Una rettifica

di Teresa Prudente

Rettifica delle informazioni non corrispondenti al vero contenute nell’articolo Gli allievi / Miseria e splendori dei corsi di Lingua e traduzione inglese all’Università di Torino di Mattia Venturi, in «tradurre. pratiche, teorie, strumenti», numero monografico a cura di Giulia Baselica, Aurelia Martelli e Paola Mazzarelli, n. 15 (autunno 2018)

Il primo corso a cui l’articolo fa riferimento è inequivocabilmente riconoscibile come l’insegnamento di Lingua e traduzione inglese da me tenuto per i corsi di laurea magistrale del Dipartimento di Studi umanistici, Università di Torino, nell’anno accademico 2016/2017. Purtroppo, l’articolo contiene una quantità impressionante di informazioni false e distorte rispetto allo svolgimento del corso e alle modalità di esame. Confidando nella volontà della rivista di offrire ai lettori fatti corretti e verificati, punto di partenza imprescindibile dell’informazione, così come della riflessione che il numero della rivista intendeva proporre sulla didattica della traduzione, ho proceduto, nel testo che segue, alle indispensabili correzioni dei fatti riportati.

1.

La Professoressa A si presenta con una lunga serie di pubblicazioni: monografie, saggi in volume e articoli su riviste internazionali e non, perlopiù critica di autori modernisti inglesi. Nessun saggio che riguardi la traduzione e una sola traduzione all’attivo.

Lo studente pare fare riferimento al curriculum della docente presente sul sito dell’Università di Torino, e la traduzione in questione è la seguente: William Shakespeare, The Two Noble Kinsmen / I due nobili congiunti, traduzione, cura e introduzione di Teresa Prudente, in William Shakespeare, Tutte le opere, Volume II, Le Commedie (con testo a fronte), coordinamento generale di Franco Marenco, Milano: Bompiani, 2015, pp. 1921-2169, note pp. 2274-2295.

Sarebbe stato utile alle finalità stesse della rivista che la specifica «sola traduzione» citata dall’autore (https://rivistatradurre.it/2017/05/una-giornata-di-studi-utile-alla-riflessione/), certamente ben nota ad almeno una delle curatrici del numero, fosse oggetto di una riflessione pur minima sulle sue implicazioni, di ricerca, filologiche, di storia della lingua e della letteratura, e di stilistica, così come sulla complessità delle scelte traduttive che essa richiede. Tali elementi erano, del resto, ravvisabili anche in altre voci del curriculum (2013: Research Fellowship presso la Shakespeare Folger Library, Washington; relazioni a convegni) che indicano, per la citata edizione, un lavoro (di studio, ricerca e traduzione) di almeno due anni. Sarebbe anche stato opportuno indicare, come ben noto a curatrici anch’esse docenti universitarie, che non è corretto, né legittimo, giudicare l’attività di «traduttrice» della docente facendo riferimento al suo curriculum accademico, dal momento che i CV pubblicati sul sito dell’Università riportano le voci pertinenti al profilo universitario (formazione, ricerca, didattica) e, secondo i parametri di valutazione per l’area a cui afferiscono le due docenti di cui parla l’articolo (area 10), sono da considerarsi come pubblicazioni scientifiche solo le traduzioni dotate di introduzione e apparato critico. L’attività di traduttrice da me svolta negli anni 2002-2016 per case editrici, agenzie di traduzione e di comunicazione, portali commerciali e culturali, così come le traduzioni pubblicate nell’ambito di tale attività, correttamente non compaiono nel mio CV accademico, se non, in alcune versioni di esso, alla voce «ulteriori attività lavorative», essendo queste, secondo i parametri vigenti (e che si sia d’accordo con essi oppure no), da considerarsi tali rispetto al profilo scientifico. Al di là dei dati di fatto, resta il rammarico per il fatto che le curatrici del numero non abbiano colto l’opportunità di invitare alla riflessione, e condurre alla consapevolezza che non dimostrava di avere, uno studente che affermava di considerare poco qualificata per la didattica della traduzione una docente che, a quanto risultava a lui, aveva tradotto “solo” Shakespeare.

2.

La parola traduzione appare appena nel trafiletto in fondo al programma […] mi chiedo cosa differenzi questo corso da uno di letteratura inglese.

