Un pilastro della «Medusa»

ALESSANDRA SCALERO NEL CARTEGGIO CON LA SORELLA LILIANA

di Elisa Bolchi

«Per ogni libro che ho tradotto potrei raccontare che cosa intanto succedeva nella stanza e fuori, nella vita. Sarebbe, immagino, di scarso interesse, eppure la mia vita ha accompagnato la vita delle parole che ho cercato» (Basso 2010, 1). Queste parole con cui Susanna Basso apre il suo Sul tradurre. Esperienze e divagazioni militanti mettono subito l’accento sulla stretta relazione tra vita e parola che necessariamente si instaura nel processo traduttivo, suggerendo quanto la conoscenza di “chi” ha tradotto possa aiutare a far luce su “cosa” è stato tradotto. Sempre più si avverte l’esigenza di dare un volto, di “incarnare” il nome del traduttore o della traduttrice in una storia e in un percorso personale e professionale, come conferma una conferenza organizzata da Deborah Dawkin nel maggio 2017 alla British Library, intitolata proprio The Translator Made Corporeal: Translation History and the Archive, il cui scopo è stato studiare il traduttore “in carne e ossa”, per meglio comprenderne il ruolo di agente culturale nel suo contesto storico e sociale.

Il mio studio si inserisce dunque in questa prospettiva e mira a ricostruire la figura di Alessandra Scalero grazie alle carte d’archivio, e in particolare al carteggio con la sorella Liliana, traendo così dall’ombra una traduttrice che ebbe un ruolo pioneristico nell’importazione della cultura straniera in Italia in epoca fascista. Spero, in questo modo, di mettere sotto la giusta luce una donna che fece della traduzione non solo un mestiere ma la propria “professione”, grazie alla quale poté mantenere l’indipendenza economica senza contare sull’appoggio di un padre o di un marito dal nome noto, fatto piuttosto insolito per una donna nata alla fine del diciannovesimo secolo. Fine ultimo di questo studio è creare quella che Munday definisce una microhistory of translation and translators (Munday 2014, 2: microstoria di traduzione e traduttori) che, attraverso il personaggio di Alessandra Scalero così come traspare dal carteggio con la sorella Liliana, contribuisca a fare luce sulle pratiche traduttive della prima metà del Novecento, aiutando a ricostruire parte del contesto culturale della traduzione nell’Italia fascista, già ben studiato da Christopher Rundle (2010, 2011), Kate Sturge (2010) e Francesca Billiani (2007). Come suggerisce lo stesso Munday, infatti:

it is by focusing on the “little facts” of everyday lives that a picture can be built up of the specific interaction between a translator and other individuals, groups, institutions and power structures […]. On the larger scale, the new narratives we construe based on these ‘little facts’ have the potential to challenge dominant historical discourses of text production, which are in turn dominated by prominent literary figures and translators (Munday 2014, 14).

è concentrandosi sui “piccoli fatti” delle vite quotidiane che si può costruire un ritratto delle specifiche interazioni tra un traduttore e altri individui, gruppi, istituzioni e strutture di potere […]. Su una scala più ampia, le nuove narrazioni che interpretiamo basandoci su questi “piccoli fatti” hanno il potenziale di mettere in discussione i discorsi storici dominanti della produzione testuale, a loro volta dominati da personaggi e traduttori letterari di primo piano (Traduzione mia).

Un archivio (quasi) intonso

Poco o nulla si è saputo della traduttrice che per prima tradusse in italiano autori come Virginia Woolf, John Dos Passos o Willa Cather, fino alla donazione alla Civica biblioteca Francesco Mondino di Mazzè (Torino) di scritti, documenti, lettere, diari e documentazione fotografica delle sorelle Alessandra, Liliana e Maria Teresa Scalero, figlie del compositore Rosario Scalero. Il materiale è stato concesso in comodato d’uso alla biblioteca dagli eredi della famiglia, Dominique e Maxime Arnoldi, che mantengono i collegamenti con il Canavese, luogo d’origine della famiglia, e con il comune di Mazzè in particolare. Alla catalogazione del fondo, iniziata nel 2012 e ancora in corso, hanno contribuito alcuni membri del consiglio della biblioteca, come Lidia Ferrua ed Emma Mondino, con la collaborazione di Dario Pasero, Michele Curnis e Doriano Felletti, docenti del liceo Botta di Ivrea, e di Fabrizio Dassano, storico e ricercatore.

Il Fondo Scalero è già stato descritto da Anna Ferrando su la «Fabbrica del libro» (Ferrando 2013) e da Michele Curnis e Dario Pasero nella rivista «L’Escalina» (Pasero, Curnis 2012). Non mi dilungherò quindi qui nella descrizione delle carte; basti dire che l’Archivio custodisce oltre duemila lettere, con editori e autori, ma anche corrispondenza privata tra le sorelle, la madre e il padre, che visse negli Stati Uniti d’America per oltre vent’anni. I carteggi sono spesso discontinui: seguendo gli scambi epistolari ci accorgiamo della mancanza di diverse lettere, mentre altre volte la corrispondenza si interrompe per mesi, o addirittura per anni. I motivi sono molteplici; parte delle lettere potrebbe essere andata dispersa o smarrita a causa dei frequenti spostamenti delle sorelle; si trovano anche cenni, nella corrispondenza, a valigette rubate in treno, a ladri che irrompono nella casa di Roma e frugano tra le carte in cerca di denaro, o ancora ai soldati tedeschi che durante la guerra si insediarono al Castello di Montestrutto, divenuto dimora della famiglia Scalero. Nonostante la frammentarietà e la discontinuità, questo carteggio riesce a delineare con una certa chiarezza la crescita intellettuale delle due sorelle, aiutando a raccontare come Alessandra riuscì a farsi strada nel panorama culturale e artistico del primo Novecento, a padroneggiare un mestiere, arrivando ad affermarsi professionalmente col solo uso della propria intelligenza, una dote che la sorella Liliana sottolinea in una lettera del 1929:

 Non occorre ti ripeta […] quanto piacere mi faccia la tua magnifica attività, e i frutti magnifici che essa dà già ora e quelli, ancora più cospicui, che essa darà in avvenire. Brava, bravissima, e dire che di noi tre, in fondo, sei stata la meno aiutata finanziariamente, ed hai fatto tutto da sola, e dici tu, ma non è vero, senza talenti. Almeno hai avuto il talento migliore, quello di riuscire, e mi pare che basti (20.10.1929, n. 6: da ora in poi tutte lettere devono intendersi, salvo diversa indicazione, conservate nel Fondo Scalero or ora descritto).

Oltre alle lettere, il Fondo Scalero custodisce pagine di diario, bozze di traduzioni e di articoli, e infine un’autobiografia inedita di Liliana Scalero intitolata Tre sorelle e un padre e datata 1973. Questo dattiloscritto, insieme al volume autobiografico Uomini e memorie pubblicato da Liliana nel 1968, aiuta a raccogliere i dati fondamentali della biografia delle sorelle Scalero, offrendo al contempo affettuose e colorite descrizioni dei rapporti famigliari. Entrambi i testi, però, si concentrano soprattutto sul personaggio di Liliana e sul rapporto di questa con gli intellettuali del Novecento, nel caso di Uomini e memorie, e con il padre e la sorella Maria Teresa nel caso di Tre sorelle e un padre, tanto che la stessa Liliana ammette di aver pensato, per un certo tempo, di intitolare il libro Due sorelle e un padre, perché Alessandra morì a soli 51 anni, quando la carriera letteraria di Liliana Scalero iniziava a decollare. In Uomini e memorie Alessandra non appare che di sfuggita, anche perché Liliana qui accenna soltanto al suo lavoro di traduttrice, concentrandosi invece più sulla propria figura di memorialista, romanziera e intellettuale. Eppure, come accenna Liliana ripensando alla sorella nelle sue memorie inedite, «qualcuno potrebbe scrivere su di lei un romanzo tipo “scrittrice inglese”» (Scalero 1973, 114), e basta leggere alcune delle lettere che Alessandra le scrive per accorgersi di quanto avesse ragione, poiché nel carteggio si susseguono nomi di autori chiave del Novecento e colpi di scena degni dei migliori feuilletton. Proprio perché dati e notizie su Liliana Scalero sono già disponibili al lettore, anche grazie a due studi recenti che ne inquadrano le qualità di critica musicale (Curnis 2013) e ne descrivono i rapporti con intellettuali come Giuseppe Antonio Borgese (Ferrando 2014), questo studio si concentra su Alessandra, che fu tra le poche – affidabili – traduttrici dall’inglese del primo novecento. Chi era, dunque, Alessandra Scalero?

