per il trattato di pace nel 1919 e proseguite fino a Bretton Woods e all’immediato secondo dopoguerra, almeno quel poco di esso che a Keynes fu concesso di vivere. Per questo, si desidererebbe che questo meritorio «Meridiano» non isolasse la Teoria generale dal complesso dei saggi di Keynes e così ne uscisse in pieno rilievo tutto il percorso che fece di lui una personalità così intensa, che si è indotti ancora a interrogare, anche quando il nostro mondo ha assunto un assetto così lontano e diverso dal suo.