Dal momento che l’articolo propone una comparazione fra la presentazione dei due corsi online, si dovrebbero riportare, rispetto al corso della Professoressa A, gli stessi elementi riportati rispetto a quello della Professoressa B. Nel secondo caso si è proceduto ad un fedele copia-incolla delle sezioni «risultati dell’apprendimento attesi» e «programma». Nel primo caso, invece, è stato offerto un riassunto delle due sezioni che ometteva, rispetto ai «risultati dell’apprendimento attesi», le voci relative alle abilità linguistiche (nelle due lingue) e traduttive. La presentazione online del corso chiariva anche che l’attività didattica sarebbe coincisa con «il lavoro di traduzione in classe» (corsivo aggiunto qui). Tali informazioni, così come le seguenti che avrò modo di citare, sono ancora consultabili alla pagina del corso: https://culturecomparate.campusnet.unito.it/do/storicocorsi.pl/Show?_id=k40i_1617.

3.

L’unica cosa che mi lascia perplesso è il passaggio continuo tra italiano e inglese della professoressa, un po’ imprevedibile e senza apparente cognizione di causa. Dà l’impressione di un pasticcio linguistico.

La prova orale dell’esame, non menzionata dall’articolo, richiedeva agli studenti di commentare in inglese le proprie scelte traduttive, ed era dunque indispensabile “esporre” gli studenti a tale commento in lingua, in maniera che acquisissero, o rafforzassero, le competenze richieste. Ovviamente, oltre all’inglese, anche l’italiano è ampiamente presente all’interno di un corso di traduzione dall’inglese all’italiano, per l’importanza, già chiarita nella presentazione online del corso, della competenza nella lingua di arrivo e dell’analisi contrastiva delle due lingue. Mi è sempre risultato naturale, del resto, attingere, per la mia didattica della traduzione, ai vari ambiti della mia formazione (laurea in lettere, indirizzo di filologia moderna; dottorato in letterature comparate, con specializzazione nell’anglistica) e alle mie esperienze didattiche non solo nel campo dell’anglistica (insegnamento presso gli istituti superiori nella classe di italiano e latino, e italiano e storia): come dico spesso agli studenti, si tratta di competenze estremamente utili, per l’efficacia della resa in italiano, ma anche per l’importanza cruciale, spesso dirimente per le scelte traduttive, dell’etimologia e della storia delle lingue. Certo, nulla vieta che si tengano il corso e gli esami interamente in italiano, per evitare quelle che, nell’introduzione, le curatrici del numero della rivista definiscono le «situazioni paradossali come i corsi di traduzione verso l’italiano tenuti nella lingua straniera»; la mia scelta di utilizzare l’inglese è volta a permettere agli studenti di mettersi alla prova attivamente con la lingua straniera, come ritengo utile e come gli studenti stessi, anche nelle eventuali difficoltà, dimostrano di voler fare. Si è del resto più volte sottolineato, nel corso delle lezioni, l’importanza, per un traduttore, anche della conoscenza e abilità nel parlato della lingua da cui traduce, senza le quali inevitabilmente sfuggono sia alcuni dei possibili registri, sia i livelli fonici/fonologici (e spesso fono-simbolici) dei testi originali.

4.

I miei appunti delle prime due settimane sono cosparsi di definizioni. Formalismo, strutturalismo, post-strutturalismo e poi narratività, multidimensionalità, aforismi di Hermann e Jakobson.

Come lo studente dimostra di ricordare, dal momento che il titolo e il testo dell’articolo riprendono (sarcasticamente) il saggio di Ortega y Gasset da me spiegato a lezione, i riferimenti alle correnti di teoria letteraria sono stati introdotti in relazione ai testi teorici sulla traduzione affrontati a lezione. Dal momento che i testi appartengono a momenti storico-culturali e correnti di pensiero diversi (Benjamin, Ortega y Gasset, Ricoeur), e verificato in classe che gli studenti non avevano sufficiente conoscenza pregressa in merito, si è reso necessario fornire brevemente tale contesto. Dispiace che lo studente abbia appuntato in forma di «aforisma» quelle che sono state, in verità, spiegazioni necessariamente concise, ma quanto più possibile puntuali rispetto al contesto, la collocazione nella storia del pensiero, le premesse e la metodologia di ciascuna corrente. Per mettere poi ordine negli appunti dello studente: Jakobson è stato spiegato, come spesso avviene nei corsi di lingua e traduzione, come tappa fondamentale della riflessione sul processo traduttivo; i punti chiave della narratologia cognitiva di David Herman (non Hermann, come nell’articolo) sono stati spiegati, in altra lezione, in quanto esito più aggiornato del percorso di riflessione sul concetto di «narratività» utile per analizzare e comprendere la struttura dei testi, appartenenti a generi diversi, che avremmo tradotto.