Memorie di due ragazze per bene

Alessandra nacque a Torino il 19 ottobre 1893, primogenita di Clementina Delgrosso, proveniente da una famiglia alto borghese del torinese, e Rosario Scalero, musicista, di Moncalieri. I due si conobbero in una scuola di musica di Torino dove Clementina, come tutte le ragazze di buona famiglia, prendeva lezioni di pianoforte. Si innamorarono e si sposarono giovanissimi, nel 1892, superando l’iniziale refrattarietà della famiglia Delgrosso, che avrebbe desiderato un matrimonio più prestigioso per Clementina. Due anni dopo Alessandra nacque Liliana che, ancora in fasce, venne portata col resto della famiglia a Londra, dove Rosario aveva trovato lavoro come insegnante di violino e dove restarono per un anno. A Londra Rosario Scalero raffinò il proprio animo artistico frequentando pittori preraffaeliti e impressionisti inglesi, costruendo così dentro di sé quell’animo cosmopolita che lo portò a viaggiare e spostarsi per tutta la vita, e che seppe trasmettere alle figlie.

Nel 1896 la famiglia Scalero tornò a Torino per un paio d’anni per poi spostarsi a Lione, ancora una volta per seguire il lavoro del padre, il quale da Lione si trasferì poi a Vienna, dove venne assunto come violinista al Wiener Hofoper, l’Opera di Vienna. Nel 1901 nacque anche la terza figlia, Maria Teresa, e la famiglia si ricongiunse a Vienna. Solo in parte, però: la piccola era ancora troppo fragile per sopportare il freddo e le nebbie viennesi e così restò a Torino con la nonna mentre Alessandra e Liliana valicarono le Alpi nel 1902. Scrive Liliana nella sua biografia: «Giunti alla Südbahn […] trovammo nostro padre al treno, che poi ci portò in città con uno dei famosi fiaker, perché avessimo di Vienna una prima piacevole impressione» (Scalero 1973, 17). La città restò infatti sempre nel cuore delle due ragazze; qui impararono il tedesco, che affiora a più riprese anche nella loro corrispondenza e che Liliana definì «una nostra seconda lingua, tanto che la parlavamo quando eravamo sole, io e mia sorella Alessandra, disapprovate dai membri anziani della famiglia» (Scalero 1973, 48). Le giovani Scalero frequentarono la scuola della Novaragasse, un quartiere frequentato prevalentemente da ebrei, fino al 1907, quando lasciarono definitivamente Vienna per trasferirsi a Roma. Rosario infatti aveva ottenuto la cattedra di contrappunto al Conservatorio di Santa Cecilia (DEUMM 1988). Uno zio, inoltre, aveva comprato a Prati, in riva al Tevere, una casa grande abbastanza per accogliere tutta la famiglia, ed è in questa casa che anche la piccola Maria Teresa, che aveva ormai sei anni, poté finalmente ricongiungersi ai genitori e alle sorelle. Le tre sorelle crebbero dunque nella grande villa di Prati, spesso frequentata da persone facoltose, intellettuali e musicisti, dove il padre, quando «aveva tempo e non dava lezione» parlava con le sue ragazze «e più tardi con i suoi allievi più cari, quattordici ore al giorno, senza stancarsi né stancare mai» (Scalero 1973, 32). Se Alessandra e Liliana seppero sviluppare un personale e al contempo competente spirito critico fu anche grazie al padre, poiché Rosario Scalero lasciava loro una libertà insolita per l’epoca nel campo della cultura e delle letture. «Nostro padre mi lasciò leggere Zazà di Zola a dodici anni ricordava Liliana in vecchiaia – e a quella stessa età, avendo io visto in casa l’Igiene di Mantegazza, mi disse, un po’ titubante: “Veramente, non dovresti leggerla… ma via, leggila pure”» (Scalero 1973, 74).

A Roma le sorelle continuarono a frequentare la scuola: Liliana, più incostante, finì per abbandonare gli studi nel 1912, mentre Alessandra proseguì fino alla seconda liceo classico, quando fu costretta ad abbandonare per motivi di salute, una salute che rimase cagionevole per tutta la vita. È questo aspetto di Sandra che Liliana ricorda nelle sue memorie: da bambina era bellissima, ma poi «perdette questa bellezza, per il troppo studio e il troppo darsi nei vari campi in cui lavorava. E qualcosa di malefico e oscuro già covava nel suo organismo, perché verso i vent’anni essa aveva perduto ogni bellezza, appariva magra, sciupata, di brutto colore» (Scalero 1973, 59).

Quando scoppiò la prima guerra mondiale Alessandra prese il diploma di infermiera specializzata al Politecnico di Roma e si arruolò nell’American Red Cross, la Croce Rossa americana, ad Avellino. Il Fondo Scalero conserva il carteggio di questo periodo, senz’altro affascinante per uno sguardo interno alla Grande Guerra, ma estraneo ai fini di questo saggio. Fu comunque un periodo importante nella vita di Alessandra, che la introdusse alla cultura e alla lingua americana e la abituò a vivere lontana da casa e dalla famiglia, accrescendo il suo senso di indipendenza in anni in cui, come spiega Liliana, le ragazze colte erano semplicemente «un ornamento delle famiglie» (Scalero 1973, 66). Eppure ciò fu vero solo in parte per la famiglia Scalero, anche perché nel 1919 Rosario partì per gli Stati Uniti lasciando a Roma le figlie e la moglie, che dovettero così badare a loro stesse. Poco dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, l’ingegner Pietro Lanino, il mecenate che sosteneva il quartetto d’archi diretto da Rosario Scalero, gli aveva infatti comunicato che a causa della guerra, non avrebbe più potuto continuare a sovvenzionare l’iniziativa. Lanino, in realtà, preferì dirottare quelle risorse a sostegno della sforzo bellico, fondando un Comitato di difesa interna che raccoglieva la «frange più radicali dell’interventismo nazionalista» (Molinari 2014, 152) e – spiega Liliana nell’autobiografia – non poteva quindi convivere con le sovvenzioni a un quartetto musicale che era solito eseguire per lo più musiche di compositori tedeschi (Scalero 1973, 70). Furono anni difficili per Rosario Scalero, il quale però, al termine della guerra, ricevette un telegramma dalla Mannes School of Music, un ottimo conservatorio di New York, destinato a mutare le sorti della famiglia. Gli veniva offerta una cattedra di composizione, per sostituire il professore svizzero Ernst Bloch che andava in pensione. Clementina in un primo momento esitò, ma alla fine tutti insieme decisero che era un’occasione da non sprecare e Rosario Scalero si imbarcò sulla Giuseppe Verdi alla volta dell’America. Maria Teresa, la figlia minore, lo raggiunse a New York nel 1926 per occuparsi della gestione dei suoi affari, e anche Liliana trascorse circa un anno con lui, vivendo in una pensione di Lexington Avenue, mentre Alessandra iniziò a tradurre partendo proprio da autori americani come Eugene O’Neill e John Dos Passos. Alla Mannes School Rosario Scalero fu insegnante, tra gli altri, di Giancarlo Menotti, fondatore del Festival dei due mondi di Spoleto; di Samuel Barber, un compositore insignito del Pulitzer per la sua opera Vanessa; e di Nino Rota, tra i più influenti compositori della storia del cinema. Questi “illustri allievi” resteranno sempre affezionati al maestro, frequentandone la famiglia per molti anni.

Dopo diversi anni a New York Rosario si trasferì al Curtis Institute, il prestigioso conservatorio di Philadelphia, tra le più rigorose istituzioni universitarie musicali degli Stati Uniti. Qui fece una discreta fortuna grazie alla richiesta da parte di una famiglia facoltosa di comporre musiche per i carillon delle campane e, con i soldi guadagnati da questa insolita commessa, incaricò moglie e figlie di acquistare il Castello di Montestrutto, che sorgeva in cima a un’aspra salita di 226 scalini e non aveva «acqua potabile né telefono, né luce, né comodità alcuna» (Scalero 1973, 103). Fu proprio in questa dimora isolata da tutto che Alessandra Scalero tradusse i romanzi di Virginia Woolf e molti dei testi che formarono la «Medusa» mondadoriana.