5.

E infatti per la quinta lezione dobbiamo portare una nostra traduzione delle prime due cartelle di un racconto tratto da The Dubliners.

Dopo avere introdotto l’autore e il racconto, gli studenti sono stati invitati, se volevano, ad avviare la propria traduzione del testo, che avrebbero portato all’esame orale, per avere la possibilità di discuterla in classe. Si fa notare che il titolo della raccolta è Dubliners (senza articolo); l’errore viene ripetuto più avanti nel corso dell’articolo.

6.

Poi si è iniziato a parlare di tecniche di rappresentazione della coscienza e del tempo.

Corrisponde al vero che si è ritenuto necessario, per affrontare la traduzione del testo proposto, richiamare, attraverso la teorizzazione della stilistica (Terracini, Cohn, Banfield), la varietà delle tecniche utilizzate dagli scrittori per “rendere la coscienza” (monologo interiore, discorso indiretto libero, forme miste): si tratta di una competenza indispensabile per evitare, se possibile, di apportare in traduzione cambiamenti sostanziali rispetto al punto di vista e alla tecnica narrativa, o per essere, perlomeno, consapevoli che si stanno apportando tali cambiamenti, andando così ad influire sulla ricezione del testo nella cultura di arrivo. I testi modernisti, ovviamente, offrono spunti determinanti da questo punto di vista, così come tutta la varietà di testi di altro periodo e genere che la docente ha, per questo motivo, proposto, negli anni, agli studenti per la traduzione in classe (per esempio: William Shakespeare, Lewis Carroll, Jane Austen, Doris Lessing) e come prove d’esame. Dispiace verificare che lo studente, seppure presente, a suo dire, alle lezioni sull’argomento, sia rimasto convinto che Eveline sia racconto scritto secondo la tecnica del “flusso di coscienza” – e che l’errore strutturale non sia stato notato nemmeno dalle curatrici del volume («Per cercare di mantenere tutto si dà al testo un andamento sincopato che di certo non si potrebbe chiamare flusso, tanto meno di coscienza»). Le lezioni erano volte proprio a fare acquisire agli studenti la conoscenza e consapevolezza specifica, rispetto alle tecniche citate, indispensabili per evitare errori basilari di tale genere, spesso forieri, purtroppo, come ben noto a chi si occupa di analisi delle traduzioni, di consistenti snaturamenti del testo originale.

7.

She sat at the window. Non senza dispiacere, ci troviamo tutti d’accordo sul perdere la connotazione di genere.

L’autore dell’articolo non deve avere notato che, dopo esserci soffermati a lungo sulla frase citata, sono emerse, da parte dei suoi compagni, due proposte traduttive che permettevano di mantenere la connotazione di genere.

8.

Dal secondo periodo in poi si afferma quella che sarà la modalità di traduzione in classe: si legge la frase, la Professoressa A. chiede ad alcuni come hanno deciso di tradurla, si discute un po’ e alla fine si sceglie la versione della Professoressa A.

Come lo studente stesso riporta nei suoi appunti, la docente ha insistito fin dall’inizio sulla messa in discussione dell’idea della traduzione giusta («La traduzione è un processo imperfetto. Non può essere mai completo»). La scelta di spiegare agli studenti i testi teorico-filosofici sopra citati, come chiaro a chiunque ne abbia familiarità, era proprio volta ad indicare agli studenti tale concezione aperta della traduzione, mettendo in discussione i concetti di “equivalenza” e di (unica) “soluzione giusta”. Nella (lunga e varia) esperienza della docente nell’insegnamento di corsi universitari di traduzione (esperienza che, peraltro, deve avere anche, purtroppo, determinato una corruzione della sua apparenza, non più “giovane”, come lo studente fa capire, utilizzando parametri di comparazione decisamente preoccupanti fra le insegnanti di sesso femminile – ripresi anche nella caratterizzazione stereotipata altrettanto discutibile delle sue compagne di corso: «la ragazza occhialuta»), può rendersi necessario mettere più volte in chiaro, se quello è il metodo scelto, che non verrà fornita la traduzione “giusta”, propria o di altri, perché questa è invece, spesso, l’aspettativa degli studenti. Si tratta di ciò che è avvenuto a quel corso, e in tutti i miei corsi di traduzione, e, del resto, come ben visibile agli studenti, avevo, come sempre, evitato di preparare una mia traduzione scritta, in maniera da non risultarne, anche involontariamente, influenzata e potere ragionare invece, insieme agli studenti, di volta in volta, sulle loro proposte traduttive. Non si intende certo affermare che questo sia il metodo che si deve seguire per la didattica della traduzione, anzi esso è certamente, come ogni metodo, discutibile e migliorabile: risulta tuttavia straniante e incomprensibile la descrizione volutamente ribaltata che di esso l’articolo offre. La riflessione in classe sulle traduzioni degli studenti si è sempre chiusa con il convenire che alcune scelte non erano adeguate, per errori di comprensione del testo o per motivi grammaticali (che era mio dovere didattico indicare), altre lo erano, in gradi e forme diverse, dal momento che potevano implicare una trasformazione consistente del testo nelle sue specifiche stilistiche (punto di vista, ripetizioni, figure retoriche, ecc…), e richiedevano dunque, se percorse, operazioni di compensazione. Come la docente, poi, non si è mai stancata di dire, le scelte traduttive emerse durante le lezioni andavano riverificate da ogni studente nel contesto della coerenza della propria traduzione. Se, peraltro, lo studente avesse affrontato, come invece non è avvenuto, anche la prova orale del corso, avrebbe verificato che nessuna sua scelta traduttiva gli sarebbe stata contestata, se non nel caso in cui fosse stata sbagliata negli aspetti sopra chiariti – come possono testimoniare i moltissimi studenti che hanno invece sostenuto anche tale parte dell’esame: gli sarebbe stato richiesto di motivare la sua scelta, e ne sarebbe, con ogni probabilità, scaturita una discussione interessante e fruttuosa anche per la docente, come, per fortuna, è in genere successo agli esami orali del corso.

10.

mantenere i possessivi perché per Joyce sono importanti.

Sfugge all’autore dell’articolo, ed è bene richiamarla, non essendo accettabile che venga attribuita alla docente un’indicazione didattica chiaramente sbagliata, l’articolata spiegazione fornita in classe sulle differenze grammaticali, fra l’inglese e l’italiano, relative all’uso dei possessivi. Dopo tale premessa, volta ad indicare agli studenti come evitare comuni calchi linguistici nelle traduzioni, la docente ha sottolineato come vada anche tenuta in considerazione la possibile funzione connotativa dei possessivi, che può, in alcuni casi, superare la semplice definizione grammaticale, e come si debba essere consapevoli, in quei casi, delle conseguenze della loro rimozione nella traduzione.

11.

C’è poca voglia di intervenire da parte degli studenti.