Il debutto come traduttrice

Un aspetto affascinante del carteggio delle sorelle Scalero è il punto di vista privilegiato che offre per osservare la maturazione personale, oltre che professionale, di Alessandra. Le prime lettere di questo carteggio (se si escludono quelle relative al periodo presso l’American Red Cross) risalgono al 1925, quando Liliana era a Nizza per studiare musica mentre Alessandra era a Roma, nella casa di Prati, e si scrivevano per lo più per raccontarsi come trascorressero il tempo libero, per aggiornarsi su piccoli pettegolezzi, o per discutere di primi amori e fidanzamenti. Molte lettere del 1925, ad esempio, riguardano il fidanzamento di Alessandra con Giulio Cesare Silvagni, che divenne poi romanziere, attore e scenografo, un fidanzamento durato più di due anni, trascorsi quasi tutti a distanza. Quando Silvagni si decise a chiederle la mano, Sandra lo raggiunse a Parigi, per capire come sarebbe stata la vita in Francia e se davvero fossero decisi a trascorrerla insieme. Dopo alcune lettere che raccontano la vita parigina, il carteggio si interrompe per riprendere il 25 ottobre 1925. Sandra, tornata a Roma, scrisse alla sorella, all’epoca a Nizza per studiare musica, per comunicarle che si era rimessa «a lavorare con la viva speranza di riuscire a spuntarla in qualche modo, ma soprattutto di guadagnar denaro: la cosa che francamente mi preme di più» (25.10.1925). Del fidanzamento con Silvagni non si fece più cenno, se non in una lettera del 5 maggio seguente, in cui Sandra raccontò che ormai iniziava a «dilagare», a Parigi ma anche a Roma, la storia del matrimonio di Silvagni con «la contessa settantenne, brutta e per giunta senza un soldo», una «storiella» nella quale «il povero Cesarino non ci fa una gran bella figura». L’unico rapporto di Alessandra che avrebbe potuto condurla al matrimonio si concluse dunque con uno stimolo ad affrontare il lavoro con rinnovata determinazione. È dalla fine del fidanzamento, infatti, che il tono delle lettere di entrambe cambia e le questioni lavorative e culturali acquistano sempre maggiore spazio nelle lettere, spargendosi man mano a macchia d’olio fino a occupare, negli ultimi anni di vita di Sandra, l’intero spazio della lettera, a indicare significativamente come vita privata e vita lavorativa fossero diventate un’entità sola.

Il lavoro cui Alessandra faceva riferimento nella lettera citata poco sopra era quello di costumista teatrale, che ella svolgeva da diversi anni insieme alla sorella Maria Teresa. Avevano anche esposto i loro manufatti alla Biennale delle arti decorative di Monza del 1923, alla quale avevano partecipato, tra gli altri, alcuni dei più famosi e influenti designer, pubblicitari, pittori e architetti italiani del primo Novecento, come Fortunato Depero, Marcello Nizzoli e Gio Ponti; questa esperienza le aveva dunque permesso di prendere primi contatti con un mondo artistico avanguardista. In qualità di costumista collaborò inizialmente con il Teatro greco di Siracusa, per poi approdare al Teatro Sperimentale degli Indipendenti fondato nel 1922 dal regista e critico cinematografico Anton Giulio Bragaglia, che era un punto di riferimento delle avanguardie italiane e che offrì a Scalero i contatti artistici in grado di introdurla nel mondo editoriale. Di questi primi contatti troviamo traccia nella sopracitata lettera del 25 ottobre 1925, nella quale Alessandra raccontava:

dietro consiglio e approvazione di Nino (Anton Giulio Bragaglia) prenderò anche la ‘tessera’ di Bragaglia: sembra poi che non sia quell’antro di malvagità che ne vuol fare la zia Immy, vi sono molti intellettuali che discutono e si divertono pacificamente, si è in famiglia, tra Flores da una parte e Tilgher dall’altra; a meno che non ci si vada alle 3 di notte, ma a quell’ora gli intellettuali, si sa, sono a letto. Vedremo fin dove dureranno i miei propositi di mondanità; ma qualche po’ di gente bisogna pure che veda, data la mia posizione (25.10.1925).

Fu proprio la frequentazione dell’ambiente teatrale a instillare in lei il desiderio di occuparsi di aspetti più culturali e letterari, come emerge da una lunga lettera che scrisse a Liliana nel febbraio del 1926, che aprì commentando À la recherche du temps perdu, che stava leggendo e che le stava regalando «molte belle ore ed emozioni “artistiche”». Descrisse il capolavoro di Proust come «un libro, o piuttosto una serie di libri, d’eccezione, non credo accessibile a chiunque (non dico ciò per vantarmi di comprenderlo), e non saprei molto come e dove letterariamente collocarlo» (27.2.1926). Questo commento lascia già trasparire una quasi naturale propensione di Alessandra per il lavoro di consulente editoriale, ben prima che esso diventasse la sua professione. Raccontò poi alla sorella di aver aggiunto, alle sue già non poche occupazioni, lo studio del russo: «lo faccio sul serio perché penso sia una cosa utile; non mi riesce difficile, conoscendo tante altre lingue, principalmente il tedesco e il greco. Col tempo vorrei dare alle mie occupazioni un carattere un poco più intellettuale» (27.2.1926). A insegnarle la lingua fu il critico e saggista Umberto Barbaro, che diede vita al Movimento Immaginista e che diresse la rivista «La bilancia» con Paolo Flores (cui Sandra accenna nella sopracitata lettera del 25 ottobre). Barbaro, che era già inserito nel gruppo del Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, la accompagnava spesso a teatro e con lui ella si recò a vedere, nel giugno del 1926, una rappresentazione dell’Ubu Roi di Jarry, messo in scena da Bragaglia, ma per il quale Sandra non era ancora “pronta”, tanto che lo descrisse a Liliana come «un orrendo pasticcio [futurista] che Barbaro e io abbiamo ingoiato di buon grado, ad onta delle deboli recriminazioni di Nino esterrefatto, il quale non sa darsi pace di nutrire tanta amicizia per due così eletti specimen di snobismo» (13.6.1926). Frequentava inoltre quotidianamente la sala dell’Odescalchi, che in quel periodo era in gestione alla compagnia di Francesco Prandi, un attore che aveva cercato di mettere in piedi una compagnia teatrale con Camillo Pilotto, il quale però recedette dal contratto con Prandi per unirsi al Teatro dell’arte di Pirandello. Quella di Prandi fu una frequentazione che permise ad Alessandra Scalero di osservare da vicino come «inscenare un lavoro» e imparare molto sui «piccoli dettagli che non si vedon durante la rappresentazione» (27.11.1926). Alessandra trascorreva anche il proprio tempo libero con attori, artisti e intellettuali del mondo teatrale, come il grecista Ettore Romagnoli, che collaborava agli allestimenti del Teatro greco di Siracusa, e Maria Letizia Celli, un’attrice che Sandra vide debuttare con la Denise Marette di Jean-Jacques Bernard e che poi “sfondò” grazie al cinema. In tal modo cominciava a formarsi un gusto sempre più ricercato e avanguardista.

Fu nell’ambito di queste frequentazioni che Alessandra Scalero iniziò a tradurre testi teatrali, nello specifico un paio di drammi di Eugene O’Neill, The Great God Brown (cui ella fa riferimento nelle lettere come «Dio Brown») e Anne Christie, due traduzioni che definì «roba alla quale tengo fino a un certo punto, dato che non è il mio mestiere e non rappresenta che un à côté nelle mie occupazioni» (27.11.1926). Dal carteggio delle sorelle si riesce infatti a ricostruire parte del percorso che le opere O’Neill compirono per approdare in Italia. Sebbene ella sostenesse che queste traduzioni, le quali uscirono per lo più su riviste specializzate, non rappresentassero che un aspetto marginale del suo lavoro, era già evidente quanto la scoperta di nuovi talenti e la loro “introduzione” nel contesto culturale italiano la appassionasse:

ho dovuto scrivere all’autore per i diritti in caso di rappresentazione, cosa non improbabile perché le due cose sono piaciute molto a tutti quanti le hanno lette. Se l’autore risponde affermativamente, e se io non sono già stata preceduta da altri – cosa, anche questa, da vedersi – bisognerà bene che io faccia qualcosa, per non far brutta figura. […] Intanto una rivista mi ha già mandato a chiedere, per mezzo di Barbaro, di pubblicare una scena o due (gratis et amore dei, s’intende).