Come lo studente stesso indica, il corso è stato frequentato, in maniera costante, da 50-60 studenti, che condividono con la docente ricordi molto diversi dello svolgimento e della partecipazione. Non si comprende, del resto, vista l’insoddisfazione che l’autore attribuisce anche ai suoi compagni, perché un numero così alto di studenti si sarebbe dovuto infliggere, con ostinata costanza, la partecipazione a un corso la cui frequenza non era obbligatoria, per di più in orario 8-11. Al di là dei ricordi, delle impressioni, del dato della frequente scelta di iterazione dell’esame, e del numero alto di tesi in traduzione richieste alla docente come esito di quel corso, così come dei corsi precedenti, esistono i dati oggettivi della valutazione didattica. Questa viene effettuata obbligatoriamente dagli studenti per accedere alle prove d’esame, attraverso un questionario online compilato in forma anonima. La docente ha avuto cura di fare pervenire alla rivista i .pdf relativi alla valutazione del corso in questione sia rispetto alla didattica sia rispetto alle prove d’esame. Il numero degli studenti che hanno compilato la valutazione indicandosi come frequentanti è di 58. Gli indici di soddisfazione relativi alla didattica sono pienamente positivi nella risposta a tutte le domande del questionario, con un minimo di valutazione positiva del 77,78% e un massimo del 92,86%. I questionari relativi alla soddisfazione in merito alle prove d’esame sono ugualmente ampiamente positivi, da un minimo del 94,44% ad un massimo del 100% di soddisfazione. Si fa notare che tali dati sono accessibili a tutti i docenti dell’Università di Torino, ed era dunque nella disponibilità delle curatrici del volume docenti presso la stessa struttura verificarli, in maniera da appurare, come necessario se ci si assume la responsabilità della scelta di testi da pubblicare, l’attendibilità e l’incidenza statistica del parere offerto dall’articolo: invece, nonostante i dati a disposizione, si è scelto di pubblicare un articolo che descriveva un grado di (in)soddisfazione generale del corso, anzi, più precisamente, che presentava il corso come un esempio delle “miserie” (sic) della didattica dell’Università di Torino, in palese contraddizione con l’effettivo riscontro fornito dalla gran parte degli studenti.

11.

È stato un duro lavoro – una vita dura – ma siamo arrivati alla fine del racconto e anche delle lezioni. Rispetto al programma bisogna segnalare che non abbiamo affrontato generi diversi, nemmeno racconti diversi.

Come preannunciato dal programma disponibile in rete, si sono affrontate, in classe, esattamente l’analisi e la traduzione di «un corpus di testi appartenenti a generi diversi (letterario, giornalistico, nuovi media)». Il corso ha affrontato l’analisi e la traduzione di un racconto, Eveline (James Joyce, Dubliners), l’analisi di tre traduzioni pubblicate del racconto (Franca Cancogni, 1949; Margherita Ghirardi Minoja, 1961; Attilio Brilli, 1974), e l’analisi e la traduzione di tre brevi narrazioni, in prima persona, pubblicate nella sezione online di «The Guardian» intitolata Immigrants in their own words: 100 stories. Tutto il lavoro svolto in aula è riportato nei materiali didattici caricati sul sito del corso durante lo svolgimento delle lezioni e tuttora in linea.

12.

La prova consiste nella traduzione di due cartelle di un testo appartenente a uno dei generi affrontati in classe […] Due ore di tempo. [… ] Noto con disappunto che non è stato inserito tutto il racconto ma solo le due cartelle che dobbiamo tradurre.

Le ore a disposizione per la prova scritta non sono due ma tre. Nel caso in questione, l’autore dell’articolo ha svolto l’esame il giorno 11 aprile 2017, dalle ore 10 alle ore 13. L’estratto proposto per la prova scritta di traduzione del corso non supera mai le 25 righe: non equivalenti, come ovvio, a “due cartelle” di testo. Il testo della prova di traduzione descritta dall’autore constava complessivamente delle prime 21 righe (348 parole) del racconto.

13.

Dopo qualche giorno arriva per mail il risultato della prova: 26/30. Rifiuto e vado avanti.

Non risulta che l’autore dell’articolo abbia mai rifiutato il voto dello scritto, né attraverso l’apposita funzione del sistema online ESSE3, attraverso il quale i voti sono comunicati agli studenti, né attraverso una comunicazione via mail alla docente. Lo studente non ha, invece, superato l’esame perché non ha affrontato, nel periodo di validità della sua prova scritta (sessione di aprile 2017 – sessione di aprile 2018), la seconda parte prevista: la prova orale di cui l’articolo non fa menzione. Ciò risulta piuttosto strano, dal momento che, in tale parte dell’esame, lo studente avrebbe potuto non solo migliorare un voto dello scritto che evidentemente non lo soddisfaceva, ma anche vedere attese le aspettative che manifesta nell’articolo rispetto alla didattica della traduzione. Come chiarito infatti dalla presentazione online del corso, e dalla docente in aula, per la prova orale lo studente avrebbe dovuto discutere le proprie scelte traduttive.