Quello che vorrei sapere in via diplomatica è questo: se qualche casa editrice sarebbe disposta a pubblicare queste cose, e se quel signore se ne vorrebbe, eventualmente, interessare lui. Se tu riesci a comunicare personalmente con lui, bada di non dirgli in nessun modo il nome di O’Neill: dirai che non ne sei autorizzata, perché io sto ancora in trattative e non vorrei fare nomi prima di sapere con esattezza se posso disporre di questa opera, e anche perché – puoi dirlo francamente – non vorrei espormi a incidenti poco piacevoli. Puoi far cascar la cosa dall’alto: che si tratta di un autore interessantissimo, un novello Jack London teatrale da “lanciarsi” di cui si parla già molto in Francia e in Germania e che sarà rappresentato quanto prima in Italia. Vedo ora tante case editrici che pubblicano teatro straniero, sovente “porcheriole”, scusami, e mi pare che queste cose qui dovrebbero andare. Se in caso si combinasse qualcosa io ti darei volentieri qualcosa da tradurre, potresti farlo benissimo anche tu. Quello che vorrei sapere per ora è: a quale casa editrice potrei presso a poco rivolgermi e sotto che forma – non avendo mai trattato di questi affari – posso fare l’offert. (27.11.1926; la sottolineatura è nel testo).

Dalla lettera appare quanto Alessandra fosse ancora digiuna di dinamiche editoriali, dato che iniziava solo allora a muovere i primi passi nel complesso mondo dei permessi, dei diritti e della pubblicazione, destinati a diventare il suo pane quotidiano. Proprio per questo chiedeva alla sorella di farsi da tramite con alcune sue recenti conoscenze milanesi, che probabilmente incontrava frequentando il salotto di Borgese (Ferrando 2014), come “quel signore” che, stando a quanto scriveva Liliana a Maria Teresa il 30 novembre 1926, potremmo supporre essere il dott. Gabriello Comelli, un giovane che muoveva all’epoca i primi passi nell’editoria, forse collaborando con la Modernissima di Dàuli, e che nel 1929 fondò l’effimera casa editrice degli Omenoni (Caccia 2013, 234).

Eppure, sebbene ancora inesperta, già da questo primo lavoro Alessandra si occupò non solo della mera traduzione del testo, ma dell’acquisizione dei diritti e della sua collocazione tanto sulle scene quanto sul mercato editoriale, e benché continuasse a parlarne come di un affare che la preoccupava «fino a un certo punto», ne scrisse lungamente e a più riprese alla sorella, anche in cerca di aiuto, dato che in quel periodo Liliana stava studiando a Milano e poteva quindi entrare più facilmente in contatto con letterati ed editori. Grazie a una telefonata fatta direttamente a O’Neill, Alessandra arrivò poi a scoprire che egli non poteva prendere alcun impegno riguardo la rappresentazione delle sue opere in Italia, perché queste risultavano già «prenotate» da Paolo Giordani, segretario della Società degli Autori (la odierna SIAE). «In sostanza è ancora una volta la vecchia storia scrisse a Liliana i copioni posson dormire sonni beati nei cassetti della Società degli Autori, coprirsi di polvere, ma se non si appartiene a certe chiesucce, se non si sottostà a certe condizioni, rosicchiatevi pure le unghie e statevi buoni» (15.12.1926).

Recriminava poi che Giordani tenesse «da anni – dico da anni – “The Hairy Ape” e “Anna Christie” e finora non se n’è vista l’ombra sulle scene italiane» (15.12.1926) – sebbene in realtà La scimmia villosa risulti messo in scena dal Teatro dell’Arte di Pirandello nel 1925 (Alberti 1974, 37) –, e mentre si lamentava del fatto che «è così che questo signore fa gli interessi degli autori che tutela», si immaginava come si sarebbe sviluppato l’affare:

Giordani finirà col metterlo nelle mani del Teatro di Stato. Tutto ciò è più che altro noioso confessava alle mie traduzioni io tengo relativamente, dato che non è il mio mestiere, mi ha divertito molto di farle ma se domani dovessi esser messa da parte non strillerei. Quello che m’interesserebbe è di vedere lanciato l’autore (15.12.1926).

È significativo che a interessarla non fosse tanto la sua «fatica» quanto il «vedere lanciato l’autore», poiché questo fu un aspetto cruciale nel suo approccio al lavoro, spesso caratterizzato da un desiderio di farsi mediatrice, di servire da “ponte” al servizio del passaggio della letteratura da un paese a un altro, per cui spesso non aspettava che le traduzioni le venissero affidate ma cercava lei stessa gli autori più interessanti, per poi trovare il modo di collocarli nel mercato editoriale. Così agì non solo con O’Neill, ma anche con Francis Edwards Faragoh, un prolifico sceneggiatore statunitense che nel 1931 si aggiudicò anche una nomination agli Oscar e che Scalero tradusse per il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia; e lo stesso fece, per non fare che un altro esempio, con John Dos Passos, che tradusse per prima in italiano, descrivendolo alla sorella come «uno scrittore d’ingegno […] e umano dietro la sua scorza di avanguardia» (15.2.1931). Scalero dovette aspettare il 1930 per vedere Il Grande Dio Brown messo in scena dal Teatro degli Indipendenti con la sua traduzione, e addirittura il 1939 per Anna Christie, con Anna Magnani nel ruolo di protagonista.

Non sembrano essere rimaste lettere tra le due sorelle dal settembre 1928 al marzo 1930, quando Alessandra si era ormai trasferita a Milano e lavorava per la Modernissima, la casa editrice fondata da Gian Dàuli nel 1924 e salvata dal tracollo finanziario per l’intervento di Spartaco Saita (Marchetti 2014). Liliana invece aveva lasciato Milano, dove non aveva avuto successo nell’ambiente musicale, ed era tornata dalla madre a Roma. Qui divenne frequentatrice sempre più assidua di Adriano Tilgher, una «conoscenza preziosa», della quale nel gennaio 1931 ringraziava la sorella, in quanto il filosofo divenne poer lei un vero maîtreàpenser, oltre che un amico fidato, col quale trascorreva molti pomeriggi parlando di letteratura e di filosofia e che la introdusse negli ambienti intellettuali romani.

Nell’aprile del 1930, di ritorno da uno degli ultimi allestimenti del Teatro greco di Siracusa, Alessandra scrisse alla sorella un piccolo sfogo riguardo i suoi molti impegni alla Modernissima:

Ti puoi figurare il lavoro e la confusione che ho trovato, qui, dopo quasi due settimane di assenza. Tutto ciò che riguarda la Modernissima è in mani mie, e Gian Dàuli non sa più nemmeno quel che c’è da fare quando non ci sono io. Fra l’altro, debbo ora fare le prefazioni per tutte le edizioni che escono; e Saita, che è l’amministratore proprietario della casa editrice, vuole che traduca, traduca… (7.4.1930).

Dal tono con cui Alessandra tirò le somme di quel primo periodo di lavoro milanese traspariva però la soddisfazione che le derivava dal molto lavoro:

Fra giorni farò il contratto per cinque o sei volumi, tra tedeschi e inglesi, tutti di prim’ordine. Alfred Neumann, uno dei maggiori autori tedeschi, del quale pubblichiamo tutte le opere, vuole che gli traduca la sua ultima commedia. Come se non bastasse, il lavoro e le offerte mi piovono ora da ogni parte. La “Nuova Antologia”, dopo il primo articolo, me ne ha chiesti altri tre, altri a novelle straniere di mia scelta, e Bemporad mi ha mandato a dire che sarebbe disposto a trattare con me per pubblicazioni di autori stranieri: scelta di autori, traduzioni, ecc. Tutto sta a compiere il primo passo; poi, le cose comminano da sé! (7.4.1930)

Nel 1930 Alessandra scoprì anche, questa volta grazie all’aiuto della sorella Maria Teresa, che l’agenzia letteraria che si occupava delle opere di O’Neill non aveva mai ceduto nulla per l’Italia ed era quindi possibile ottenerne i diritti. Scrisse quindi a Liliana una lettera dalla quale trapela, ancora una volta, il suo spirito imprenditoriale:

Degli acting rights mi interesso per altre vie; ma per i publishing rights: malgrado il momento poco propizio, io vorrei vedere di fare ancora un tentativo, e vedere se fosse possibile farne la pubblicazione, sia pure di una scelta soltanto. Ora vorrei sapere se puoi parlarne tu in proposito con Ciarlantini, facendogli presente che la cosa può essere di importanza personale per lui, dati i suoi rapporti con l’America. Se tu declini “l’alto onore”, allora mi lancerò io “à sa poursuite”, qui a Milano, magari vedrai tu di farmi sapere con certezza quando ci sia. In breve il mio programma è questo. La collezione può interessare, dato che si può persuadere il pubblico italiano che questo è un autore “da leggersi” e non da “sentirsi”. Si può vedere poi di persuadere l’A., per esempio, a concedere la pubblicazione a buone condizioni, facendo vedere che questo gioverà alla rappresentazione in seguito, ecc.; con un minimo di à valoir, o con la sola percentuale. Per le traduzioni, tu ed io ce ne potremmo assumere il rischio di una parte, accettando una compartecipazione invece di pagamento in contanti; infine si potrebbe sfruttare la smania di traduttore di Cesarino Giardini e appiccicargliene qualcuna; infine poi se fosse il caso, ahinoi, bisognerebbe offrire la direzione della collezione a lui, a meno che non fosse il caso di offrirla a Ciarlantini addirittura. […] L’essenziale è di far presto, perché ho sempre paura che si muovano altri. Se con Alpes non c’è niente da fare tenterò Corbaccio. Se tu parli con C., devi fargli osservare questo: che io ho altre vie, che tenterei subito (Modern[issima] esclusa perché gravata sino alla fine del ’31 da impegni per romanzi); ma sento il dovere morale di parlarne prima con Alpes, dato che di O’Neill avevo parlato con lui per primo e che mi pare la cosa più adatta. (3.12.1930; le sottolineature sono nel testo)

Appare piuttosto chiaramente la concretezza delle idee di Alessandra non solo in termini di importazione culturale, ma di costruzione di collezioni e collane editoriali che potessero interessare il pubblico, e che a lungo pianificava, provando a proporre i propri progetti a diversi editori, dalle edizioni I.R.E.S. di Palermo alla Alpes, fondata a Milano nel 1921 dal giornalista e scrittore Franco Ciarlantini, che all’epoca della lettera era presidente della Federazione nazionale fascista dell’industria editoriale. Personaggio molto influente, con un ruolo attivo all’interno dell’organizzazione della propaganda del regime, era considerato conoscenza invidiabile. Eppure Alessandra, appunto a proposito del progetto di traduzione delle opere di O’Neill, confidò alla sorella di non aver ancora visto

 i grandi vantaggi morali e sociale che mi derivano dalla sua amicizia che tanti m’invidiano. Se farà O’Neill, il vantaggio sarà tutto suo e non certo mio. Ci vuole una bella faccia tosta a “profittare” come fa lui della gente. Credi che quegli uomini così grossi, coi capelli crespi e il fare insinuante, sono pigri, egoisti e poi in ultimo presuntuosi e suscettibile di carattere. Meglio i “rossi” come Borgese (15.2.1931).

Non è chiaro in quale occasione le Scalero fecero la conoscenza di Ciarlantini. Forse il primo contatto venne da Liliana, la quale infatti si era già informata circa un colloquio avuto dalla sorella con l’editore, aggiungendo: «Lui me ne ha accennato in una lettere, dicendomi che stai molto bene e che gli hai corretto la sua pronuncia francese, per cui adesso avràpiù coraggio a far la famosa conferenza» (26.1.1931). Il carteggio lascia però intuire che si trattasse di una rapporto coltivato più per interesse che per stima; in questa stessa lettera Liliana spiegava di aver fatto a sua volta alcuni favori a Ciarlantini per cui «se ne ha calma e tempo può tirarci fuori un bel po’ di articoli», aggiungendo però che non si aspettava «nulla di particolare; in fondo basta il contatto generale, anche soltanto tuo con l’uolmo attivo e dinamico, e qualche utile ne viene sempre, anche non volendo». Alessandra continuò a frequentarlo, pur non risparmiando mai una certa ironia nei suoi confronti, come quando nel comunicare alla sorella che avrebbe telefonato a Ciarlantini, la rassicurò: «stai tranquilla che lo tratto coi guanti; è così contento quando gli si fanno dei complimenti, che val la pena di sprecarli» (27.2.1931).

Il tono del carteggio tra le sorelle era diventato intanto più professionale. Esse tendevano ormai a scriversi di questioni quasi esclusivamente lavorative e i “pettegolezzi” riguardavano per lo più gaffe di uomini d’affari nei confronti di artisti e scrittori, o sviste nelle traduzioni, come quando Sandra confidò a Liliana di aver trascorso tutta la settimana

a rabberciare le nobili fatiche della sig.a [Alberta] Albertini, un’insigne donna che fa spedire allo Zar Paolo “un telegramma” […] e traduce “Direktor der Posten” “Direttore delle guardie”, scambiando Posten=sentinella per Posten=poste. Come se poi le guardie avessero dei “direttori”! Eppure pensa che l’Albertini va per la maggiore in casa Borgese, e tutti ne parlano con riverenza come di un luminare della traduzione! (3.12.1930).

Quello che può sembrare un semplice pettegolezzo tra sorelle nascondeva in realtà un problema ben noto nel panorama editoriale italiano della prima metà del Novecento, ovvero la carenza di buoni traduttori, soprattutto dall’inglese, che creò non pochi problemi anche a editori con spalle larghe come Mondadori (Bolchi 2015a e 2015b). Basti, come esempio, una lettera che Alberto Mondadori scrisse tempo dopo a Luigi Rusca, allora condirettore generale, il quale lo accusava di aver preferito, ai traduttori che conoscessero bene la lingua, i «grandi nomi» che però avevano regalato solo «obbrobri». All’accusa Alberto rispose che «avere un nome illustre fra quello dei traduttori è cosa tanto importante che merita ci si sobbarchi all’onere di una revisione fatta di sana pianta» (AAME, 13.5.1943, fasc. Luigi Rusca), provocando la replica di Rusca: «purtroppo i grandi nomi, per solito, non conoscono… che il francese. Quelli che conoscono l’inglese li abbiamo tutti» (AAME, 17.5.1943, ivi). Tra questi annoverava senza dubbio anche Scalero, dato che è riscontrabile in diverse lettere la stima di cui ella godeva in Mondadori, dettata non solo dalle sue conoscenze linguistiche, già inconsuete per l’epoca, ma soprattutto dalla sua sensibilità artistica e critica. Ne è un esempio uno scambio con lo stesso Luigi Rusca, il quale le scrisse in gran fretta il 16 febbraio del 1937 per comunicarle che avevano preso Gone With the Wind (Via col vento), chiedendole se volesse tradurlo lei, in quanto tempo e con quale compenso. Dieci giorni dopo, però, Rusca le riscrisse:

ripensandoci meglio e considerando che Ella dovrà prossimamente occuparsi del nuovo Aldington (già da noi chiesto ad Heinemann) e probabilmente anche del nuovo romanzo Woolf “The Years” (di cui l’editore ci annunciò oggi l’invio e che le trasmetteremo non appena ci giungerà), riteniamo sia più opportuno, e certo anche più piacevole per Lei, di lasciarla libera di dedicarsi con maggior calma a questi lavori più letterari e più adatti alla Sua personalità artistica (26.2.1937).

Alessandra Scalero era evidentemente considerata da Mondadori tra i traduttori più validi, da non impegnare sui lavori più commerciali ma sulla quale investire invece in termini di qualità. Un traguardo non indifferente per una donna che aveva iniziato a tradurre come «à côté» delle proprie occupazioni.

Da confidenti a consulenti

Liliana Scalero, al centro, con la sorella Maria Teresa e Julius Evola al castello di Montestrutto

Il periodo più interessante del carteggio tra le sorelle è senz’altro quello che risale agli anni trenta, durante il quale le due sorelle si trasformano da semplici confidenti in vere e proprie consulenti e collaboratrici. Certo fa sorridere la differenza di tono tra le due interlocutrici: se Liliana aveva la tendenza a evidenziare e lodare i propri pregi e le proprie capacità, Sandra più che a lodarsi tendeva a lamentarsi della scarsa fattività degli editori con cui collaborava, che avrebbe voluto più solerti e coraggiosi. Questi aspetti affiorano nei due scritti autobiografici di Liliana come anche in molte sue lettere, nelle quali non mancava di riferire i complimenti che amici “illustri”, come i filosofi Adriano Tilgher e Julius Evola – così distanti tra loro – , rivolgevano al suo lavoro e a lei. Significativa è, però, una lettera che Liliana scrisse ad Alessandra in risposta a una proposta di quest’ultima a collaborare con lei e il pittore Roberto Lemmi – che all’epoca lavorava per Modernissima come illustratore ma anche come assistente editoriale – a una rivista che pensavano di avviare:

Ottima l’idea della rivista lemmiana e auguri infiniti. Grazie per la collaborazione che mi offrite, con la mia facilità di scrivere un articolo al giorno vi sarò preziosissima. Eppoi credo di valere ormai qualcosa anche come “chiarezza critica”, e sfido su quel punto parecchi che vanno per la maggiore. Ho imparato da Tilgher, maestro riconosciuto di metodo critico, a “isolare” il problema di un libro o di uno scrittore ed esporlo al pubblico per informazione. Ché questo è l’ufficio della critica, non gli sbrodolamenti personali. […] Credo quindi che almeno da quel lato sarò utilissima alla vostra rivista. […] Date ai vari Emanuelli la consolazione di incensare o stroncare a piacimento gli amici, di parlare cioè del romanzo italiano, ed io posso occuparmi del romanzo contemporaneo straniero, su cui ho molte idee e la competenza non mi manca. Se ne potrebbe fare una specie di ‘galleria’, con esami particolareggiati di singoli romanzi ad ogni numero. Ogni volta un autore diverso, dei più significativi. Huxley, Dos Passos, Wassermann, Feuchtwanger, Arnold Zweig, ecc. ecc.

L’idea può essere ottima. Se volete poi della polemica, quest’anno ho aguzzato le armi. La polemica è réclame!! Attaccate l’It[alia] Letteteraria, gli organi ufficiali, fatevi rispondere e la gente compra il numero o per lo meno… se lo fa prestare per vedere le insolenze che ci si dice. Tanto la polemica è riserbata ora soltanto ai giornali e alle riviste di secondo piano, che così, per la freschezza delle idee e delle energie, vengono a mettersi in primo. […] Spero che gli Emanuelli mi lascino un po’ di posto e non mi opprimano con la loro maschile autorità. Sai che ho troppo talento e cultura per essere considerata “donna”, ciò che agli uomini viceversa fa così comodo per cacciarti sempre in secondo piano. E in fatto di chiarezza e modernità di idee li sfido tutti a singolar tenzone (5.5.1931).

La rivista non si concretizzò mai. Ma è notevole il tono compiaciuto e sicuro di sé di Liliana, che ella adottava spesso quando parlava del proprio lavoro, anche quando si trattava di traduzioni, come nel caso di Babbitt di Sinclair Lewis, che aveva tradotto per Modernissima, e riguardo al quale aveva scritto a Sandra per ringraziarla di una proroga concessale sulla consegna, aggiungendo:

Dato che sarò molto accurata nella traduzione e nello stile, spero di evitarti il noioso lavoro di correzione che mi pare dovesti fare tu per tante traduzioni. Certe espressioni che potevano essere dubbie, le ho tradotte suffragandomi con quella tedesca che la Casa Editrice Wall dice la sola autorizzata dall’autore (2.3.1930).

Quella traduzione però non doveva essere poi così accurata, dato che Alessandra, che la conosceva a fondo, dovette farglielo presente, pur senza ferire il suo orgoglio. «Io non vedo l’ora che venga fuori questo nuovo Babbit», le scrisse,

destinato a risollevare le nostre sorti e da tutti atteso. Chi ha fatto pubblicare la noticina sulla “Tribuna”? Lemmi sostiene che sei tu perché hanno scritto Babbit con un t solo – lapsus calami che ti è sfuggito per tutto il libro, ahimè, insieme con molti altri – ineguaglianze nei nomi, nella punteggiatura, varianti nelle espressioni: cose stupide, che solo a chi fa il lavoro tipografico non sfuggono (22.3.1931).

Come si evince anche da questo breve stralcio, nelle lettere di Alessandra ricorre il tema della fretta, del desiderio e della volontà di lavorare il più possibile senza poterlo fare a causa dell’ignavia degli editori.

Io sono alle prese con vari editori che mi fanno diventar matta – scrisse in quella stessa lettera – tutti vogliono notizie, consigli, poi vanno per le lunghe, non si decidono, sono incerti, e ci vuole un secolo, chilometri di energia prima di aver combinato qualche cosa. Io credo sia molto più facile, redditizio e semplice scrivere i libri che non occuparsi di scambi letterari (22.3.1931).

Più volte confidò alla sorella di essere stufa di «combattere con questa gente» perché, le scrisse,

il mondo editoriale in Italia sta diventando una cosa impossibile. Loro piangono, invocano i loro numi tutelari e dicono che si strappano le piume dal petto come i pellicani. Certo è che il nostro pubblico è di una ignoranza crassa, di un’avarizia sordida e di una boria incredibile, e la collezione economica di Sonzogno a 4,50 è proprio quella che gli sta bene (s.d., ma 1936).

Ciò che non le dava pace era lasciar “invecchiare” i romanzi che lei, con fatica, era riuscita a scovare, come successe con Manhattan Transfer di Dos Passos, che Alessandra tradusse nel 1930 e poi, «per l’ignavia di un editore bestiale» (come confidò in una lettera al critico e saggista Mario Praz, riferendosi a Gian Dàuli, 13.7.1933), restò a riposare nei cassetti fino a quando Dall’Oglio non rilevò la Modernissima e lo pubblicò nel 1933 col titolo Nuova York. La stessa cosa accadde con Etzel Andergast di Jacob Wassermann, secondo volume della trilogia completata da Il caso Maurizius (Der Fall Maurizius, 1928) e La terza esistenza di Joseph Kerkhoven (Joseph Kerkhovens dritte Existenz, 1934), che Scalero era riuscita a farsi mandare dall’autore prima ancora che venisse stampato in Germania, come leggiamo in un post scriptum a una lettera che scrisse a Liliana il 3 febbraio 1931: «Ti avverto che iersera ho trovato il povero Saita submerged sotto montagne di carta, come quel professore di Anatole France. Era, ahimè, l’“Etzel Andergast” ancora in bozze, arrivato allora fresco fresco da Berlino!!». Alessandra voleva ovviamente cavalcare l’onda del successo tedesco del Caso Maurizius e proporlo immediatamente ai lettori; si mise quindi presto al lavoro per tradurlo, salvo poi scontrarsi con Saita che non volle pubblicarlo. Pur confessando alla sorella di rinunciare «a litigarci per non farci una malattia», non si dava pace del fatto che nel giro di poche settimane sarebbe uscita l’edizione francese perché «si capisce che se anche io riesco, per miracolo, a pubblicarlo poi, sarà un libro morto, perché tutti lo compreranno subito. Poi gli editori si lamentano che non arrivano a vender le 2000 copie di certi libri, quando se ne sono già vendute 2000 dell’ed. francese».

Quello di cui Alessandra andava maggiormente fiera erano le sue scelte autoriali e la sua visione culturale; solo a proposito di simili questioni sentiva di poter affermare di aver fatto un buon lavoro, sebbene tendesse a lasciare che fossero altri ad affermarlo per lei, come quando raccontò alla sorella della soddisfazione che le derivava dall’aver proposto Jacob Wassermann, Artur Döblin e Thomas Mann alla Modernissima: «Tutti dicono che c’è voluto un gran coraggio da parte mia per imporre dei libri considerati così “mattoni”; ma è quello che dico sempre io: bisogna aver coraggio e insistere, e poi il libro va». Un coraggio di insistere e credere nella cultura che si presenta al lettore di cui, mi sia concesso dirlo, si sentirebbe ancora il bisogno.

I casi di collaborazione professionale tra le due Scalero da elencare sarebbero molti; ne scelgo qui due soltanto, perché rappresentativi della capacità delle sorelle di rendere complementari le rispettive competenze. Sono esempi che risalgono al periodo più prolifico di Alessandra, quello in cui lavorò per Mondadori, a partire dalla fine del 1932, quando le fu richiesto di tradurre Virginia Woolf per «la collezione nuova», ovvero la «Medusa», alla quale, come raccontò alla sorella «non ci dovrebbero essere che traduttori di élite, Linati, Prampolini, Rocca, ecc.» (1.12.1932). Dopo nemmeno un anno Mondadori la assunse addirittura a proprio «servizio esclusivo come traduttrice, con uno stipendio mensile fisso e molto vantaggioso» perché, come spiega a Liliana, «non si tratterebbe neppure di un lavoro “a forfait”, ma le traduzioni verrebbero conteggiate in ragione di circa 2000-2500 lire l’una» (22.11.1933). Alessandra poteva ormai dirsi a pieno titolo una «traduttrice di professione», come si definì in una lettera a Mario Praz (13.7.1933). Della prestigiosa «Medusa» Alessandra Scalero divenne un pilastro: in undici anni vi comparvero ben venti titoli tradotti da lei, sia dall’inglese che dal tedesco, tra cui best e long seller come Orlando di Virginia Woolf, Ogni passione spenta di Vita Sackville-West, Le avventure del capitano Hornblower di Forester, La prima moglie di Daphne Du Maurier. E nel frattempo riuscì anche, sotto lo pseudonimo di Rosa Induno per sfuggire all’esclusiva concessa a Mondadori, a continuare a collaborare col Corbaccio (vedi qui, nella rubrica Strumenti, l’elenco delle Traduzioni di Alessandra Scalero)

Il 29 gennaio del 1934 Alessandra rispose a una cartolina di Liliana che sembra essere andata perduta ma nella quale, come intuiamo dalla lettera di risposta, la sorella le chiedeva aiuto e consigli per preparare una conferenza sulle scrittrici moderne che era stata invitata a tenere.

Carissima, non appena ricevuta la tua cartolina ti ho fatto spedire da [Enrico] Piceni [uno dei principali collaboratori di Mondadori] un “Orlando” [il romanzo della Woolf da lei appena tradotto] e un almanacco della Medusa dove potrai trovare notizie sulla Woolf e forse altre cose che ti interessano. Ti spedisco pure un numero di Leonardo dove troverai qualcosa di mio sulla Mansfield, e il suo “Diario”, come pure un libro di Linati dove c’è uno studio sulla Woolf. Mi farai molto piacere se darai poi questi ultimi due libri allo zio Pierino quando verrà su. Il libro di Linati mi serve continuamente di consultazione; e il Diario l’ho regalato a Maria Teresa e non vorrei si perdesse. Vi unisco pure un buon articolo di Praz su “Flush”, rimandami anche quello.

Non ho ben capito se la conferenza tua considera queste tre scrittrici sole, o le scrittrici moderne in generale. Delle più recenti è molto buona l’americana Pearl Buck, se t’interessa chiedi tu stessa a Mondadori “La buona terra”, scrivendo direttamente a Piceni; e anche non dovresti dimenticare Colette. Delle tedesche c’è proprio solo Ricarda Huch che abbia un’opera complessa (oltre a qualche buona poetessa), è strano come la Germania abbia dato poche scrittrici in fondo.

Non so se potresti accennare anche a un’altra scrittrice abbastanza importante, perché è un “caso” tipico e tutt’altro che trascurabile, cioè Radcliffe Hall. Ma le signore faranno les hauts cris… Se mai ti occorresse, ti farò spedire il “Pozzo della solitudine” e la “Stirpe di Adamo”, che io non conosco ma che mi dicono sia bellissimo.

Scusami se scrivo così breve, ma da Mondadori mi tempestano per quel benedetto “Flush” e siccome la traduzione di “Orlando” è stata un successo lavoro d’impegno anche a quella (29.1.1934).

È interessante la scelta di nomi di Alessandra; il suo sguardo sul panorama letterario femminile dei primi anni trenta era scevro di pregiudizi, pur consapevole del peso che questi potessero avere nella presentazione di un’opera in un contesto “difficile” come quello dell’Italia fascista. Oltre alle scrittrici di cui si era occupata personalmente, traducendole (come nel caso di Virginia Woolf) o scrivendone (come per Katherine Mansfield), propose scrittrici come la Huch, che aveva recentemente fatto parlare di sé per aver pubblicamente criticato l’antisemitismo del regime nazionalsocialista, o come Radcliffe Hall, una scrittrice notoriamente omosessuale il cui The Well of Loneliness, pubblicato nel 1928, era stato tradotto in italiano nel 1932 come Il pozzo della solitudine da Annie Lami per la collana «Scrittori da tutto il mondo» di Corbaccio.

Liliana era solita chiedere consiglio e aiuto alla sorella maggiore quando si trattava di indicazioni di autori contemporanei, e soprattutto di cultura americana. Si rivolse infatti a lei, per ricevere i suoi «autorevoli consigli», anche a proposito di una «rubrica mensile di tutto ciò che riguarda la donna nel mondo all’estero», che le era stata chiesta da Ester Lombardo per il periodico «Vita femminile» che questa dirigeva (21.5.1934); ma anche per una «Rassegna sintetica delle traduzioni di libri stranieri (i più belli e importanti, si sa) comparse in Italia dall’autunno del ’33 a quello del ’34» (20.9.1934) che le era stata chiesta per l’Almanacco Bompiani. Alessandra si affrettò a rispondere a entrambe le richieste offrendo consulenza e consigli, e contribuendo in questo modo a delineare i contorni della cultura straniera in Italia.

Alessandra era ormai «una delle collaboratrici più attive della Medusa» scriveva lo stesso Luigi Rusca (12.3.1937), che si rivolgeva spesso a lei per consulenze oltre che per traduzioni, come si evince da diverse lettere. Ne è un esempio quella del 12 marzo 1931, quando le scrisse per chiederle «se esiste qualche cosa di inedito e di interessante di Richard Aldington» e se lei avrebbe saputo indicare «qualcos’altro di buono che non sia ancora conosciuto in Italia», o anche per informarsi se «sulla Woolf uscì qualcosa di popolare» (12.3.1937: la sottolineatura è nel testo). Anche Gian Dàuli si era affidato alla competenza di Scalero per la sua Modernissima, come nel caso di Berlin Alexanderplatx di Alfred Döblin, pubblicato nel 1931 col titolo Berlin Alexanderplatz. Storia di Franz Biberkopf (nella traduzione di Alberto Spaini) che, scopriamo dalle carte custodite nel Fondo Scalero, fu il primo libro scelto e imposto da Alessandra per la casa editrice. Quando Dàuli decise di rimettere in piedi la Modernissima nel 1943, necessitando quindi più che mai di preziosi consigli in merito agli autori da inserire nelle collane, si rivolse proprio ad Alessandra Scalero nella speranza che lei volesse aiutarlo per questo suo «ritorno all’editoria» (26.3.1943, in AGD, busta 24, fasc. 12).

Capitava anche, però, che fosse Alessandra a chiedere aiuto in materia di traduzione, a proposito di singole espressioni tedesche sulle quali era necessario un confronto, oppure quando, troppo pressata dal lavoro, chiedeva a Liliana di tradurre per lei alcune pagine di libri particolarmente lunghi, come accadde con l’Etzel Andergast di Jacob Wasserman o anche con Galsworthy, per il quale Gian Dàuli aveva molta fretta per cui a Sandra non restò che spedirne una parte a Liliana «pregandola di mettere in opera la tua ben nota rapidità e abilità» e riguardo al quale aggiungeva una indicazione sullo stile: «ho fatto troppo presto a dire che Galsworthy era una barba, son delle cose bellissime e veramente classiche. Guarda che io ho cercato di mantenere il tono un po’ “vecchiotto” e “victorian”; quantunque questi due sketches qui siano moderni e forse avranno un altro tono» (16.11.1931). Spesso però Liliana, più incostante di Alessandra, andava tanto per le lunghe che quest’ultima finiva col trovarsi in ritardo sulle consegne in attesa di ricevere le poche pagine chieste in aiuto. Una lettera è particolarmente interessante, non datata ma risalente molto probabilmente agli ultimi mesi del 1933, dato che in quel periodo Alessandra stava traducendo All Passion Spent di Vita Sackville-West per la «Medusa» Mondadori. Anche in questo caso aveva chiesto un aiuto alla sorella per la traduzione dei versi di John Milton e Christina Rossetti che aprono le tre parti in cui è diviso il romanzo, poiché Alessandra non era esperta traduttrice di poesia mentre Liliana preferiva tradurre versi che prosa. A proposito del verso di Milton, che poi è il titolo del romanzo, le scrisse:

Carissima, vengo a darti uno dei soliti dispiaceri, cioè avrei qualche verso da tradurre. Non c’è nessuna urgenza per le strofe della Rossetti, e non ci sarebbe nemmeno nella prima (io posso benissimo consegnare la traduzione, che ho quasi finito, e mandare poi i versi col tempo). Ma c’è questo. Il libro si chiama “All Passion Spent” dalle ultime parole dei versi, come vedi. Io avevo pensato, grosso modo, a un titolo come “Quando ogni passione è spenta” (veramente spent non è proprio spento, ma piuttosto consumato, finito, logorato, ecc…, da “spend”); ma, a parte che è un titolo lungo, non so se si accorderebbe col verso. Credi che si possa? O, in caso non ne risultasse un titolo armonioso, converrebbe allora cambiarlo? Ma io non vorrei intralciare le intenzioni dell’autrice. Se tu avessi un momento di tempo, vedi se tu potessi risolvermi la questione; magari, se vuoi, tradurrai poi la strofa con comodo. Si potrebbe anche dire semplicemente “Ogni passione spenta”. Consegnando la traduzione (cosa che dovrei fare andando a Milano la settimana ventura), bisogna decidere anche la questione del titolo (s.d., ma del 1933).

Purtroppo la risposta di Liliana sembra essere andata perduta e non sappiamo dunque che cosa suggerì alla sorella; sappiamo però che il romanzo uscì nel 1935 con il titolo Ogni passione spenta per la «Medusa» Mondadori. Questa lettera desta comunque interesse per l’attenzione di Scalero al rispetto delle «intenzioni dell’autrice», nel tentativo di dare la corretta interpretazione ai singoli termini, pur mantenendo il senso dei versi di Milton, e con l’attenzione sempre rivolta alle necessità editoriali di avere un titolo breve e accattivante. Quando Liliana spedì i versi tradotti, Alessandra le mosse un’obiezione a una delle terzine della Rossetti:

proprio soltanto per scrupolo di coscienza […]. La tua interpretazione mi pare meno aderente al testo delle altre; nel senso che interpreta un poco diversamente il senso letterale.

Per chiarezza ritrascrivo qui il testo e la tua traduzione.

This life we live is dead for all is breath;
Death’s self it is, set off on pilgrimage,
Travelling with tottering steps the first short stage.

Spegne il respiro questa vita nostra;
ecco la Morte in suo pellegrinaggio,
su breve scena barcollante viaggio.

Ora ecco come io interpreterei letteralmente: Questa vita che noi viviamo è morta malgrado il suo respiro – È la morte stessa che va in pellegrinaggio E che con barcollante passo compie la prima breve tappa.

In sostanza: questa nostra vita non sarebbe che una prima tappa della morte. In questo caso, io interpreterei “stage” come “tappa” e non come “scena”. (14.1.1934; sottolineature nel testo)

Alessandra rivide infatti completamente la terzina, che troviamo in apertura della terza parte del romanzo della Sackville-West tradotta come segue:

 Spento è il respiro della nostra Vita;
È la Morte che in suo pellegrinaggio
Vacilla i primi passi del suo viaggio (Scalero 2008, 103).

Queste due lettere provano proprio ciò che afferma Munday sulle carte d’archivio, ovvero che esse sono interim products which offer crucial and more direct access to the creative process that is literary translation and provide written evidence of the translator’s decision-making (Munday 2013, 126: «prodotti temporanei che offrono un cruciale e più diretto accesso a quel processo creativo che è la traduzione letteraria e forniscono una prova scritta del processo decisionale del traduttore» – Traduzione mia).

«Un giorno sentiranno la mia voce»

Una vita quasi tutta a distanza, quella delle Scalero, tra Roma, Avellino, Nizza, Torino, Parigi e una Milano nel pieno vortice editoriale degli anni trenta. È proprio questa distanza a regalarci la loro lunga corrispondenza, che oltre a raccontare la crescita e il maturarsi di Alessandra Scalero tanto sul piano personale quanto su quello professionale, offre uno spaccato della vita degli intellettuali dell’entre-deux-guerres. Fin dalle prime lettere scritte in gioventù, i cui racconti riguardano soprattutto giovani spasimanti, amiche, abiti e caffés dansants, troviamo riferimenti a letture, musica, arte. Riferimenti che man mano acquistano spazio sui fogli, fino a occuparli interamente, e non lasciar spazio ad altro che alla scrittura, alle traduzioni, al giornalismo, alla letteratura, in una parola: al lavoro, che Alessandra non riusciva mai a rifiutare, «un po’ per il denaro, che di questi tempi va via così rapidamente, un po’ per la passione…» (26.8.1943).

La corrispondenza, ricca e affascinante, si interrompe bruscamente nel giugno del 1944; un mese dopo Alessandra venne infatti ricoverata per rimuovere un tumore all’utero, del quale il chirurgo non aveva voluto informarla perché ormai in stadio troppo avanzato. È quanto apprendiamo da una lettera che lo zio Mario Delgrosso scrisse a Liliana Scalero il 28 luglio 1944, per informarla dei dettagli riguardo al decesso della sorella, e nella quale spiega che Alessandra era entrata in ospedale il 17 luglio, «sempre allegra» e senza «dare peso alla cosa». Gli zii Delgrosso però, preoccupati, si erano rivolti al chirurgo, amico di famiglia, e questi aveva detto loro «che a Sandra, come si usa in questi casi, aveva detto trattarsi di una cosa benigna ma che invece si trattava di un carcinoma all’utero già in stato molto inoltrato» (28.7.1944). Ulteriore conferma del fatto che Alessandra ignorasse la gravità della propria malattia si trova nell’ultima lettera che ella spedì all’editore Gian Dàuli tre giorni prima del ricovero, per avvisarlo che «per un po’ di tempo» non sarà più in grado di scrivere. «Quest’anno la Provvidenza – chiamiamola così – ce l’ha proprio con me!» gli scrisse, informandolo che il chirurgo primario dell’ospedale di Ivrea le aveva trovato certe

“escrescenze” di natura un po’ dubbia, per cui consiglia l’immediata operazione. Non ti dico in che stato d’animo sono – in completa solitudine, lontana dai miei… Insomma, sorvoliamo su tutto questo, perché lunedì entro all’ospedale, e ho un mondo di cose da sistemare in questi due giorni: la casa da chiudere e lasciare in ordine, il lavoro, ecc., e sono proprio stanca e demoralizzata. In programma c’era una lettera per te, anzitutto per annunciarti la lieta novità, e per raccomandarti vivamente – le nostre idee s’incontrano – il Milionario dei due scrittori russi Ilf e Petrov. L’ho riletto in questi giorni – è una cosa grande, un romanzo satirico scritto con rara eleganza, e mi sembra che oltre a tutto, dovrebbe inquadrarsi molto bene nel programma di Modern[issima (14.7.1944, in AGD, Busta 22, fasc. 2).

Alessandra si riferiva evidentemente al progetto di traduzione del Vitello d’oro (Zolotoj telenok) di Il’ja Il’f e Evgenij Petrov, che sia lei che l’editore dovevano conoscere nella traduzione francese, intitolata Un millionaire au pays des Soviets, se ne fanno riferimento come “il Milionario”. La lettera a Dàuli prosegue col consueto entusiasmo e la solita profusione di idee, progetti e spunti di lavoro, e Sandra la concluse informandolo che contava di stare all’ospedale fino ai primi di agosto, chiedendogli però di scriverle pure, «anche di cose di lavoro». Venne operata il 18 luglio, e l’operazione fu «grave e lunga», poiché «il cancro aveva già invaso parecchi organi», tanto che dopo tre giorni iniziarono febbre e delirio dovuti a setticemia, che la portarono alla morte il 24 luglio (28.7.1944).

Scomparve così a 51 anni una traduttrice pioneristica, che aveva dedicato gran parte della propria vita a importare cultura restando sempre in secondo piano, pianificando e lavorando alacremente per la riuscita e la fama di altri. Dopo la pubblicazione di Berlin Alexanderplatz Alessandra aveva scritto alla sorella di aver provato grande soddisfazione nel vederlo «étalé in edizione di lusso, economica ed eziandio numerata», spiegandole che era «una certa emozione perché in fondo è il primo libro scelto e imposto da me; e certo G. Dàuli (che non l’ha letto) ci troverà a ridire, o non andrà, o sarà troppo crudo, o non gli piacerà. Per fortuna Saita ne è entusiasta»; aveva infine confidato alla sorella che la settimana successiva sarebbe andata «in pompa magna da Borgese» a portargli il volume (15.2.1931). Il 27 febbraio però le riscrisse lamentandosi del fatto che Dàuli e Saita erano andati «da Borgese per portargli il Döblin» senza dir nulla a lei, che lì per lì si prese «un’arrabbiatura», salvo poi concludere, col consueto pragmatismo: «pare che Borgese si sia dichiarato entusiasta del libro […]. Un bel giorno farò come l’Angiolina di Arabella, e canterò anch’io e allora sentiranno per davvero la mia voce» (27.2.1931). Sono passati ottantasette anni da quella mancata visita a Borgese, ed è forse arrivato il momento di ascoltare la voce di Alessandra Scalero così come si rivela nelle sue lettere, per far luce sul ruolo che ebbe nella costruzione culturale dell’Italia del primo Novecento.

Riferimenti archivistici e bibliografici

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